giovedì 25 dicembre 2008

L'affermazione del sistema copernicano

Quando è che una toria scientifica si afferma? Quando riesce meglio di altre a spiegare i dati sperimentali. Quando è che una nuova teoria scientifica ne soppianta una vecchia? Quando dimostra in modo inequivocabile di essere più efficiente e precisa nel prevedere i risultati di osservazioni ed esperimenti.

Stando al bellissimo libro di Thomas Kuhn, La Rivoluzione Copernicana, queste affermazioni non sono così scontate, almeno non lo sono poi così tanto nella vicenda storica che portò al successo del sistema copernicano su quello tolemaico.

Dal punto di vista della precisione con cui venivano calcolati e previsti i movimenti e le posizioni degli astri nel cielo il sistema eliocentrico, al momento in cui venne introdotto da Copernico, non risultava essere oggettivamente superiore al sistema geocentrico fino ad allora accettato. Quest'ultimo, dopo circa tredici secoli dalla sua rigorosa formulazione da parte di Tolomeo nel suo Almagesto, forniva algoritmi estremamente sofisticati e in molti casi piuttosto precisi nei risultati numerici, sicuramente competitivi rispetto a quelli introdotti da Copernico nel suo De Revolutionibus Orbium Caelestium.

Certamente gli schemi di calcolo di un sistema del mondo che metteva al centro il sole sono risultati sin da subito più semplici, soprattutto se applicati al complesso problema del moto dei pianeti. Si sa che il tema della semplicità nella scienza è sempre molto importante.

Ma la tesi di Kuhn è diversa, e molto interessante. Nel suo libro mette in risalto soprattutto la capacità della visione copernicana di alimentare nuove osservazioni, nuove ricerche, di aprire nuove direzioni di indagine; meriti che invece probabilmente non caratterizzavano più la teoria tolemaica. Questa rimaneva ancorata alla concezione aristotelica del mondo che aveva dominato per secoli ma che probabilmente all'epoca risultava essere in una specie di stallo, capace solo eventualmente di fornire ulteriori raffinamenti e aggiustamenti al prezzo di complicazioni di calcolo. Copernico propone un sistema che si rivela in breve tempo molto fecondo, capace di oltrepassare l'ambito specifico dei problemi puramente astronomici dell'epoca, e che porterà nel giro di meno di un secolo e mezzo alla grande visione dell'universo di Newton.

Un paio di frasi riportate dal libro di Kuhn rendono bene l'idea:

"La concezione di una terra planetaria fu la prima rottura coronata da successo con un elemento costitutivo dell'antica visione del mondo. Sebbene concepita unicamente come riforma in campo astronomico, essa ebbe conseguenze disgregatrici che poterono essere risolte soltanto nell'ambito di una nuova struttura del pensiero".

"Copernico ebbe una concezione dell'universo più vicina a quella di Aristotele che a quella di Newton. Ma i nuovi problemi e suggerimenti che derivarono dalla sua innovazione sono i punti di riferimento più salienti nello sviluppo del nuovo universo che tale innovazione aveva essa stessa evocato. La creazione del bisogno di questo nuovo universo e l'aiuto fornito per completarne la costruzione sono i contributi storici che costituiscono la rivoluzione copernicana".

mercoledì 17 dicembre 2008

Transistor

Qualche giorno fa sono entrato nella biblioteca comunale del mio quartiere e ho dato un'occhiata all'emeroteca, soffermandomi su alcune di quelle riviste che non hanno nessuna o scarsissima diffusione nelle edicole o librerie. Una di queste è "Sapere", un bimestrale di divulgazione scientifica diretto da Carlo Bernardini e Francesco Lenci. Per la precisione, come si legge anche sul sito, si tratta della più antica rivista italiana di divulgazione scientifica, essendo stata fondata addirittura nel 1935. Molte delle sue firme sono o sono stati professori della Facoltà di Fisica dell'Università "La Sapienza" di Roma, almeno ai tempi in cui la frequentavo io: Carlo Bernardini, Andrea Frova, Michele Emmer, Giovanni Vittorio Pallottino, Francesco Calogero, Giorgio Parisi.

Tra gli articoli della rivista mi è saltato agli occhi quello del Prof. Pallottino, che ricordava che nel 2007 cadevano i 60 anni dall'invenzione del transistor. Già, sembra veramente strano ricordare un evento del genere: l'invenzione di un dispositivo incomprensibile che di fatto non è mai visibile e che si trova .... praticamente dappertutto!!

Non esiste dispositivo elettronico attuale che non abbia un numero enorme di transistors integrati. E sappiamo quanto l'elettronica sia parte della nostra vita quotidiana. Il transistor è una sorta di cellula costruttiva dei circuiti integrati, a loro volta mattoni fondamentali di tutti i nostri elettrodomestici più evoluti. Un oggetto su cui si è costruita tutta la storia della tecnologia elettronica, e dunque anche dell'informatica.

Dell'articolo di Pallottino mi hanno colpito tre cose:
  1. L'idea che ha guidato la ricerca e la realizzazione del primo transistor - Pallottino scrive: "Alla base dell'invenzione del transistor c'era l'idea di controllare il moto di cariche elettriche (cioè una corrente elettrica) all'interno di un solido anzichè nel vuoto, come succedeva nei tubi elettronici". Quindi sin dall'inizio (e l'idea a quell'epoca aveva già alcuni anni) c'era l'obiettivo anche tecnologico di costruire un componente elettronico attivo alternativo agli ingombranti e poco affidabili tubi a vuoto che già avevano trovato applicazione nei primi calcolatori elettronici. Attualmente i transistor vengono impiegati come interruttori o amplificatori di segnali, sostituendo ormai completamente in questa attività le vecchie valvole termoioniche.
  2. L'eccezionale sviluppo che il transistor ha avuto negli anni successivi fino ai giorni nostri - I numeri che riporta l'articolo sono significativi: il primo transistor commerciale risale al 1950 e il suo costo si aggirava sui 18 dollari, l'equivalente di circa 150 dollari attuali. Oggi un microprocessore del valore commerciale di 100 dollari ne conta al suo interno circa 1 miliardo. Questo suo incredibile sviluppo è andato di pari passo al suo processo di miniaturizzazione: la dimensione del primo transistor era di circa 1 cm, quella di un transistor integrato attuale è di circa 50 nm (50 milionesimi di millimetro!).
  3. La sottovalutazione dell'importanza del transistor sia negli anni della sua prima realizzazione sia attualmente - Inizialmente i Bell Telephone Labs in cui venne realizzato il transistor non compresero appieno l'importanza di questo dispositivo, che cominciò quindi ad essere commercializzato con qualche anno di ritardo. Attualmente è molto difficile trovare informazioni storiche su questo dispositivo, sugli studi che portarono alla sua realizzazione e sulla sua rapida evoluzione che lo ha portato in un tempo relativamente breve a giocare un ruolo determinante nella storia della tecnologia moderna. Pallottino confronta questa scarsità di informazioni con l'immensa mole di studi storici su un evento come la rivoluzione d'ottobre che in fondo, col senno di poi, non ha cambiato così tanto la nostra vita come forse lo ha fatto il transistor. Ma purtroppo in genere le vicende della tecnologia non vengono annoverate nella più ampia classe delle vicende della cultura umana.

Nel 1956 a Walter Brattain, John Bardeen e William Shockley venne assegnato il Premio Nobel per la Fisica "for their researches on semiconductors and their discovery of the transistor effect".

Nota: John Bardeen (1908 - 1991) negli anni successivi prese parte alla formulazione della teoria classica della superconduttività che gli valse nel 1972 il secondo Premio Nobel per la Fisica, insieme a Cooper e Shrieffer (John Bardeen, Leon Neil Cooper, John Robert Schrieffer, "for their jointly developed theory of superconductivity, usually called the BCS-theory"). Bardeen è stato inserito nel 1990 dalla rivista LIFE nella lista dei "100 Most Influential Americans of the Century".

sabato 13 dicembre 2008

Il Ministro Carfagna e il merito

La nomina a Ministro della Repubblica della signora Mara Carfagna ha avuto un seguito di grandi polemiche. L'argomento più battuto di queste polemiche è stato quello della sua velocissima carriera politica fatta all'ombra di Berlusconi (che le faceva ombra con cosa??!). Probabilmente però converrebbe mettere da parte queste "illazioni" per focalizzare meglio il problema, più generale e grave, che questo episodio emblematico mette bene in luce. La signora Carfagna fino a qualche anno prima era stata impegnata in: miss italia, trasmissioni di varietà televisivo, calendari. Poi nella legislazione precedente (con una legge elettorale che non prevedeva preferenze) viene eletta alla camera e in questa legislatura nominata Ministro.

Non conosco i dettagli della storia personale della signora Carfagna ma credo che quello che si sa sia sufficiente per esprimere un giudizio. Qualunque cittadino può fare politica, indipendente dalla sua storia personale, ma nessun cittadino può fare una carriera politica di questo genere, per la quale invece ci vuole una storia particolare, fatta di una lunga e assidua frequentazione di ambienti politici a vari livelli, oppure fatta di una lunga carriera di particolare rilievo nazionale anche se non necessariamente di tipo politico ma con la quale si sono comunque espressi meriti eccezionali (vedi senatori a vita).

Chi occupa posizioni di così alto profilo deve avere egli stesso un alto profilo, altrimenti rischia di screditare la posizione stessa che occupa, e questo finisce per essere l'aspetto più grave di tutta la questione. Non si diventa ministri per avere per la prima volta l'occasione di dimostrare qualcosa, lo si diventa dopo aver già dimostrato di essere in grado di farlo con una buona probabilità di successo (e peraltro se non ci si riesce si lascia subito il posto ad un altro).

Mi è stato fatto notare (come spiegazione del fenomeno, non certo come sua giustificazione) che questo meccanismo "avvicina" il politico al cittadino, nel senso che quest'ultimo non misura più una distanza evidente tra se e il politico, anzi, in qualche misura riesce ad identificarsi con lui. Un meccanismo molto simile a quello che sta alla base del successo di trasmissioni televisive tipo Grande Fratello. Questa spiegazione ci potrà pur essere ma dal mio punto di vista rende la cosa ancora più sconvolgente. La distanza tra il normale cittadino e un esponente così alto delle istituzioni ci deve essere, ed è sulla base dei valori e dei meriti espressi (sottolineo espressi), così come è ovvio che ci sia una certa distanza, in termini appunto di valori e meriti, tra un normale cittadino ed un premio nobel.

La nostra società è incredibilmente piena, a tutti i livelli, di persone che non si sono faticosamente guadagnate il posto che occupano, come sarebbe necessario, e che di conseguenza contribuiscono a screditarlo. In poche parole manca un valore fondamentale, quello del merito.

venerdì 28 novembre 2008

L'assurdità della Natura

Se si ragiona un po' sulle teorie quantistiche si perviene quasi sempre ad una situazione di disagio, determinata essenzialmente dal fatto che l'intuito, la rappresentazione per immagini e il buon senso, tipicamente falliscono nel tentativo di comprensione. Tutto ciò ha una spiegazione nel fatto che le teorie quantistiche indagano su aspetti del mondo che sono totalmente al di fuori della nostra esperienza sensibile, quella che nei milioni di anni di evoluzione ha formato il nostro intuito, la nostra capacità di rappresentazione per immagini e il nostro buon senso.

Comunque è dura da accettare, anche perchè una natura al di fuori del buon senso è una natura assurda. Conforta (manco tanto) il fatto che questa spiacevole sensazione sia condivisa dagli stessi scienziati, anche da quelli che queste teorie hanno contribuito a costruirle. Loro si sono tipicamente riparati dietro la frase "la teoria funziona, si accorda bene con gli esperimenti, questo è sufficiente".

Riporto a questo proposito una frase significativa di Richard Feynmann (rivolto ad una platea di non specialisti all'inizio di un suo seminario di carattere divulgativo in merito all'elettrodinamica quantistica): "Il punto essenziale non è se una teoria piaccia o non piaccia, ma se fornisce previsioni in accordo con gli esperimenti. Dal punto di vista del buon senso l'elettrodinamica quantistica descrive una natura assurda. Tuttavia è in perfetto accordo con i dati sperimentali. Mi auguro quindi che riuscirete ad accettare la Natura per quello che è: assurda."

martedì 25 novembre 2008

Elezioni politiche in USA

Alcuni giorni fa negli Stati Uniti si sono chiuse le elezioni politiche per la presidenza della Casa Bianca. A parte il risultato, mi piace sottolineare alcune caratteristiche del meccanismo elettivo americano:

  1. Ci sono solo due ampie parti politiche, abbastanza ben definite e distinte sulle visioni politiche di fondo, che si contendono la leadership del paese.
  2. Le inevitabili sfumature all'interno di ogni singola parte politica vengono risolte con le elezioni primarie, che lasciano in lizza un unico candidato per ciascuna parte su una rosa più o meno ampia.
  3. Le elezioni primarie sono autentiche, abbastanza imprevedibili e quindi risultano significative anche sul piano politico, determinanti per decidere le linee guida da portare alla Casa Bianca e la personalità politica che dovrà interpretarle al meglio.
  4. I due candidati scelti per la corsa finale si fronteggiano direttamente in varie occasioni, dando alla cittandinanza elementi concreti per una chiara e consapovole lettura delle politiche proposte.
  5. Il candidato perdente solitamente esce di scena e non si ripresenta alle elezioni successive.
  6. Il candidato perdente riconosce prontamente e lealmente il ruolo istituzionale dell'avversario (McCain, il perdente, nel suo discorso dopo le elezioni rivolgendosi ad Obama, il vincente, usa espressioni del tipo "il mio ex-avversario", "il mio Presidente").
  7. Dalla campagna elettorale sembra uscire un Paese fondamentalmente unito nello sforzo di darsi un governo che sia il migliore possibile.

Non voglio elogiare troppo il sistema politico statunitense ma sta di fatto che secondo me tutte queste caratteristiche sono, dal punto di vista di un italiano, decisamente invidiabili.

L'Italia dovrebbe avere probabilmente un senso di maggiore unità, che renderebbe intollerabili tutta una serie di schermaglie politiche di bassa lega tra fazioni e fazioncelle, permetterebbe al cittadino una migliore leggibilità delle proposte politiche, e forse potrebbe anche essere la chiave per un dialettica corretta tra maggioranza e opposizione.

domenica 16 novembre 2008

Il testamento biologico

Il caso di Eluana Englaro sembra che abbia ormai chiarito a tutti (spero) che in Italia c'è un vuoto legislativo in merito ai problemi, ormai sempre più frequenti, di accanimento terapeutico. Il fatto che siano sempre più frequenti è un'ovvia conseguenza del progresso tecnologico in campo medico.

Il problema è molto semplice (si fa per dire): si tratta in primo luogo di garantire un diritto fondamentale del cittadino che è quello di poter decidere in piena coscienza e libertà riguardo ai trattamenti sanitari e alle terapie farmacologiche e mediche sulla sua persona. Se ho il raffreddore devo poter decidere liberamente se curarlo oppure lasciare che la malattia faccia il suo corso, è mio diritto ricevere cure sanitarie solo se lo desidero. Allo stesso modo se sono un malato terminale e la tecnologia medica mi può offrire solo cure di mantenimento, alcune delle quali eventualmente di carattere invasivo, devo poter decidere liberamente se accettare queste cure o lasciare che la malattia faccia il suo corso.

Ovviamente il problema vero nasce al momento in cui il soggetto interessato non può prendere decisioni in quanto non è più cosciente. Si tratta di un vicolo cieco, in cui il soggetto non è più consultabile e la responsabilità di decisioni in merito alle terapie passano a familiari e medici. Questi ultimi possono solo indicare tutte le terapie possibili ed esprimere pareri strettamente tecnici sulla loro applicabilità ed efficacia, sempre avendo come obiettivo il mantenimento in vita del paziente. Oltre questo parere tecnico-scientifico non si può andare. Nessuno in genere può prendersi l'onere di fare delle scelte che attengono ad una sfera così personale e intima del diretto interessato, neanche i parenti più stretti, tantomeno lo Stato.

Il testamento biologico è un tentativo di superare l'empasse, facendo in modo che il cittadino scelga liberamente e in piena coscienza al momento in cui ancora lo può fare, chiamandolo quindi a fare delle scelte preventive in merito ad alcune situazioni in cui si può configurare il cosiddetto accanimento terapeutico. In questo senso il caso di Eluana Englaro è emblematico. Si sa che questa signora proprio poco prima di rimanere vittima di un grave incidente ha avuto occasione di vedere un suo amico a cui era occorsa la stessa sfortunatissima sorte, e in tale circostanza aveva espresso chiaramente ai genitori la ferma volontà di non voler rimanere in uno stato vegetativo irreversibile. Proprio in un caso del genere il testamento biologico dimostrerebbe tutta la sua efficacia.

Ci sono delle difficoltà e dei rischi legati ad una legge del genere, che ne rende molto delicata la discussione. Ad esempio occorre circoscrivere bene il campo di applicabilità del testamento biologico: cosa viene classificato come accanimento terapeutico? Questo significa anche limitare al massimo le situazioni ambigue: come interpretare la volontà del soggetto non più cosciente sulla base del suo testamento biologico nell'eventualità di una situazione particolare, magari nuova, non precedentemente classificata e quindi non prevista dal legislatore? Situazioni del genere possono prestare il fianco a tentativi di abuso delle volontà di un soggetto non più cosciente. Infine a me sembra necessario evitare nel testo di legge qualsiasi giudizio morale, dovendo semplicemente definire i confini entro cui il cittadino esercita la sua libertà di coscienza rispetto ad una sua condizione personale di salute. Quest'ultimo aspetto (sebbene a me paia evidente) è il meno tecnico e probabilmente il più difficile da ottenere.

E' tuttavia scontato che una società civile deve assicurare tutta l'assistenza possibile ai malati terminali e alle persone in grave stato di infermità o addirittura in stato vegetativo permanente che abbiano fatto la scelta di tentare tutte le terapie possibili per la loro guarigione o per il loro semplice mantenimento in vita, a qualunque condizione.

Speriamo di arrivare in tempi brevi ad una regolamentazione chiara ed efficacie di questi problemi che caratterizzano ormai tutte le società tecnologicamente avanzate.

mercoledì 12 novembre 2008

Maturità, vecchiaia

La mia età è caratterizzata da questi due aspetti, che vedo come strettamente collegati. La maturità consiste nell'aver raggiunto uno stato ben definito della personalità, una certa sicurezza nelle proprie convinzioni, nei propri valori, gusti, passioni, modi di pensare. Una sorta di processo di solidificazione della personalità. Ben diverso dal periodo della vita precedente in cui invece questa personalità è del tutto amorfa, fluida, in via di costruzione. Non è che non mi piaccia la maturità, anzi. Spesso ci si sente inscalfibili, e questo è un elemento affascinante. Poi tutto ciò è un'ovvia conseguenza del tempo che passa, dell'esperienza accumulata e delle scelte fatte, rimanere indefinitamente con lo spirito di un adolescente (il che poi significherebbe non fare mai delle scelte, o non prendere mai coscienza di averle fatte) è una cosa che semplicemente fa ridere.

Ma subito dopo aver acquistato una forma ben definita (e magari definitiva) che viene? E' indubbio che la maturità è anche una perdita di potenza. Tra un individuo adolescente e un individuo adulto c'è la stessa differenza che passa tra una cellula staminale e una differenziata. Avere una forte personalità significa anche non avere la voglia di cambiare, la forza di cambiare, la capacità di cambiare, la curiosità di cambiare. Credo che la vecchiaia sia fondamentalmente questo (oltre agli acciacchi).

Quindi ad occhio e croce mi trovo in un bordo, e dovrei mantenere l'equilibrio, se possibile. Fluidificare a vita è da scemi, solidificare del tutto pure.

sabato 1 novembre 2008

Riflessione sulla formazione tecnologica

Ho un problema ricorrente nel fare formazione tecnologica nel campo dell'informatica, e riguarda il modo stesso di farla. A mio avviso la formazione in questo campo dovrebbe puntare principalmente alla spiegazione delle infrastrutture tecnologiche e dei protocolli di cui fanno uso. A dirla così sembra una banalità ma in realtà la cosa si scontra con l'idea di formazione che invece spesso hanno le persone che frequentano questi corsi. In poche parole sembra che nella maggior parte dei casi le tecnologie e il loro funzionamento non interessino più di tanto chi è preposto alla gestione dei sistemi informatici, i quali hanno effettivamente a che fare con una moltitudine di problemi pratici che spesso sono connessi solo alle specifiche implementazioni o al prodotto con cui hanno a che fare. Queste persone finiscono per sviluppare interesse essenzialmente per i prodotti molto più che per le tecnologie, ma a me sembra chiaro che i prodotti non possono essere più di tanto oggetto di vera formazione. Quando questo succede la formazione che intendono i miei studenti si riduce di fatto ad una mera raccolta di workarounds accumulati con l'esperienza o con la lettura sistematica e intelligente delle varie knowledge bases pubblicate massicciamente dai produttori o dai loro partners sui loro siti web. La lettura veramente consapevole ed efficacie di molti di questi documenti presuppone spesso proprio la formazione che io intendo.

Faccio un esempio estremo: l'infrastruttura di autenticazione basata sul protocollo Kerberos. Per chi si occupi di sicurezza informatica comprendere i meccanismi di un protocollo di autenticazione è estremamente importante, a maggior ragione se si sta parlando di uno dei protocolli più diffusi come appunto Kerberos. Il problema è che la sua implementazione si può presentare più o meno come una black-box (ad esempio nei server Windows, dove effettivamente i parametri di configurazione sono veramente pochi e poco significativi dal punto di vista pratico). Per cui molto spesso l'atteggiamento di chi viene ad imparare è: "okay, il kerberos esiste, si chiama così e funziona, passiamo oltre....". Poi però scopri che quelle stesse persone che vogliono evitare approfondimenti concettuali che "professionalmente non servono" non sanno esattamente per quale motivo devono fare configurazioni particolari per applicativi che hanno un'architettura front-end/back-end e quando gli spieghi che queste configurazioni particolari servono di fatto a far funzionare correttamente la delega delle credenziali, caratteristica tipica dell'autenticazione Kerberos, non si mostrano neanche troppo interessati, visto che loro bene o male il problema lo avevano già risolto applicando fedelmente le indicazioni della user guide dell'applicativo.... Per me tutto questo è inaccettabile e istintivamente cerco di combatterlo ma le conseguenze in certi casi possono essere disastrose dal punto di vista del gradimento del corso.

Proporre una formazione con un taglio essenzialmente differente da quello che la maggior parte degli studenti si aspetta comporta spesso un rischio eccessivo, che va calcolato. Rinunciare completamente a dare questo taglio è una cosa a cui non riesco a rassegnarmi e che in definitiva non mi sembra faccia onore a questa attività. L'insegnamento diventa quindi un gioco di equilibrio tra queste due visioni differenti, e in un certo senso complementari. Forse questa deve essere un'abilità tipica dell'insegnante in questo campo.

giovedì 30 ottobre 2008

La riforma della scuola

In queste ultime settimane il governo di destra ha avuto il coraggio di presentare un taglio pesantissimo ai finanziamenti per la scuola pubblica e una serie di miseri provvedimenti di stampo conservatore per la scuola elementare (tipo la reintroduzione del grembiule, del voto e del maestro unico) come una "riforma scolastica". Questo triste episodio serve solo a riaprire un annoso e ormai palloso dibattito sull'esigenza di una riforma scolastica in italia. Sono passati troppi anni da quando ci devo aver pensato la prima volta e sinceramente non c'ho più molta voglia di farlo. Mi è ritornata un po' ultimamente perchè mio figlio il prossimo anno sarà in prima elementare, e ovviamente sono preoccupato.

Ma in fondo che c'è da pensare? A me pare evidente dov'è il nocciolo della questione: è il livello di qualità dell'insegnamento; e mi sembra abbastanza evidente anche come ottenerlo: premiando le strutture che funzionano bene e penalizzando le altre. E' una banalità? Già. Intendiamoci, non è facile per niente trasformare queste due semplici idee in una vera riforma, e infatti lo devo ancora vedere un ministro che riesce a fare qualcosa di concreto. Ma almeno uno che mostrasse di voler andare nella direzione giusta prima o poi lo vorrei vedere.

Ai miei tempi ho sempre sentito dire che il liceo classico era la scuola formativa per eccellenza, dove si studiavano materie che educavano la mente meglio di altre, che preparavano agli studi superiori meglio di altre, e così via. Nonostante ciò scelsi di iscrivermi al liceo scientifico. A distanza di anni, con una consapevolezza forse maggiore di cosa possa essere uno studio formativo, credo che quelle considerazioni avevano un fondo di verità, ma di una verità diversa. Il fatto vero è che i licei classici sono sempre stati tradizionalmente le scuole più prestigiose (non so se lo sono tuttora) e dunque sicuramente le scuole in cui il livello di qualità dell'insegnamento (di qualsiasi cosa) era mediamente una spanna più alto di tutte le altre. E' questa di fatto la chiave della questione, è la qualità della struttura scolastica dove studi, più che quello che studi.

Quando ho cominciato a seguire i corsi di fisica accanto a me c'erano diversi colleghi che venivano dal liceo classico. In quell'occasione ebbi a notare che loro non conoscevano affatto la matematica mentre la maggior parte di noi la conosceva male, e non so dire con sicurezza alla fine chi si è trovato peggio. Di certo sono sicuro che studiare male le cose (qualsiasi cosa) è più dannoso che non studiare affatto.

domenica 26 ottobre 2008

Il crocifisso negli uffici pubblici

Ricordo che alcuni anni fa campeggiò per almeno una settimana su tutti i giornali e i telegiornali una discussione piuttosto accesa sulla legittimità della presenza del simbolo cristiano per eccellenza, il crocifisso, in tutti gli uffici pubblici dello Stato. La polemica aveva preso le mosse da una denuncia di un genitore di fede islamica che riteneva discriminatorio per il proprio figlio la presenza in classe del crocifisso cattolico.

Questa discussione mi colpì per due aspetti:

1. Il livello della polemica mi sembrava veramente eccessivo rispetto al problema; tutto sommato non riesco ad appassionarmi così tanto alla questione di tirar giù o meno un simbolo religioso (presente da sempre) dalle aule delle nostre scuole statali. Sentire tutte quelle dichiarazioni scandalizzate da parte di esponenti della Chiesa Cattolica ma ancor più da parte di molti politici, e vederle amplificate da stampa e televisione per così tanto tempo, mi aveva veramente scocciato.

2. Se si analizza in sè il problema non si può che arrivare ad una semplice conclusione: è ovvio che uno Stato Laico non dovrebbe mai esporre alcun simbolo religioso in nessun ufficio pubblico, in nessuna occasione ufficiale; qualunque cosa che rappresenti lo Stato non può far uso di simboli religiosi. Di sicuro è altrettanto ovvio che qualunque privato cittadino, in qualunque occasione anche pubblica, può esporre a titolo personale (o in associazione con altri) tutti i simboli religiosi che ritiene opportuni.

Mi ricordo di aver pensato che in quella settimana mi sarebbe piaciuto staccare tutti i crocifissi delle scuole italiane, darli in testa a quei preti e soprattutto a quei politici opportunisti che si sbracciavano in dichiarazioni sceme, e poi rimetterli tutti tranquillamente al loro posto.

mercoledì 15 ottobre 2008

Il rispetto delle regole

Tutti noi siamo tentati di non rispettare le regole, se ci capita. E la cosa in sè alla fine non è poi tanto grave. Ma, prima di tutto dovremmo aver timore di farlo sapendo che ci sono meccanismi di controllo efficiente che oggi me la fanno passare liscia, domani magari pure, ma dopodomani mi beccano e mi fanno pagare tutto con gli interessi. E poi, anche nel caso riuscissimo a eludere per una volta una regola e a non subirne le conseguenze, comunque dovremmo stare nelle condizioni di dovercene vergognare. Cioè il rispetto delle regole dovrebbe essere indotto, oltre che dalla convinzione generale della loro necessità per garantire la convivenza civile, anche dalla combinazione del timore delle conseguenze di essere presi con le mani nel sacco e dalla vergogna di subire il biasimo e il disprezzo degli altri. Credo che se per lungo tempo in una società manca il primo di questi due elementi (che è più istintivo e diretto) prima o poi se ne va anche il secondo (che è più di tipo culturale e indiretto), e in tal caso la situazione si fa piuttosto grave.

Direi che noi in italia siamo messi più o meno a questo punto. Potrei dire in modo spicciolo: la gente è sempre più paracula e non si vergogna più di niente. E può farlo, accidenti. Si può qualche volta non rispettare le regole, ma non è possibile farlo sistematicamente senza subire conseguenze, e farlo diventare perfino un elemento di merito tanto da non giustificare più alcun sentimento di vergogna, anzi.

E' chiaro che la continua dimostrazione della incapacità dello Stato di far rispettare le leggi è la causa principale che a lungo andare determina quella che viene chiamata cultura dell'illegalità, e che consiste nel vedere una società in cui sempre più spesso chi non rispetta le regole non viene punito e di conseguenza si avvantaggia su chi vincola e circoscrive più o meno volontariamente il proprio operato all'interno del sistema di regole che la società si è dato.

Constatare continuamente che in fin dei conti non rispettare le regole conviene non è un fatto senza conseguenze, soprattutto dal punto di vista dell'educazione delle nuove generazioni per le quali tutto questo si traduce nella assimilazione involontaria di modelli di comportamento sbagliati, nel "fascino" e nel "valore" dell'essere paraculi.

Mi viene da pensare che forse non ho alcuna speranza di poter insegnare a mio figlio il valore del rispetto delle regole (che magari qualche volta deciderà di non rispettare, assumendosene le responsabilità), perchè a fronte delle mie belle parole c'è fuori casa una società che funziona quasi sempre all'opposto, e lui prima o poi se ne accorgerà. Staremo a vedere.

venerdì 3 ottobre 2008

A che serve la Scienza?

La Scienza è spesso astrusa per chi non se ne è mai occupato troppo, e questo ha una spiegazione chiara. Qualunque disciplina scientifica richiede un livello minimo di frequentazione piuttosto elevato per poter essere apprezzata. Per quanti sforzi si possano fare per presentarla in maniera accessibile la Scienza richiede comunque impegno a chi la vuole anche solo in parte conoscere, e questo impegno onestamente non si può pretendere da chi ha altri legittimi interessi culturali. E fin qui tutto bene. Dispiace constatare che argomenti così affascinanti e profondi non siano minimamente percepiti da chi ti sta intorno, ma in fondo chissà quante bellissime cose sfuggono alla mia attenzione.

C'è una cosa però che ho sempre tollerato poco. Nelle rare volte in cui mi trovo a dare una spiegazione di una qualche conoscenza scientifica almeno una volta su due salta fuori la solita domanda: "ma a cosa serve? c'è una qualche applicazione di questa cosa?". E' un tipo di domanda che in genere ammazza il discorso scientifico. Non perchè la Scienza non abbia applicazioni pratiche, ma perchè queste ultime tipicamente non sono mai il nocciolo della questione. A questo punto potrei tirar fuori la classica frase di Richard Feynmann: "La fisica è come il sesso. Certo, può avere qualche conseguenza concreta, ma non è per quello che la facciamo". Ma normalmente la discussione sfuma.

Ma perchè sempre 'sta domanda?

Beh, sicuramente uno potrebbe essere portato a farla nella speranza che la descrizione di una qualche applicazione pratica di quello di cui stai parlando possa rendere l'argomento un pochino più comprensibile. Ma spesso si tratta di una scorciatoia che in realtà porta fuori strada (vedi la questione dell'impegno di cui parlavo prima).

C'è ovviamente una ragione più profonda. La Scienza rischia sempre di essere identificata con la tecnica, con quello che si può fare con una conoscenza, non con la conoscenza in sè. E' vero, le due cose sono strettamente imparentate, il valore di una qualsiasi conoscenza sta anche nella possibilità di utilizzarla in qualche modo. In particolare per quanto riguarda l'attività scientifica, la conoscenza del mondo che essa produce si traduce in genere prima o poi in una qualche possibilità di modificarlo a proprio vantaggio. Tutta la nostra storia culturale è caratterizzata da questo meccanismo.

Confondere la Scienza con le sue inevitabili applicazioni tecnologiche e comprenderla o giudicarla attraverso queste è secondo me indice di ignoranza, e probabilmente andrebbe associato ad un atteggiamento tuttora molto diffuso, che è quello di non classificare l'attività scientifica come umanistica e in tal modo declassarla ad una mera attività tecnico-professionale, altamente specializzata ma pur sempre un'attività tecnica. A parte forse qualche mostro sacro gli scienziati nella nostra società non hanno lo status di intellettuali, come potrebbero esserlo i filosofi, gli scrittori, gli artisti in genere. La nostra è una società che tende a classificare come ricerca scientifica quella che ha come obiettivo la produzione di un nuovo farmaco o di una nuova terapia medica (che secondo me sono più correttamente classificabili come ricerche tecnologiche, sebbene abbiano come soggetto l'uomo), e che invece non percepiscono abbastanza l'importanza della ricerca fondamentale.

In fondo Dirac è un premio nobel come Marquez, e di sicuro è un intellettuale di non minor rilievo, importantissimo per la nostra storia culturale. Ma se io non conosco Marquez, molta gente di cultura medio-alta mi guarderebbe strano. E Dirac invece chi è? Boh!

Ai miei tempi dell'università incontrare uno studente di fisica o di matematica che fosse sensibile alle principali discipline umanistiche (musica, poesia, letteratura, teatro, cinema) e addirittura che le praticasse nel suo tempo libero era la normalità. Non credo di aver mai incontrato in vita mia (nè ai tempi dell'università nè in seguito) persone esperte in discipline umanistiche che avessero una qualche competenza o passione per la Scienza.

Tempo fa mi è capitato di leggere un articolo di Enrico Bellone che ricordava un episodio significativo della nostra storia nazionale: la disputa sul valore della Scienza tra lo sconosciuto Federico Enriquez e i notissimi Benedetto Croce e Giovanni Gentile. I caratteri di questa disputa di primo nevecento mi suonano stranamente familiari. Da una parte Enriquez, convinto assertore dell'importanza della Scienza nel contenso generale della cultura moderna, e della sua conseguente importanza nell'educazione delle nuove generazioni. Dall'altra Croce e Gentile, secondo i quali gli scienziati sviluppavano solamente delle tecniche, e le tecniche nulla avevano da condividere con l'elaborazione del pensiero o con lo sviluppo della cultura. Enriquez (che insieme ad altri matematici quali Castelnuovo, Severi, Volterra, Levi-Civita, formava un circolo di scienziati ed intellettuali italiani di fama mondiale) perse la disputa, e di lì a poco Gentile varò la sua riforma scolastica, che poneva chiaramente la cultura scientifica (e le scuole preposte ad insegnarla) in una posizione subordinata rispetto alla più nobile cultura umanistica. Probabilmente almeno qualcuno dei vizi culturali a cui ho fatto riferimento prima nascono proprio in questo periodo.

La conoscenza della storia per capire meglio il nostro presente è spesso determinante.

martedì 30 settembre 2008

Mignotte

Il governo vara un provvedimento punitivo contro la prostituzione in pubblico, che prevede sanzioni amministrative (e addirittura arresti) sia per le lucciole che per i loro clienti. Il sindaco di Roma Alemanno applica prontamente il provvedimento con un'ordinanza che ha subito prodotto le prime multe.

A parte l'ironia che un provvedimento del genere, il cui obiettivo sarebbe eliminare dalle strade persone che vendono il loro corpo, sia pensato e proposto da una signora (la Carfagna) che ha usato il suo per vendere calendari, trovo che queste azioni di governo (nazionale e cittadino) siano inequivocabilmente di destra (quindi in linea con l'orientamento di questi governi).

Per tre motivi:

1. il provvedimento ha come obiettivo quello di nascondere agli occhi dei cittadini perbene un fenomeno che esiste (e che non viene certo debellato da una misura del genere); si tratta di decoro cittadino, pulizia delle strade, polvere spazzata sotto il tappeto;

2. il provvedimento si disinteressa completamente di chi subisce in modo grave il fenomeno della prostituzione, le sue prime vittime: le mignotte;

3. viene proposto un provvedimento semplice per un problema oggettivamente complesso. In tal modo si comunica con poco sforzo la sensazione che il governo affronta i problemi e propone tempestivamente delle soluzioni.

Dunque gli elementi principali della destra ci sono tutti: moralismo di facciata, attenzione verso i cittadini che preferiscono non vedere i problemi che non li riguardano (gradiscono soluzioni spicciole e semplificatrici), disattenzione verso le fasce deboli e problematiche della società.

A questo si aggiunge l'aggravante dell'inutilità del provvedimento (facilmente prevedibile) e della sua sostanziale inapplicabilità (vedi intervento di Travaglio sul blog di Grillo). Ma questo non mi sembra un elemento di destra, piuttosto è un elemento di inefficienza nascosto ben bene dietro l'apparenza di un governo attivo.

giovedì 25 settembre 2008

Giochini matematici

Oggi voglio fare il rompiscatole, voglio criticare la recente diffusione di tutta una serie di "giochini" di carattere matematico. Mi riferisco a pubblicazioni di liste interminabili di enigmi matematici, sia in formato cartaceo che elettronico (Nintendo).

Su che cosa voglio rompere? Sul fatto che queste cose vengono proposte come una forma di allenamento della mente, in un modo più originale ma non poi così dissimile dall'eterna Settimana Enigmistica.

Ma mi dà fastidio la Settimana Enigmistica? No. Mi danno fastidio gli enigmi matematici (che magari non riesco a risolvere)? No (beh, se non riesco a risolverli, si).

Quello che mi sta sul piloro è la matematica presentata (dalla pubblicità) come "vogatore del cervello". Così come la carenza di cultura sportiva viene rimpiazzata da una triste cultura del fisico, la carenza di cultura matematica fa posto ad una pseudo-matematica concepita come attrezzo ginnico per mantenere "in forma" il cervello.

Che rompiballe che sono! ...mi rendo conto.

mercoledì 24 settembre 2008

Marina d'Ardea

In questi ultimi anni il degrado di questa zona balneare a sud di Roma mi sembra evidente. Sarò forse io che con gli anni ho sviluppato una sempre maggiore intolleranza verso forme di inciviltà ma è un fatto che queste ultime ci stanno. La zona si è anche sempre più popolata di immigrati, che la usano ovviamente come residenza permanente, al contrario di quello che è stata per decenni (residenza estiva per molti abitanti della zona sud di Roma e dei Castelli).

Ovviamente il primo pensiero potrebbe essere: l'immigrazione extracomunitaria in questa zona è il primo fattore di degrado della stessa, gli immigrati, spesso irregolari, sono i principali responsabili dello stato di inciviltà in cui versa attualmente questa parte del litorale.

Io sono convinto del contrario, e credo che chiunque abbia vissuto un po' di anni da queste parti (anche solo nei periodi estivi) può arrivare alla mia stessa conclusione. E' chiaro che il problema vero nasce dagli autoctoni, e in particolare da chi amministra la zona, e da chi l'ha amministrata negli anni passati (il degrado di una zona si costruisce in anni e anni di cattiva amministrazione, occorre una certa perseveranza).

Insomma non sono gli immigrati (clandestini o meno) a portare il degrado, è il degrado già largamente diffuso ad essere terreno fertile per un certo tipo di immigrazione (quella più sfigata, più povera, meno regolare, ecc.), che ovviamente finisce a sua volta per alimentare il degrado....

Prendiamoci le nostre responsabilità.

sabato 20 settembre 2008

I 67 firmatari

All'inizio di quest'anno il Papa è stato invitato all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università "La Sapienza" di Roma. Alcuni professori della Facoltà di Fisica, tramite un breve messaggio pubblico (a cui seguono 67 firme) si sono uniti al Prof. Marcello Cini che qualche tempo prima aveva inviato al Rettore una lettera (pubblicata dal quotidiano "Il Manifesto") in cui criticava l'opportunità di questo invito e suggeriva di ritirarlo. Le successive proteste di fronte al rettorato di un gruppo di studenti solidali con i docenti di Fisica hanno scaldato ulteriormente il clima fino ad indurre il Papa a declinare all'ultimo momento l'invito del Rettore per "motivi di opportunità".

In sè l'episodio non sembrerebbe essere granchè, ma alcuni elementi al contorno lo hanno reso estremamente significativo e rivelatore di un clima culturale italiano decisamente di basso livello, e dunque poco rassicurante.

Invitare il Papa ad una cerimonia di carattere civile e laico come l'inaugurazione dell'anno accademico di una Università Statale è abbastanza discutibile, anche se ovviamente legittimo. La volontà di criticare questa scelta da parte di un professore della medesima università mi pare altrettanto legittimo. Solidarizzare con lui pure. I toni con cui lo hanno fatto gli studenti è stato in certi casi discutibile, ma anch'esso legittimo.

La cosa veramente aberrante è stata la reazione a tutto questo da parte di un certo numero di politici e di certi media, tutti preoccupati di prendere le difese del Papa a cui un manipolo di pseudo-professori intolleranti, vergogna del nostro paese e cattivo esempio per i nostri studenti, avrebbe tolto la parola. Ne è risultata una vera e propria operazione di linciaggio dei professori di fisica dell'ateneo, con risvolti perfino demenziali (*).

Da questo episodio il mondo accademico peggio di così non poteva uscire, bastonato da una serie di personaggi infimi della politica e della "cultura" italiana. A questi professori (alcuni di fama mondiale, tranne che italiana) non resta che sperare di continuare a lavorare al meglio possibile con la comunità scientifica internazionale, sperando di riguadagnare presto il loro anonimato nel nostro paese.

Nota: questo episodio mi ha permesso se non altro di avere notizie indirette di un vecchio collega universitario (Gherardo Piacitelli), il quale ha pensato bene di raccogliere su internet una lista di firme per esprimere solidarietà ai 67 firmatari (http://appellolaico.wordpress.com). Sono arrivato tardi (quando la lista era già stata chiusa) e purtroppo non ho potuto partecipare.

(*) l'episodio più demenziale è sicuramente quello Carlucci-Maiani-Glashow. Segnalo uno dei divertenti post della "onorevole" Carlucci: http://www.gabriellacarlucci.it/2008/02/28/in-risposta-a-parisi/

mercoledì 17 settembre 2008

Feynmann e Schwinger

La creatività si esprime in forme molto diverse anche negli stessi ambiti dell'attività umana. Non c'è "un modo" per essere degli artisti, così come non c'è "un modo" per essere degli scienziati. Proprio a questo proposito qualche tempo fa mi è capitato sotto gli occhi un parallelo significativo tra due importanti scienziati del 900: Richard Feynmann e Julian Schwinger. Il primo è molto più famoso del secondo, e il motivo in effetti è da imputarsi principalmente alla qualità della sua intelligenza. Istrionico, avventuroso, eclettico, Feynmann ha una biografia decisamente divertente, tanto da aver fornito materiale per più di un libro sulla sua vita, uno dei quali, "Sta scherzando, Mr. Feynmann!" lo hanno reso popolare in tutto il mondo.

Al contrario Julian Schwinger è noto solo agli addetti ai lavori, o a chi si interessa un po' di storia della scienza. La personalità di Schwinger era in netto contrasto con quella di Feynmann. Se quest'ultimo era aperto, comunicativo, spesso burlone, Schwinger era decisamente timido, introverso e molto formale nei rapporti con il prossimo.

Ma la cosa più interessante è mettere a confronto le loro intelligenze.

Feynmann discuteva molto con i colleghi, aveva continui scambi di idee con loro. Procedeva in modo molto anticonvenzionale, preferiva ricostruirsi a modo suo una certa teoria piuttosto che studiarsela sui libri (beato lui!). Il suo genio andava spesso nella direzione dello sviluppo di modi innovativi di pensare ad un problema. Semplificava cercando analogie e ragionava quando possibile in termini di immagini. Non a caso è stato anche un valido insegnante.

Schwinger probabilmente non interloquiva con nessuno durante il suo lavoro dal momento che si presentava in istituto nel tardo pomeriggio, passava l'intera notte al lavoro e rientrava a casa la mattina presto. Schwinger ragionava in termini di equazioni, i suoi articoli erano pieni zeppi di formalismi e spesso risultavano incomprensibili anche ai sui stessi colleghi. I suoi metodi di lavoro erano tutt'altro che anticonvenzionali, la sua potenza di ragionamento si esprimeva nella capacità di prendere una formulazione del problema già nota e svilupparla completamente in tutta la sua portata.

Feynmann e Schwinger sono vissuti nello stesso periodo, si sono occupati spesso degli stessi problemi, e hanno prodotto entrambi in modi indipendenti e molto differenti (*) uno dei risultati più importanti della fisica del novecento:

The Nobel Prize in Physics 1965

Sin-Itiro Tomonaga, Julian Schwinger, Richard P. Feynman

"for their fundamental work in quantum electrodynamics, with deep-ploughing consequences for the physics of elementary particles"

(*) Talmente differenti che un loro collega, Freeman Dyson, si è dovuto prendere la briga di dimostrare che le loro due formulazioni erano del tutto equivalenti.

lunedì 15 settembre 2008

Il disegno intelligente

Si è fatto un gran parlare in questi ultimi anni del disegno intelligente come teoria alternativa all'evoluzionismo darwinista, in paesi come gli Stati Uniti si è sviluppato un dibattito sulla possibilità di introdurlo nell'insegnamento al fianco dell'evoluzione biologica per selezione naturale.

Il punto però è molto semplice: è fin troppo chiaro che il disegno intelligente non è una teoria scientifica, dunque non può avere nessun carattere alternativo all'evoluzionismo darwinista. Le due cose viaggiano su piani completamente distinti. Il disegno intelligente può essere una legittima convinzione, un'affermazione di natura filosofica o religiosa, ma non ha nessun carattere di scientificità, nessuna evidenza sperimentale, nessuna capacità predittiva. L'idea di fondo del disegno intelligente suggerisce l'esistenza di una causa finale esterna alla natura stessa, dunque non indagabile dalla scienza.

Il disegno intelligente ripropone di fatto con un linguaggio più raffinato (ma anche più subdolo in quanto "laicizzato") la classica idea del creazionismo.

domenica 14 settembre 2008

Microsoft e Google

In questi giorni è uscito il browser di Google. Certi media lo hanno presentato come la nuova rivoluzione di internet (!), stanno facendo con Google quello che una decina di anni fa facevano con Microsoft. Questa volta intorno a quello che fa Google c'è forse addirittura un più largo consenso, non so se questo fatto è negativo o positivo. A Microsoft si è sempre rimproverata (a ragione) una mentalità monopolistica e fagocitante, ma sinceramente credo che qualunque azienda che superi certe dimensioni tenda inevitabilmente ad esserlo, Google compresa. E' un fatto interno alla logica del capitalismo, un comportamento "naturale" nei confronti del quale la società deve essere in grado di sviluppare i giusti anticorpi.

Dal punto di vista della società dell'informazione Microsoft prima e Google poi sono state le aziende protagoniste di due importanti "rivoluzioni". Microsoft è cresciuta esponenzialmente (con profitti stratosferici) nel periodo in cui il suo proprietario, Bill Gates, profetizzava "un computer per ogni scrivania", ed effettivamente quegli anni (80 e 90) hanno portato tutti ad avere un desktop, prima di tutto sul posto di lavoro, e poi a casa. Google è cresciuta altrettanto velocemente nel periodo dell'esplosione di internet (fine anni 90 e 2000), prima come motore di ricerca e ora presentandosi più in generale come leader di quel processo di trasformazione che porterà presumibilmente a spostare tutte le risorse di calcolo e di archiviazione sulla rete mondiale, spogliando sempre di più il computer domestico o di ufficio e riducendolo a poche funzioni specializzate.

domenica 7 settembre 2008

Il Vittoriale degli italiani

Questa estate sono andato a visitare il Vittoriale degli Italiani, ovvero l'abitazione di Gabriele D'Annunzio (il "Vate") sulle rive del Lago di Garda, in cui ha vissuto gli ultimi vent'anni circa della sua vita.

La casa, sia fuori che dentro, appare come un'espressione della personalità di D'Annunzio, fin nei più piccoli particolari, e in questo senso è veramente spettacolare. Quello che mi ha più colpito però, e anche un po' disturbato, è proprio la personalità che ne viene fuori, o che almeno a me è sembrato venirne fuori: a parte una certa ironia che si coglieva in alcuni particolari, specie dell'interno della casa, il resto (in particolare l'esterno) appariva come una celebrazione di valori militari e patriottici decisamente insistente e retorica. Niente di più distante dalla mia sensibilità. Il tutto, unitamente ad una considerazione di sè a dir poco eccessiva chiaramente percepibile (vedi mausoleo stile imperatore romano), rendeva l'atmosfera a tratti intollerabile.

Passata la visita e smaltito il senso di fastidio che mi ha provocato c'è da dire che il sentimento di amore per la patria fino a difenderla con le armi, l'amore per la propria lingua fino ad arricchirla introducendo espressioni nuove, e per la propria cultura e storia nazionale non sono sempre roba da buttar via; in fondo è molto peggio essere dei paraculi (categoria massimamente diffusa nell'italia di oggi). Non credo che D'Annunzio lo sia mai stato.

mercoledì 30 luglio 2008

La dimensione sociale della Scienza

Un bel giorno il signor pincopallo formula quella che lui chiama una teoria scientifica. Come si fa a stabilire che è corretta? Di solito quello che succede è che la si sottopone al vaglio della comunità scientifica attraverso articoli su riviste specializzate e conferenze presso università e istituti di ricerca. Dal momento della sua prima pubblicazione entra nel circuito degli addetti ai lavori che automaticamente la sottopongono sia ad un dibattito di tipo teorico sia ad una serie di verifiche sperimentali. Questa fase può evolvere in vari modi ovviamente, ma è comunque caratterizzata da una serie di contributi attivi da parte di molti scienziati, che lavorano eventualmente alla sua modifica, al suo perfezionamento e contemporaneamente alla sua divulgazione; oppure alla sua confutazione e definitiva archiviazione.

L'aspetto importante di questa storia è che l'attività scientifica ha una dimensione sociale che risulta essenziale al suo sviluppo. Nel momento in cui viene formulata la prima volta, una teoria scientifica può essere anche di una sola persona (ovviamente non sempre), ma dopo la sua prima divulgazione diventa in breve tempo parte di tutta la comunità (quella degli addetti ai lavori) e subisce inevitabilmente rielaborazioni che la fanno evolvere (positivamente o negativamente) indipendentemente dal suo primo autore. Non esiste ovviamente un vero e proprio punto finale di questa evoluzione. Mi sembra chiaro che un processo del genere ha una sua affidabilità ed efficacia intrinseca.

A pensarci bene questo destino è anche la principale prova della sua correttezza, cioè in definitiva della sua capacità non solo di passare tecnicamente tutta una serie di prove sperimentali (una caratteristica che comunque rimane essenziale) ma anche quella di fare presa, di essere plausibile, convincente, feconda, per tutti gli studiosi coinvolti.

Questo alla fine è proprio quello che manca a molte teorie pseudo-scientifiche che a intervalli regolari appaiono all'attenzione dell'opinione pubblica attraverso i media. E' un buon modo per riconoscerle.

mercoledì 16 luglio 2008

L'uomo di Neanderthal

La teoria dell'evoluzione di Darwin spesso non viene raccontata bene, altrimenti non si spiegano certi "vizi interpretativi" che a volte riscontro nel linguaggio comune e che nel passato hanno caratterizzato le mie conoscenze in merito.

Per molto tempo ho dato più o meno per scontato che l'evoluzione fosse un progresso lineare verso forme di vita sempre "migliori". Da qualche parte devo pur aver assorbito questa idea. L'esempio classico è quello della storia evolutiva dell'uomo. Mi ricordo di aver pensato che l'uomo attuale è un punto finale di alcuni stadi evolutivi intermedi, sempre più perfetti in quanto sempre più vicini a noi. Homo Erectus, Homo Ergaster, Homo Neanderthalensis, Homo Sapiens. Ma .... un momento, secondo la nomenclatura binomiale queste che ho citato sono tutte specie diverse, tra loro hanno in comune solo il genere Homo. Due specie distinte non si incrociano, non generano prole feconda, secondo la denfinizione. Possono evolvere l'una nell'altra ma non necessariamente, e infatti questo non è sempre avvenuto. L'albero dell'evoluzione umana è molto complesso e tutt'altro che lineare, dotato di molti rami che hanno generato specie umane ma che non portano a noi. Inoltre queste specie non hanno una successione cronologica stretta, si sovrappongono, sono spesso conviventi nello stesso ambiente naturale. Questa non è un'osservazione da poco.

L'uomo di Neanderthal è una specie che convive in europa con l'Homo Sapiens fino a circa 30000 anni fa, periodo in cui si perdono le sue tracce. Estinto per qualche motivo ancora non chiaro (ma ormai sappiamo che l'estinzione di una specie è un fenomeno molto comune in natura, per nulla strano). Probabilmente non si è mai incrociato con gli individui della nostra specie. Insomma è una specie umana diversa, non un nostro antenato. Una specie che aveva moltissime cose in comune con noi (*) ma non il nostro stesso patrimonio genetico.

Le scimmie antropomorfe, con cui attualmente conviviamo, non sono i nostri antenati. La famosa frase "l'uomo discende dalla scimmia" (pensando proprio alle scimmie antropomorfe) è fondamentalmente sbagliata, al limite, vista l'ampia accezione del termine, sarebbe più corretto dire che l'uomo è una scimmia. Una frase più corretta sarebbe all'incirca "l'uomo (in tutte le sue specie comparse sulla terra, compreso Homo Sapiens) e le scimmie antropomorfe attuali (scimpanzè, bonobo, gorilla, orango) hanno un antenato comune molto vicino nel tempo".

Ricordo che queste semplici constatazioni anni fa mi sono risultate per niente scontate e quindi molto istruttive. Nell'evoluzione biologica non c'è il concetto di progresso, che comporta necessariamente una direzione e un fine, c'è solo il concetto di adattamento. Una specie che può definirsi a buon diritto "umana" (nel senso biologico) è comparsa più volte nella storia della terra. Rimane il fatto che una sola di esse è sopravvissuta e ha prodotto una storia culturale.

(*) Se si potesse reincarnare un Neanderthal, e porlo nella metropolitana di New York, opportunamente lavato, sbarbato e modernamente vestito, si dubita che potrebbe attrarre alcuna attenzione. (William Straus)

lunedì 14 luglio 2008

Eluana Englaro

Pochi giorni fa i giudici hanno autorizzato a "staccare la spina" per Eluana Englaro, la donna che da 16 anni è in coma vegetativo permanente. Tecnicamente si tratterà di interrompere l'alimentazione forzata a cui è sottoposta. La Chiesa si è subito espressa contro questa sentenza (classificata come eutanasia) per voce di diversi suoi importanti rappresentanti.

Interessandomi a episodi di questo genere ho avuto occasione di individuare almeno tre atteggiamenti contrari a qualsiasi pratica di eutanasia (tutti in varia misura assunti dalla Chiesa Cattolica, ma non solo).

Il primo è squisitamente cattolico: la vita non ci appartiene, non ne possiamo disporre. Il momento in cui ci viene data, le modalità in cui ci viene data, il momento in cui ci viene tolta dipendono da una volontà che ci trascende. Nulla da eccepire, ma è evidente che questo principio non può essere esteso automaticamente a tutta una società (fatta anche in buona misura da non cattolici e non credenti). Il cattolico si deve rendere conto che questo suo sacrosanto principio (al quale lui evidentemente terrà fede per tutta la sua vita) non può essere codificato in una legge valida per tutti i suoi concittadini. Per lui avrà senso lottare affinchè questo principio si affermi largamente nella società, ma non ha alcun senso imporlo per legge. La legge dello Stato in materie come questa, che coinvolgono l'etica del singolo, deve semplicemente fornire un quadro normativo chiaro che consenta al cittadino di fare una scelta nella migliore delle condizioni possibili.

Il secondo atteggiamento è estendibile al di fuori del credo cattolico (e per questo motivo più usato dalla Chiesa): eliminare la vita, anche se questa è vissuta in condizioni di estrema sofferenza o di totale incoscienza come nel coma vegetativo, è un atto di estremo cinismo, fatto da una società che non dà più un valore alla vita in sè, che non coltiva più la speranza, che concepisce la vita solo se è efficiente, non di peso agli altri, insomma solo se è funzionale alla nostra società dei consumi. Nulla da eccepire anche in questo caso. Certamente condivisibile da un'ampia parte della società dal momento che non coinvolge nessun elemento trascendente. Però anche in questo caso si tratta di un giudizio di natura etica, e quindi secondo me non dovrebbe comunque rientrare nella formulazione di una legge, che invece andrebbe formulata in modo quanto più pragmatico possibile. Inoltre non credo che dietro a questi episodi così drammatici come quello di Eluana Englaro ci sia poi tutto questo cinismo e questa mancanza di valori verso la vita. Io credo più semplicemente che questi sono problemi etici nati con il progresso scientifico. Prima non c'erano. La scienza ci ha consentito di prolungare la vita, anche in stati di sofferenza, e di terminarla in modo dolce. E adesso ci dobbiamo fare i conti.

Il terzo atteggiamento è il più subdolo e controverso: bisogna lasciare il mondo in modo naturale (così come venire al mondo in modo naturale), l'eutanasia è un modo innaturale di terminare la propria esistenza. Ma che cosa vuol dire "naturale"? Questa domanda è troppo difficile, la rimando ad un prossimo post.....

giovedì 10 luglio 2008

8 luglio in piazza

Sono stato alla manifestazione di piazza contro le "leggi canaglia" del governo. Il tema era l'incostituzionalità degli ultimi provvedimenti in discussione al parlamento, in particolare quello conosciuto col nome di lodo Schifani, che introduce una sorta di immunità istituzionale a favore delle quattro alte cariche dello Stato, escludendoli così dalla sottoponibilità a processi penali nel corso del loro mandato (anche per reati che sono avvenuti precedentemente). Sul palco campeggiava un cartello che riportava il primo capoverso dell'articolo 3 della Costituzione (*).

Tutto questo, unitamente al fatto che certi provvedimenti sono in modo evidente funzionali al Primo Ministro per via dei suoi processi in corso e per niente utili al Paese (anzi, dannosi, dal momento che sottraggono il Parlamento ad attività importanti), e considerando che Berlusconi non è certo nuovo a questi comportamenti, l'ho giudicato sufficiente per andare ad ascoltare gli interventi a piazza Navona ed unirmi così alla protesta dei cittadini.

L'aspetto che mi è piaciuto poco della manifestazione è alla fine sempre il solito: la mancanza di un atteggiamento un minimo costruttivo, totalmente negato dall'intervento di Grillo che ormai spara a zero su tutto e tutti, o da quello satirico di Sabina Guzzanti, un vero boomerang, purtroppo.

Le idee c'erano, purtroppo largamente ignorate dai media. Le critiche pesanti al governo, sia al suo operato che alle persone che lo compongono, erano in gran parte condivisibili. Alcune battute pesanti ci stavano pure, se non altro avevano una funzione liberatoria. Ma io ho bisogno di proposte, di atteggiamenti più costruttivi, magari anche un minimo ottimisti. Non ce la faccio a campare solo di proteste, per quanto sacrosante. Qualcuno si dovrà prendere la briga di portare avanti un discorso, una linea di pensiero, un progetto politico.

Spero che col tempo, da tutto questo venga fuori qualcosa di buono.

(*) Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

giovedì 3 luglio 2008

I limiti di velocità

Ultimamente mi è capitato di sentire da più persone la classica critica ai limiti di velocità sulle strade: "sono troppo bassi, servono per fare le multe". E' una frase ricorrente e probabilmente in molti casi ha il suo fondo di verità. Ma la cosa strana è constatare che l'automobile non viene quasi mai percepita come uno strumento pericoloso, come oggettivamente è. Le statistiche sono molto chiare, il tasso di mortalità su strada è elevatissimo, ben più alto di molte altre cause che normalmente fanno più paura. Ed è inoltre, in modo evidente, strettamente legato alle velocità che si raggiungono.

E' una situazione esattamente ribaltata rispetto al tema della sicurezza nelle città, molto dibattuto ultimamente, anche in maniera strumentale, dalla politica italiana. In quest'ultimo caso è abbastanza evidente che il cosiddetto livello di sicurezza percepito è molto più basso di quello che traspare in modo più oggettivo dalle statistiche (secondo quest'ultime, come si sa, confrontate con la situazione europea o mondiale, le città italiane sono ambienti relativamente sicuri). Nel caso della sicurezza sulle strade invece, il dato oggettivo preoccupante delle statistiche non trova riscontro in una percezione altrettanto preoccupata. Un caso analogo credo sia quello della sicurezza sul lavoro.

I motivi di questa discrepanza tra percezione e dato oggettivo possono essere molti, ma credo ce ne sia uno di tipo, diciamo così, fisiologico. Nella percezione istintiva di un pericolo credo sia fondamentale la sensazione, vera o presunta, della propria capacità di controllo della situazione (e dunque del proprio grado di conoscenza di ciò con cui si ha a che fare).

Se salgo su un aereo so di non avere, in nessun momento, alcun controllo sul mezzo in cui mi trovo e questo aumenta significativamente la sensazione di pericolo, anche se le statistiche dovrebbero tranquillizzarmi. Se salgo su un'automobile come passeggero sono in genere molto meno tranquillo di quando ci salgo come autista. Alcune gravi malattie rese note al pubblico dai media in relazione a casi tanto gravi quanto sporadici, sfuggono al controllo medico e questo può portare il singolo individuo a comportamenti ridicoli se visti alla luce della incidenza enormemente bassa che tali malattie hanno. La città in cui abito è piena di gente che non conosco, con cui entro inevitabilmente in relazione, ma i cui comportamenti non sono mai del tutto prevedibili.

La sensazione di pericolo ha ovviamente radici antichissime ed è quindi elaborata principalmente a livello istintivo. Giudicare un pericolo su una base puramente razionale è certamente una cosa molto difficile.

Quando si guida l'automobile si ha la sensazione di controllare bene la situazione, ma è evidente che questa sensazione è più presunta che reale, tanto più presunta quanto più è alta la velocità; la guida sulle strade è un fatto collettivo, non individuale, la sicurezza dipende contemporaneamente da tutti, non solo dal singolo; visto in quest'ottica l'uso di regole rigide e rispettate da tutti (vedi i limiti di velocità) sembra essere l'unica vera strategia razionale praticabile.

martedì 1 luglio 2008

Il problema della politica in italia

In questo momento i termini politici destra e sinistra hanno un significato sempre più sfumato e sempre meno importante per gran parte delle persone. Il motivo principale secondo me è che i gravi problemi della politica italiana stanno tutti a monte di questa suddivisione, ovvero le politiche di destra e di sinistra hanno senso in una democrazia che ha raggiunto una certa maturità, in una società che sa mettersi d'accordo sulle regole generali del vivere civile, ma è proprio in questo aspetto che siamo estremamente carenti.

Tutti i maggiori scontri politici degli ultimi anni hanno sempre come sfondo gli elementi vitali di una democrazia: le regole di convivenza civile, il ruolo delle istituzioni e la loro efficienza, il rapporto tra i poteri dello stato, i conflitti di interessi, il ruolo dell'informazione, il funzionamento della giustizia, i meccanismi di controllo sull'accentramento dei poteri, la criminalità organizzata. Tutti elementi cruciali per mantenere il delicato equilibrio di uno stato democratico. Se molti dei problemi legati a questi fondamenti democratici rimangono intatti da anni (e alcuni peggiorano) è segno inequivocabile che gran parte della classe politica italiana di fatto non è interessata a risolverli, e anzi li usa a proprio vantaggio.

Quindi per noi cittadini il problema, prima ancora degli schieramenti destra/sinistra, è quello di cercare di capire da chi, tra i politici attuali, può arrivare una volontà di cambiamento, sia pur minima, a questo stato di cose.

mercoledì 25 giugno 2008

Benedetto XVI

Ultimamente il Vaticano, tramite un articolo uscito su "Fides", l'agenzia della Congregazione vaticana per l'evangelizzazione dei popoli, si è espresso negativamente sull'uso della bandiera della pace nei contesti prettamente cattolici. Secondo quest'articolo la bandiera è un simbolo sincretistico, che propone l’unità New Age nella sintesi delle religioni. Introdurla nelle chiese e nelle celebrazioni è da considerarsi «un abuso». In sostanza l'uso della bandiera della pace viene interpretato come uno di quegli atteggiamenti di relativismo culturale contro cui si batte Benedetto XVI.

Credo che una caratteristica di questo papa sia la sua volontà di voler definire con un certo rigore la figura del cattolico, il suo credo e la sua morale, e di voler rilanciare un'interpretazione molto ortodossa del cattolicesimo. D'altra parte si tratta dell'autore del Catechismo della Chiesa Cattolica. In questo senso interpreta molto bene il ruolo di capo spirituale di una chiesa "mater et magistra".
Questo si ripercuote in aspetti positivi e negativi.

- Mi sembra che con un papa del genere sia molto difficile l'atteggiamento ormai diffusissimo del credente che "interpreta" a suo modo (leggi a suo uso e consumo) il messaggio evangelico; con una chiesa così presente e così precisa nei messaggi che manda ai fedeli o sei cattolico, e perciò ti comporti da cattolico, o sei qualche altra cosa, ed è bene prenderne coscienza. Non c'è più molto spazio per una fede e una moralità "aggiustata".
Questo tutto sommato mi suona come un fatto positivo.

- E' certo che indicazioni morali così precise e affermazioni così nette e intransigenti non lasciano molto spazio alla discussione e all'interpretazione personale.
Questo per un cattolico mi suona come un fatto negativo.

- Purtroppo questo papa tende a presentare molte delle sue indicazioni morali come considerazioni oggettive e universali ("naturali") che quindi investono necessariamente tutta la società, credente e non credente. Tende inoltre a presentare la fede come la meta ultima del percorso di conoscenza razionale dell'uomo, il suo approdo necessario.
Questo è per tutti sicuramente un fatto molto negativo.

martedì 17 giugno 2008

La Ciaccona

Ho appena finito di sentire in televisione la Ciaccona di J.S.Bach, suonata al violino da Uto Ughi. E' uno dei pezzi per violino solo più famosi nella letteratura di questo strumento. Lo conosco da anni, in genere non perdo mai l'occasione di risentirlo, come in questo caso.

Quello che mi affascina di più di questo brano (e di altri brani simili per strumento solista, sempre di J.S.Bach) è la sensazione di solitudine che trasmette. Non ha però assolutamente nulla di negativo, di triste o di malinconico. E' al contrario una sensazione di solitudine potente, che in quel momento basta a se stessa, che si avventura in un ragionamento, in un viaggio che non deve essere disturbato. Descrive un momento importante ed estremamente positivo, proficuo, del vivere di una qualsiasi persona. Del tipo: lasciatemi pensare da solo, poi torniamo a ragionare assieme.

lunedì 16 giugno 2008

Darwinismo e Fisica Quantistica

Leggendo di evoluzionismo darwinista e di meccanica quantistica mi è spesso venuto in mente che queste due teorie nonostante le loro grandi distanze riguardo sia agli oggetti studiati che ai metodi di studio hanno almeno un paio di elementi che le accomunano.

- Il darwinismo ha caratteri di incomprensibilità che l'accomuna alle teorie quantistiche. Tali incomprensibilità sono legate al fatto che entrambe le teorie dipendono da grandezze non compatibili con l'esperienza umana. Nel caso della meccanica quantistica il comportamento della natura su piccola scala è innaturale in quanto l'uomo non ne ha mai avuto esperienza diretta. Su piccola scala le cose si comportano diversamente da tutto ciò che conosciamo. Nel caso dell'evoluzione biologica in senso darwinista i "prodotti" attualmente osservabili del suo operare sono di una complessità enorme, estremamente difficile da attribuire interamente ai meccanismi "semplici" di selezione naturale, ma questi meccanismi vanno valutati su scale di tempo del tutto innaturali per l'uomo, in quanto l'uomo non ne ha mai avuto esperienza diretta. Sulle grandi scale temporali in cui opera l'evoluzione i risultati che si possono ottenere sono del tutto inimmaginabili, dunque incomprensibili.

- Il darwinismo ha caratteri di imprevedibilità che l'accomunano alle teorie quantistiche. Per queste ultime il concetto di prevedibilità è essenzialmente di tipo statistico. Nel caso dell'evoluzione questa è un fenomeno di tipo non deterministico in cui gli eventi contingenti (storici), non necessari (nel senso non deducibili da leggi generali) assumono un ruolo spesso decisivo. La biosfera non contiene una classe prevedibile di oggetti o di fenomeni, ma costituisce un evento particolare, certamente compatibile con i principi primi, ma non deducibile da essi e quindi essenzialmente imprevedibile.

lunedì 9 giugno 2008

Embrione ed Individuo

Domande ricorrenti: l'embrione è un individuo? E a partire da quando? Io penso che l'embrione sia un ente biologico, un concetto strettamente tecnico; l'individuo è invece un concetto molto più sfumato (e sicuramente più importante). Mentre si può definire molto bene un embrione, senza equivocare, lo stesso non si può dire dell'individuo, a meno che non si voglia ridurre questo concetto a "esemplare specifico di una determinata specie vivente", nel qual caso si perde tutta l'importanza filosofica dell'argomento e tutta la sua specificità legata all'uomo (basti pensare all'attribuzione dei diritti umani e giuridici che ne derivano). Credo che il concetto di individuo non può essere in alcun modo di tipo solo strettamente biologico. Di fatto l'individuo è tale con il passare del tempo, cioè in relazione alla sua storia. E' quest'ultima che probabilmente dà un valore essenziale al concetto di individuo. Già, il punto è che l'embrione è un fatto, e l'individuo è un valore.

"L'embrione è un individuo a partire dal suo concepimento" (da cui discende la necessità di garantirgli tutti i diritti fondamentali che si assicurano ad un individuo) è una frase a cui non riesco ad attribuire un senso preciso, mette insieme due cose che stanno su piani completamente differenti.

Edoardo Boncinelli (biologo genetista) in un suo libro propone di chiamare individuo un embrione che abbia raggiunto due settimane di sviluppo. Una proposta che suona piuttosto artificiale ma che ha una sua giustificazione tecnica e che potrebbe anche mettere d'accordo visioni differenti. Nelle prime due settimane l'embrione è talmente amorfo e non definito che di fatto potrebbe (in modo assolutamente non prevedibile) dar luogo a più individui (gemelli) piuttosto che ad uno solo; inoltre in questo primo periodo non esiste ancora nessun tipo di differenziazione cellulare o di semplice organizzazione spaziale (eventi che si presentano solo dopo il 14-esimo giorno, con l'inizio del processo chiamato gastrulazione).

giovedì 5 giugno 2008

Egocentrismo, Antropocentrismo

Nelle fasi iniziali della nostra vita il tratto distintivo è l'egocentrismo. Impariamo presto il binomio io-restodelmondo e in varia misura ce lo portiamo appresso per tutta la vita. Il bambino in tenera età non concepisce neppure la possibilità che il mondo possa esistere (e di fatto è esistito) senza di lui. La maturazione dell'individuo consiste in gran parte nell'acquisizione progressiva di questo concetto.

Ma spesso il puro egocentrismo delle primissime fasi della vita, sempre più insostenibile almeno nella forma in cui ce lo costruiamo inizialmente, lascia spazio ad un suo surrogato, certamente più "ragionevole": l'antropocentrismo. Il binomio io-restodelmondo diventa il binomio uomo-restodelmondo. E questo concetto, condivisibile pacificamente con tutti gli altri uomini, rimane indisturbato (nella maggior parte dei casi) per il resto della vita. Se proprio non è accettabile assegnare una posizione privilegiata al proprio io nel mondo (idea troppo infantile) almeno cerchiamo di sostenere l'idea che l'uomo come specie abbia una posizione privilegiata, giustificandolo in sostanza con alcune nostre specificità quali il linguaggio, l'autocoscienza, la capacità di descrivere il mondo e di farsene una immagine precisa, ecc.

Succede però che in molte occasioni anche questo ulteriore binomio venga "minacciato" dagli eventi e da osservazioni che "depongono a sfavore". In fin dei conti cos'è che ci dice che occupiamo un posto particolare? Ormai sappiamo che la nostra posizione spaziale non ha niente di particolare, neppure quella temporale sembra avere qualche significato, le specificità accennate precedentemente non sembrano prerogative solo nostre (anche se noi le possediamo in massimo grado), il mondo non ci appare affatto costruito su misura per noi, e dove potrebbe sembrarlo è chiaro che l'argomento si può rovesciare, cioè potremmo essere noi fatti a misura del mondo che abitiamo (che dal punto di vista delle conoscenze che abbiamo attualmente sui meccanismi evolutivi pare una posizione molto più logica).

Molte personalità del mondo scientifico hanno espresso bene quest'idea con frasi sintetiche ed efficaci. Ne cito un paio:

- Gli esseri umani sono animali. Possiamo essere talvolta dei mostri, altre volte individui meravigliosi, ma siamo pur sempre animali. Magari ci piacerebbe pensare di essere degli angeli caduti dal cielo, ma in realtà siamo scimmie in posizione eretta. (Desmond Morris)

- Noi vogliamo essere necessari, inevitabili, ordinati da sempre. Tutte le religioni, quasi tutte le filosofie, perfino una parte della scienza, sono testimoni dell'instancabile, eroico sforzo dell'umanità che nega disperatamente la propria contingenza. (Jaques Monod)

venerdì 30 maggio 2008

So' andato a vede' Vasco

Se c'è una cosa che mi dà sempre un po' fastidio di molti concerti rock o pop è che mancano quasi sempre di eventi inaspettati, sorprendenti, mancano dell'apetto conoscitivo di uno spettacolo. Sono sempre troppo scontati nel loro articolarsi, sia negli aspetti più strettamente musicali che in quelli dello spettacolo in generale. E spesso sono troppo celebrativi. Non si va al concerto per conoscere qualcosa ma per celebrare qualcosa che si conosce perfettamente e su cui in fondo non si reputa ci sia altro da dire.

Anche il concerto di Vasco aveva questo "problema".
Comunque un gran bel concerto.

LHC (Large Hadron Collider)

Si tratta del più grande esperimento di Fisica delle particelle (e in pratica di tutta la scienza) mai realizzato. Se non ci saranno altri rinvii la macchina comincerà a funzionare e a fornire i primi dati sperimentali nel mese di luglio.

Di questo esperimento mi colpiscono due cose, una sul piano tecnologico, l'altro su quello più strettamente scientifico.

1. dal punto di vista tecnologico la cosa più impressionante è la necessità del controllo di tutti i parametri dell'esperimento, le installazioni dei componenti devono essere fatte "al millimetro" (letteralmente) altrimenti non funziona nulla; un esempio (da un articolo di "Le Scienze"): le misure devono essere fatte tenendo conto dell'allargamento dell'anello (circa un millimetro!) che si ha in corrispondenza della deformazione della crosta terrestre durante le fasi lunari (fenomeno delle maree). Questo allargamento influisce significativamente sull'energia del fascio e quindi sull'interpretazione dei risultati delle collisioni!

2. sul piano scientifico l'obiettivo principale che ha portato alla realizzazione di una macchina del genere è quello di riuscire a "vedere" il bosone di Higgs, l'unica particella prevista dal Modello Standard (teorizzata nel 1964) rimasta ancora inosservata, e anche la particella che all'interno del Modello gioca un ruolo fondamentale. Ma questa in fondo è la parte scontata dell'esperimento. Quella forse più affascinante deriva dal fatto che la nuova macchina esplorerà un range di energie molto più alto di quelli finora esplorati e quindi in realtà non si sa che cosa scopriremo. Questo è l'aspetto della questione che mi colpisce di più perchè in fondo è proprio quello che mette in risalto la sostanza dell'attività scientifica. E' molto frequente riscontrare l'opinione (più o meno consapevole) che il valore culturale della scienza sia quello di "spiegarci" il funzionamento delle cose. Ma in realtà credo che il suo valore sia soprattutto nel processo di conoscenza, che per essere definito ha bisogno di cose non ancora spiegate, ignote. Credo che la potenza della scienza sia tutta in questo atteggiamento curioso, quasi infantile, del "vediamo un po' che succede".

venerdì 23 maggio 2008

Nucleare in Italia

In questi giorni si riparla di nucleare in Italia, il governo annuncia il suo impegno ad avviare nuove centrali nucleari nei prossimi 5 anni.

Ricordo ancora il fastidio che provai durante la campagna referendaria per l'abrogazione del nucleare del 1987. Era l'indomani dell'incidente di Cernobyl (l'anno prima) e il referendum si svolse in un clima secondo me totalmente irrazionale. Roma era tappezzata di manifesti con immagini del reattore di Cernobyl e spesso direttamente con immagini del fungo atomico. Intollerabile.

Che tale scelta fosse stata irrazionale, non dibattuta seriamente all'epoca neanche dalle forze politiche di allora lo si è visto anche in seguito. Un paese che rinunciava al nucleare in quegli anni (scelta ovviamente legittima) avrebbe dovuto necessariamente promuovere politiche energetiche alternative e sviluppare contestualmente seri piani di ricerca scientifica e tecnologica nel settore dell'energia, questo per non rimanere nel giro di pochi anni quasi totalmente dipendente dall'estero. Non mi sembra che in Italia la faccenda sia andata in questi termini.

Oggi potevamo essere uno degli stati più all'avanguardia nel settore della produzione di energie rinnovabili (*) avendo su molti altri un vantaggio di venti anni di rinuncia al nucleare; in realtà ci ritroviamo invece a discutere un possibile reinserimento del nucleare in Italia con venti anni di ritardo rispetto agli altri paesi e tutto sommato in un periodo in cui si comincia a mettere in discussione la convenienza anche economica di questa tecnologia, e in generale il suo futuro.

(*) da Wikipedia: Sono da considerarsi energie rinnovabili quelle forme di energia generate da fonti che per loro caratteristica intrinseca si rigenerano o non sono "esauribili" nella scala dei tempi "umani" e, per estensione, il cui utilizzo non pregiudica le risorse naturali per le generazioni future.

mercoledì 21 maggio 2008

Ottopermille

Sto seriamente pensando di versare il mio ottopermille alla Chiesa Evangelica Valdese. In questo momento la rivista Micromega sta anche promuovendo una campagna a favore di questo (http://www.micromega.net/). Le motivazioni sono diverse:


- si potrebbe pensare che il contribuente con la sua firma possa assegnare l'otto per mille delle tasse che lui paga ad una organizzazione che le spende per ragioni umanitarie (compreso lo Stato); in realtà non è vero, la firma del contribuente vale come un "voto" di preferenza per l'assegnazione dell'otto per mille dell'intero gettito;


- si potrebbe pensare che il contribuente, omettendo la sua firma, possa decidere di non assegnare il suo ottopermille e che quindi tutte le sue tasse siano versate semplicemente allo Stato; in realtà non è vero, le non assegnazioni esplicite cioè le "schede bianche" vengono redistribuite in misura proporzionale ai "voti" ottenuti; in tal modo con i numeri attuali le singole organizzazioni prendono più del doppio dei finanziamenti che i contribuenti hanno esplicitamente assegnato loro;


- si potrebbe pensare che firmando per lo Stato il contribuente assegni l'ottopermille al finanziamento di progetti umanitari; in realtà non è del tutto vero, l'utilizzo che lo Stato ha fatto in passato di questa parte del gettito non è molto chiaro, una parte di esso è stato addirittura utilizzato per le missioni in medio oriente (missioni "umanitarie");


- si potrebbe pensare che firmando per la Chiesa Cattolica il contribuente assegni l'ottopermille al finanziamento di progetti umanitari; in realtà non è del tutto vero, la Chiesa Cattolica utilizza solo circa il 20% di questo finanziamento per "interventi caritativi" (meno del 10% al terzo mondo), il resto finisce in varie voci di spesa che in realtà interessano il culto e il "sostentamento del clero";


- la Chiesa Evangelica Valdese assicura l'impegno dell'ottopermille esclusivamente per finanziare progetti di tipo umanitario e pubblicano sul sito un rendiconto dettagliato al centesimo di tutte le voci di spesa (http://www.ottopermillevaldese.org/);


- è abbastanza evidente che la legge dell'ottopermille è stata pensata, all'indomani del nuovo concordato (1984), per continuare a finanziare la Chiesa Cattolica con contributi statali (attualmente poco meno del 90% dell'ottopermille finisce alla Chiesa Cattolica); questo contributo annuale del fisco italiano ad una confessione religiosa che perdipiù lo usa prevalentemente per finanziare le sue strutture interne, mascherato da scelta libera del contribuente va contro il concetto di Stato Laico.


La legge dell'ottopermille viene ben descritta e discussa sul sito dell'U.A.A.R. (Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti, http://www.uaar.it/).


Nota: tutto sommato ci sta anche il fatto che la visione protestante del Cristianesimo mi piace di più di quella Cattolica.

giovedì 8 maggio 2008

Luigi Di Liegro

Se ci penso, l'unica esperienza interessante che mi è capitato di fare con il mondo cattolico è quella legata ai 10 mesi del mio servizio civile presso la Caritas Diocesana di Roma. In poche parole l'aspetto veramente notevole era quello di avere a che fare con cattolici che non avevano il tempo per la dottrina o per fare i "buoni" poichè erano totalmente immersi (o sommersi) nel mondo dell'emarginazione, in tutte le sue incredibili forme.

Le operazioni quotidiane erano lavare i barboni più recalcitranti (o convincerli a lavarsi), servire a mensa la moltitudine di vagabondi di passaggio, portare i panini a chi dormiva per strada (con l'attenzione di non farli tutti con carne di maiale, per non urtare la sensibilità dei tanti musulmani), scambiare quattro chiacchiere con i vari ospiti dell'ostello (perlopiù disturbati mentali), distribuire farmaci (con il controllo di un medico) e vestiti. Insomma il contatto continuo con "certa gente" era l'elemento caratterizzante di quell'esperienza, e credo fosse anche la motivazione principale dei molti cattolici che lì ho conosciuto.

In quell'occasione ho maturato l'idea che c'è qualche cosa che non va nel nostro concetto di aiutare le persone "rimanendo a distanza". Mi riferisco alle nostre tante donazioni al terzo mondo e in generale al concetto di beneficenza. Credo che questa cosa, o una cosa del genere, la pensasse anche Luigi Di Liegro, il fondatore della Caritas all'indomani del Concilio Vaticano II. All'epoca del mio servizio civile passava regolarmente per i vari centri, conosceva e salutava la maggior parte dei "clienti cronici" e veniva in ostello a celebrare la messa di Natale o di Pasqua. Non perdeva mai il contatto con le persone.

Tempo fa, molti anni dopo questa esperienza, più di dieci anni dopo la scomparsa di monsignor Di Liegro, mi è capitato di leggere una sua frase che conferma questo suo modo di pensare, trasferito così efficacemente nell'organizzazione che ha fondato:
"Non si può amare a distanza restando fuori dalla mischia, senza sporcarsi le mani, ma soprattutto non si può amare senza condividere."

mercoledì 30 aprile 2008

Pikaia

C'è un libro di Stephen Jay Gould (uno dei tanti, Gould è senz'altro uno dei maggiori divulgatori di biologia evoluzionista) che ripercorre i passaggi della scoperta di uno dei maggiori giacimenti fossiliferi del mondo: quello di Burgess (British Columbia, Canada). Il libro è interessante per due ragioni: anzitutto descrive nei dettagli una importante scoperta scientifica, compresi i passi falsi e le interpretazioni errate dettate molto spesso da pregiudizi; poi afferma la natura contingente della nostra storia, così come appare evidente da questi studi e da queste scoperte.

Tra i fossili descritti in questo importante studio di paleontologia ce n'è uno chiamato Pikaia, rivelatosi il più antico esempio di cordato (circa 500 milioni di anni fa), presumibilmente il progenitore del phylum (quello dei cordati, appunto) a cui appartengono tutti i vertebrati (noi compresi). Ma il giacimento di Burgess rivela che Pikaia rappresenta uno dei tanti piani anatomici presenti all'epoca, senza nessuna posizione privilegiata rispetto ai molti altri che sono scomparsi nei milioni di anni successivi. Come dice Gould la nostra esistenza è il risultato di una contingenza di "sola storia".

Riporto un estratto del pensiero conclusivo del libro:
"Pikaia è l'anello mancante della nostra storia, la connessione diretta fra la decimazione della popolazione di Burgess e la successiva evoluzione umana ... Immaginiamo di riavvolgere indietro il nastro della vita ... se Pikaia non sopravvive nel replay, noi siamo spazzati via dalla storia, tutti quanti, dal pescecane al passerotto all'orangutan ... Perciò se ci poniamo la domanda fondamentale di sempre - perchè esistono gli esseri umani? - una parte essenziale della risposta deve essere: perchè Pikaia sopravvisse alla grande decimazione della popolazione di Burgess. Questa risposta non cita alcuna legge della natura, non contiene alcuna affermazione sui cammini evolutivi prevedibili, nè alcun calcolo di probabilità basato su regole generali dell'anatomia o dell'ecologia. La sopravvivenza di Pikaia è stato soltanto un evento contingente della storia. Io non penso che si possa dare una qualche risposta "superiore", e non riesco a immaginare che una qualche soluzione possa essere più affascinante di questa."

Pikaia è anche un sito internet italiano sui temi dell'evoluzione biologica
http://www.pikaia.eu/

Giovanni Allevi, pianista classico

Giovanni Allevi è un pianista che propone nei suoi concerti e nelle sue incisioni discografiche composizioni proprie. Si tratta di musica scritta. E di musica eseguita da solo al pianoforte. In questi ultimi anni ha ottenuto un successo di pubblico sempre crescente, apparizioni televisive e sulla carta stampata, e addirittura la pubblicazione di un libro (oltre che di tutta la sua musica).

La sua figura mi risulta in effetti abbastanza originale. Se penso ai pianisti degli ultimi decenni che mi è capitato di ascoltare riconosco due figure ben delineate: il pianista classico e il pianista jazz (nella musica rock o pop il pianismo strumentale puro e semplice non esiste, non mi risulta). Il pianismo classico è prevalentemente (direi esclusivamente) un pianismo di interpreti, ovvero di musicisti che interpretano musica scritta da altri, con repertori più o meno ampi, che attingono alla vastissima letteratura pianistica occidentale. Il pianismo jazz è invece (come tutta la musica jazz) un pianismo di improvvisazione, dove l'esecutore è comunque sempre compositore (di chiunque sia la musica che sta suonando).

Allevi è un pianista classico, lontano dalla prassi jazzistica tutta basata sull'improvvisazione (i brani che esegue sono tutti rigorosamente scritti, dalla prima all'ultima nota), non interprete di musica scritta da altri, bensì compositore di tutte le musiche che interpreta. Un pianista con queste caratteristiche non esisteva più da tempo.

Nota: nella musica rock o pop il musicista, magari all'interno di una band, è quasi sempre compositore di tutte le musiche che interpreta.

martedì 29 aprile 2008

Integrazione sociale e Sicurezza

La destra ha vinto le elezioni per il comune di Roma. Lo fa sulla scia di un notevole successo ottenuto due settimane prima alle elezioni per il rinnovo della legislatura. Ottiene il governo della Capitale dopo quindici anni di amministrazioni di sinistra.

Il tema dominante dibattuto in campagna elettorale è stato quello della sicurezza del territorio. Su questo argomento la destra ha fatto una semplice equazione: problema sicurezza=problema immigrazione clandestina; e al contempo ha fornito una soluzione altrettanto semplice: espulsione immediata di circa ventimila immigrati clandestini. La sinistra ha inseguito la destra su questo tema, arrancando.

L'atteggiamento di una politica di destra è quello di puntare sul problema della sicurezza del territorio individuando cause semplici (gli immigrati clandestini) e proponendo soluzioni dirette e chiare (l'espulsione) facendo leva su un livello di comprensione medio-basso dei problemi di una società. D'altro canto la questione dell'integrazione sociale non è mai una priorità di una forza politica di destra.

Una politica di sinistra non può trascurare la questione della sicurezza, ma non può fornirne una lettura banale; inoltre la sinistra quando si parla di immigrazione pone l'accento, per sua natura, sull'importante tema dell'integrazione sociale, e lo deve fare anche a rischio di perdersi qualcosa sul lato della sicurezza. La questione dell'integrazione sociale è sempre una priorità di una forza politica di sinistra.

Il clima di questi tempi ha portato l'elettorato romano a dare ragione alla destra.

Io considero la visione politica di sinistra più vicina alla mia sensibilità.

Dijkstra e la Computer Science

Questa frase di Edsger W. Dijkstra, informatico olandese, premio Turing nel 1972, riflette bene l'idea che mi sono fatto dell'informatica:

"Computer Science is no more about computers than astronomy is about telescopes."

Dijkstra ha usato pochissimo il computer per il suo lavoro (i suoi appunti, tutti raccolti con la sigla EWD e disponibili on line http://www.cs.utexas.edu/users/EWD/welcome.html, sono prevalentemente scritti a penna) ma ha contribuito in maniera determinante allo sviluppo di concetti che formano l'ossatura delle tecnologie informatiche odierne.

http://en.wikipedia.org/wiki/Edsger_Dijkstra

Primo Post

Ho creato questo blog il 29 aprile 2008.