martedì 3 dicembre 2019

"Papà, perché il tempo è relativo?"

Questa domanda me l'ha fatta mio figlio qualche tempo fa e ovviamente si riferiva a quanto conosce della Relatività (ben poco, ovviamente). La domanda è malposta. Come al solito le domande con il "perché" hanno poco senso in fisica e in generale andrebbero sostituite con il "come" o con il "in che senso". In questo caso io trasformerei la domanda nella seguente: "In che senso il tempo è relativo?". O eventualmente, se proprio si vuole mantenere il perché si dovrebbe trasformare in "perché si dice che il tempo è relativo?". E magari aggiungerei provocatoriamente: "... e perché questa cosa ci colpisce? Perché ci appare strana?". Non sono osservazioni oziose, la formulazione corretta della domanda è essenziale. Soprattutto per chi se la fa in maniera non retorica.

La domanda, a cui mi sono guardato bene di rispondere al volo, mi ha richiamato alla mente il primo racconto del libro di George Gamow, Le avventure di Mr. Tompkins, e alla spiegazione dello stesso che viene data a seguire. L'avevo letta poco tempo prima. Credo che organizzerò per mio figlio una risposta che prenda spunto da questa spiegazione. Intanto me la scrivo qui.

Viene naturale pensare allo spazio e al tempo come a una scatola in cui avvengono i fatti del mondo, il teatro degli eventi. E viene naturale pensare il tempo come a una variabile indipendente da tutto, anche dallo spazio. Questa è stata per molto tempo la visione classica del mondo, dove spazio e tempo danno le grandezze che descrivono il moto dei corpi. Si tratta di una cosa talmente assodata che si tende a non metterla neppure in discussione, risultato di una conoscenza (percezione) apriori, come la chiamava Kant, che viene prima rispetto a qualsiasi dato dell'esperienza.

Ma la conoscenza scientifica nasce dall'interazione tra l'immaginazione e il dato dell'esperienza (misurato e trattato in modo razionale e non solamente percepito) e ci obbliga quando necessario a sottoporre tutto quello che sappiamo o pensiamo di sapere al vaglio critico del confronto con le osservazioni. Non sono solo le nostre idee a guidare l'indagine scientifica perchè queste potrebbero prima o poi rivelarsi dei preconcetti. L'indagine scientifica è guidata dalle nostre idee solo provvisoriamente, in quanto l'esperienza ci può costringere a cambiarle, integrarle, estenderle in qualsiasi momento. E' l'esperienza del mondo ad alimentare concretamente la costruzione della nostra conoscenza.

Quindi cominciamo col dire che nell'intuizione comune (e nella nostra comune percezione) spazio e tempo non hanno un comportamento simmetrico. Lo spazio in un certo senso è relativo, accettiamo abbastanza naturalmente questo fatto. Siamo invece molto meno propensi a considerare il tempo allo stesso modo, perchè per la nostra esperienza questo risulta del tutto controintuitivo.

Se fossimo in uno spazio completamente vuoto il concetto di posizione non avrebbe senso, per stabilire una posizione abbiamo bisogno di un referimento. La scelta di un riferimento determina la descrizione di un moto, descrizione che può cambiare completamente se scelgo un riferimento diverso. Gli spazi descritti dal corpo si modificano in modo sostanziale al cambiamento del sistema di riferimento. Uno spazio assoluto non ha senso.

Anche per misurare il tempo abbiamo bisogno di un riferimento. Ma quello che siamo portati a pensare è che l'intervallo di tempo tra due eventi misurato da chiunque in qualunque riferimento e in qualunque stato di moto sia sempre lo stesso. Le misure del tempo le consideriamo sempre assolute, al contrario di quello che avviene per le misure di spazio. Due eventi possono aver luogo nello stesso punto dello spazio o su due punti distinti a seconda del riferimento che usiamo, e questo è un dato semplice dell'esperienza (si pensi agli eventi descritti da un treno in corsa o dalla banchina ferma). Gli stessi due eventi però rimangono sempre simultanei (o distanti un certo intervallo di tempo) in tutti i sistemi di riferimento che possiamo immaginare. Concepito così il tempo si rivela una grandezza assoluta. Il tempo e lo spazio per la nostra percezione non sono simmetrici.

In realtà l'analisi critica di queste due grandezze (in particolare del tempo) condotta dalla teoria della Relatività Ristretta le rivela come del tutto simmetriche e in stretta relazione tra loro. Il tempo nell'ambito di questa teoria si mostra altrettanto relativo, come lo spazio. Storicamente questa critica parte da un'osservazione sperimentale (cioè da una misura) accettata come valida per la sua evidenza e che modifica radicalmente il concetto di tempo, in un modo difficilmente accettabile per la percezione che solitamente ne abbiamo. Un caso veramente eclatante di come immaginazione, logica, razionalità ed osservazione ("sensate esperienze e necessarie dimostrazioni") producano conoscenza del mondo.

George Gamow nella sua opera esprime in un modo "simmetrico" (e per me molto affascinante) questa simmetria tra i concetti di spazio e tempo.

Spazio - "Due eventi che hanno luogo in due istanti differenti possono avvenire nella stessa posizione dello spazio dal punto di vista di un sistema di riferimento, mentre risultano separati da una certa distanza dal punto di vista di un altro sistema di riferimento".

Tempo - "Due eventi che hanno luogo in due posizioni differenti possono essere considerati simultanei da parte di un sistema di riferimento, mentre risultano separati da un certo intervallo di tempo dal punto di vista di un altro sistema di riferimento".

Inoltre, sempre Gamow, coglie in modo sorprendentemente efficacie il motivo per cui questa simmetria, scoperta dall'analisi razionale fatta nell'ambito della Relatività Ristretta, è del tutto insolita per l'esperienza quotidiana.

"Il fatto che nella sfera dell'esperienza quotidiana le trasformazioni degli intervalli spaziali in intervalli temporali conducono a differenze numeriche non osservabili in pratica, ha determinato la concezione classica del tempo come qualcosa di assolutamente indipendente e immutabile".

Questa asimmetria percepita è di fatto il risultato di grandezze che sfuggono ai nostri sensi ma che sono prima deducibili e poi misurabili.

NOTA: Una variante diversa della domanda, una delle varianti poste anche da mio figlio, è: "In che modo Einstein riesce a stabilire che il tempo è relativo?". Questo è un altro discorso, vedi le considerazioni fatte in questo post.

lunedì 4 novembre 2019

Una visita al Maker Faire

Negli anni settanta esisteva a Roma una mostra annuale di tecnologie elettroniche chiamata semplicemente, se non ricordo male, "Mostra dell'elettronica" o "Fiera dell'elettronica", che si teneva al Palazzo dei Congressi di Roma EUR. Io e i miei fratelli, troppo piccoli per avere interessi del genere, ci andavamo portati da nostro zio paterno, lui sì molto interessato. Uno dei ricordi di questa abitudine annuale un po' forzata sono i primi televisori a colori esposti alla mostra, era la seconda metà degli anni settanta, proprio il periodo dell'introduzione in Italia delle trasmissioni televisive a colori.

L'altro giorno ho "accompagnato" mio fratello minore al Maker Faire, la manifestazione internazionale (edizione europea) dell'innovazione, che nella nostra immaginazione e nei nostri lontani ricordi ci sembra essere la cosa attuale più somigliante alla "nostra" fiera dell'elettronica (a dire il vero cercando in rete si trova una fiera dell'elettronica, ma sembra una manifestazione di settore su prodotti per radioamatori, una cosa ben diversa da quella che frequentavamo allora).

La visita è stata per motivi di tempo piuttosto frettolosa, anche perchè le dimensioni della manifestazione (ormai alla settima edizione, sempre più pubblicizzata e sempe più popolare) sono ragguardevoli, 9 padiglioni della Fiera di Roma. Il padiglione più interessante tra quelli che abbiamo avuto il tempo di visitare è stato quello della robotica e intelligenza artificiale. Ma perlopiù vagavamo leggermente disorientati, buttando l'occhio un po' qua un po' là, con qualche difficoltà a soffermarci sui prodotti dei vari stand.

Sono tornato a casa divertito da questa gitarella in stile amarcord e dalle quattro chiacchiere con mio fratello ma con un certo senso di insoddisfazione per quello che avevo visto. Successivamente sono arrivato ad una conclusione che mi sembra di un qualche interesse e che mi appunto in questo post.

Una manifestazione come questa, di carattere essenzialmente tecnologico, ha secondo me un difetto abbastanza grave di comunicazione, e credo anche che questo stesso difetto spesso affligga gran parte della comunicazione tecnologica (e, ahimè, scientifica). Gli stand presentano dispositivi più o meno affascinanti ma trascurando quasi sempre o riducendo ai minimi termini le descrizioni di come sono fatti, i dettagli di come si è arrivati ad ottenerli, le idee e i principi dietro l'oggetto in sè. Magari si dice a cosa servono o cosa fanno, a quali applicazioni attuali o future sono destinati, ma ben poco dei percorsi seguiti per arrivarci. Una esposizione di risultati che alla fine mi sembrava quasi sempre insoddisfacente e poco stimolante. Vedere una squadra di piccoli robot che giocano a pallone, per giunta in maniera un po' patetica, è divertente per qualche minuto poi ti viene la curiosità di sapere qualcosa di più su come fanno quei pupazzetti a capire che sono caduti e quindi a rialzarzi (la cosa più affascinante che si notava). Ma non sembrava questo lo scopo delle esposizioni. Si presentavano risultati ed obiettivi senza illustrare in modo soddisfacente i percorsi per ottenerli. Forse per la loro complessità era scontato che ci si dovesse capire ben poco. Più o meno come sta succedendo per la scienza.

Al di là della manifestazione a cui siamo andati, alle sue ragioni (in fondo era una mostra di espositori che producono tecnologia) e alla nostra eventuale distrazione credo che nella comunicazione tecnologica e nei suoi fallimenti in campo formativo e divulgativo questo sia un punto cruciale e che questa cosa sia peggiorata e diventata più significativa proprio con l'accelerazione della tecnologia e con il progressivo aumento della sua complessità. Essere ricoperti da dispositivi (scatole nere) che fanno cose non è intellettualmente stimolante. L'innovazione è fatta di idee che in qualche modo devono poter essere comunicate, non di prodotti da utilizzare. In un momento come questo credo che la divulgazione tecnologica (almeno quanto quella scientifica) sia di un'importanza fondamentale per la cultura media, per quel corpo di conoscenze condivise che definiscono una società. Perdere completamente il contatto con le idee della tecnologia e ridursi alla utilizzazione dei dispositivi è una povertà culturale che dovrebbe preoccupare.

mercoledì 29 maggio 2019

Le dimensioni giuste della politica

Questa mattina su twitter mi è capitato davanti una specie di manifestino elettorale evidentemente utilizzato nei giorni di campagna di queste ultime (ormai passate) elezioni europee. Il suo contenuto era una contrapposizione schematica dei valori della sinistra e della destra. Il volantino era del senatore Pillon, dunque di destra e orientato a quelle questioni che riguardano la famiglia, la sessualità, la droga, e tutta 'sta roba.

Io sono sinceramente convinto che la politica sia costituita da insiemi di valori con i quali si costruisce una visione della società che è poi quella che informa l'azione politica vera e propria. Sono anche convinto che la dialettica democratica si alimenti di visioni se non proprio contrapposte in tutto e per tutto quantomeno distinguibili e che la schematicità della contrapposizione destra-sinistra sia una semplificazione in genere molto utile. La sua utilità sta proprio nel fatto che può rendere chiari i messaggi politici verso l'elettorato perché li inquadra in visioni di insieme dando loro delle utili chiavi di lettura. Il dibattito politico ha necessità di quadri di riferimento altrimenti diventa eccessivamente complicato per il cittadino che in fondo è occupato in tutt'altro, e che può essere facilitato ad orientarsi nei suoi giudizi utilizzando delle categorie generali di pensiero in cui si riconosce, se non vuole essere costretto a prendere in considerazione tutti i dettagli di qualunque provvedimento parlamentare e/o governativo. Un cittadino normale non riesce a stare appresso neanche a tutti i provvedimenti del proprio amministratore di condominio. Insomma secondo me in una democrazia che vuole funzionare c'è un problema di comunicazione e di linguaggio che ha un'importanza cruciale.

Mi rendo conto però che questo approccio, per molti versi utile, presta il fianco sia a semplificazioni eccessive, sia a strumentalizzazioni gravi. E' evidente che la realtà è più complessa e le classificazioni funzionano fino ad un certo punto, oltre il quale diventano negative per diversi motivi. Ad esempio si fa presto a creare contrapposizioni feroci ma al dunque anche abbastanza inconsistenti. E si fa altrettanto presto ad estremizzare, uscendo fuori dal confronto dialettico vero e proprio che è quello che alimenta in modo sano e costruttivo il sistema democratico e fa andare avanti una società.

Leggendo il volantino del senatore Pillon ho pensato proprio alla pericolosità delle semplificazioni nella contrapposizione destra-sinistra. Tra l'altro mi pare anche chiarissimo che queste semplificazioni sono in questo caso abilmente strumentalizzate per centrare il discorso su aspetti che molto probabilmente non sono neanche così importanti nella società reale, ma sono invece certamente funzionali a dare corpo e rilievo a figure minori della politica come quella del senatore in questione. Il fatto grave è che a me sembra che tutta la sua parte politica stia emergendo con l'uso strumentale di questa contrapposizione anzichè con temi concreti, e con la sua estremizzazione, spesso espressa anche in forme ridicole e odiose, per costruirsi una fisionomia forte che copra le sue vere caratteristiche: inconsistenza e trasformismo.

La destra che sta emergendo di questi tempi è la caricatura di una categoria politica che diversamente sarebbe utile alla democrazia. D'altro canto è purtroppo anche vero che la sinistra si è persa nella complessità del mondo e non trova i messaggi magari semplificati ma chiari che sono condizione imprescindibile alla sua esistenza. In Italia destra e sinistra non trovano una dimensione utile ad un dibattito democratico efficacie.

domenica 31 marzo 2019

I diritti costano

Quale può essere il messaggio del "Congresso mondiale delle famiglie" (World Congress of Families XIII) di Verona? Perchè definire in modo così dogmatico il concetto di famiglia? E tirar via da questo concetto le tantissime persone che per mille motivi non ci possono rientrare? Perché questa esigenza di stabilire cittadini "conformi" e cittadini "out"?

Mi viene da pensare che questo episodio (in sé e per sé anche un po' ridicolo) faccia parte di una tendenza generale sempre più evidente di voler essere "esclusivi", meno aperti ad includere i diritti delle persone che siano anche poco poco diverse da un qualche modello, magari scemo, magari insignificante, ma sufficiente per stabilire dei criteri di diversità. Un pretesto qualunque. Sembra che ci sia una volontà più o meno esplicita di limitare i diritti generali delle persone. Sono molti i segnali in questo senso.

Io credo che il motivo principale è da ricondurre all'evidenza della crisi di natura principalmente economica che buona parte della società occidentale sta attraversando. Alcuni interventi sui social in merito a questo episodio del congresso hanno un tono del tipo "ma che vi costa se esistiamo anche noi?" detto ovviamente da tutti quei soggetti che a vario titolo sono estromessi dal concetto della cosiddetta famiglia naturale. E il punto probabilmente è proprio questo. Come che ci costa? Ci costa eccome! Garantire diritti a tutti costa, costa proprio in termini economici. Estromettere persone dai diritti fondamentali significa in ultima analisi difendere le proprie ricchezze. Abbandonare più gente possibile al proprio destino, non prendersene cura, non farsi carico dei loro legittimi sogni è una difesa disperata del patrimonio.

In un periodo di crisi di risorse, e quando questo comincia a diventare evidente a tutti, si molla il meno possibile, si condivide tutto il meno possibile, ricchezze, territori, lavoro, diritti. E questo è vero quanto più la società mediamente nel suo complesso è ricca. La solidarietà nasce spontaneamente nella miseria mentre l'egoismo nasce nel tentativo di conservare quello che si è ottenuto quando non ci si sente più sicuri, inventando ragioni ridicole. Non è un caso che il periodo che ha visto le più importanti conquiste nell'ambito dei diritti civili è stato anche quello della maggiore crescita economica generale, quello in cui si costruiva la società del benessere. Mi riferisco ai primi decenni dell'ultimo dopoguerra. Ora che tutto l'occidente ha costruito il suo alto livello di benessere, che però le crisi economiche a varie riprese stanno minacciando, la logica che prevale è quella del "chi c'è c'è, non entra più nessuno, non avanza più niente". Questo è il messaggio che oggi risuona su scala sempre più ampia ed in modo sempre più preoccupante nella nostra società benestante e insicura.

domenica 24 marzo 2019

Il dominio dell'Arte e della Scienza

Ho sempre pensato che se c'erano una paio di cose per cui valeva la pena studiare e impiegare il proprio tempo e i propri sforzi quelle erano l'arte e la scienza. E' per questo che per anni, a più riprese, ho studiato e praticato la musica, pur non pensando mai seriamente di voler fare il musicista. E' sempre per questo che dopo qualche incertezza ho deciso di studiare Fisica all'Università, pur sapendo che sarebbe stato molto improbabile intraprenderne la professione specifica. Anzi, forse senza farmi troppo questa domanda. Sarebbe stato frustrante e alla fine intollerabile a quell'età studiare qualcosa "di più concreto", che poi significa semplicemente qualcosa che potesse preparare meglio al mondo del lavoro. La vera motivazione dello studio è il gusto di farlo, la ricerca personale. Un esercizio di pensiero disinteressato, senza fini se non quello di capire, che è anche la sua più grande gratificazione. Io questo l'ho provato.

Forse ho peccato di mancanza di concretezza, forse non ho mai veramente pensato di trasformare i miei studi più belli in una professione. Probabilmente la società stessa ti suggerisce che artisti e scienziati sono una razza a parte più che una normale categoria di lavoratori, come in realtà dovrebbe essere. Fatto sta che a tutt'oggi non rimpiango granché di non lavorare in questi ambiti, nonostante a tutt'oggi spesso i miei pensieri extra lavorativi siano rivolti in un modo o nell'altro proprio a loro, soprattutto attraverso la loro storia, così affascinante.

Magari è pure bello che mantengano questa loro "verginità", che rimangano le mie passioni disinteressate. Come diceva Einstein "dove il mondo cessa di essere ribalta per speranze e desideri personali, dove noi, come esseri liberi, lo osserviamo meravigliati, per indagarlo e contemplarlo, là entriamo nel dominio dell'arte e della scienza".

giovedì 21 marzo 2019

Sento cose assurde

Oggi mi capita di leggere un thread su Facebook che mi colpisce. Una signora racconta di una persona che si dà da fare a pulire una strada del quartiere ed esorta a fargli delle offerte. Nel suo post compare il verbo "integrare" e una foto allegata mostra la persona in questione rivelando che si tratta di un nero. Il thread in poche battute diventa un dibattito su italiani e stranieri. Alla persona che pulisce le strade per campare viene subito contrapposto (senza un motivo plausibile) un italiano che ha perso il lavoro, lasciando intendere che quest'ultimo ha più diritto di campare dello straniero, almeno nel suolo italiano, anche se non è del tutto chiaro se il nero di cui si parla è veramente straniero.

Nessuno fa una considerazione razionale del tipo "ma se quel cittadino italiano anziché essere un italiano disoccupato in Italia fosse un italiano disoccupato all'estero, avrebbe meno diritti? Dovrebbe tornare in Italia? Dovrebbe lasciare il paese che ha scelto? Chi lo stabilisce? Non gli si dovrebbe riconoscere la libertà di poter cercare fortuna dove meglio crede? Non è una libertà sacrosanta?".

Alcuni commenti accusano di "buonismo" o "falso buonismo" quelli che dichiarano l'intenzione di aiutare il presunto straniero, lasciando intendere che la solidarietà e la vicinanza umana è subordinata ad una graduatoria delle persone secondo parametri del tutto formali come la cittadinanza. Un fatto del tutto irrazionale, che nega il concetto stesso di solidarietà. Mi fa venire in mente la frase terrificante del ministro Fontana (politiche per la famiglia) "ama il prossimo tuo, cioè quello in tua prossimità. Quindi, prima di tutto cerchiamo di far star bene le nostre comunità". La parabola del buon Samaritano è evidentemente un "falso buonismo" dei vangeli.

Torno a casa e il telegiornale mi racconta l'episodio dell'italiano di origine africana che ha rischiato di uccidere più di 50 bambini a scopo di ritorsione per il comportamento del governo italiano nei confronti dei migranti. Episodio sventato in buona parte per il contributo di un ragazzo immigrato. Subito dopo mi fa ascoltare prima Salvini (vice primo ministro) e poi Meloni (parlamentare) che dichiarano il desiderio di dare la cittadinanza italiana al ragazzo immigrato e toglierla all'attentatore italiano. Neanche una cosa irrazionale, una vera follia. La cittadinanza data e tolta per meriti o demeriti, per premio o per punizione.

Per oggi può bastare, scrivo questo post solo per poter andare a letto un po' meno arrabbiato.

sabato 9 marzo 2019

"Il Primo Re", il film

Recentemente ho visto un film davvero particolare, da vari punti di vista. Cito solo due caratteristiche, che non sono però quelle che mi hanno colpito di più. Anzitutto è un film italiano, ma con dietro una produzione di una consistenza tale da non farlo sembrare un prodotto cinematografico nostrano. Poi l'intero film è parlato in proto-latino (ovviamente con sottotitoli, ma devo dire che qua e là molte battute o mezze battute si capivano). Il motivo è che il film racconta, in modo piuttosto inusuale, la leggenda della fondazione di Roma ad opera di Romolo e Remo, o meglio le vicende precedenti delle popolazioni in lotta per la conquista di territori in cui insediarsi, lungo gli argini del fiume Tevere. Vicende cruente di gente che sopravvive con mezzi primitivi.

La bellezza del film sta proprio nella rappresentazione di una società primitiva. E di questa rappresentazione quello che colpisce di più è il rapporto con la religione, che è anch'essa primitiva ma proprio per questo estremamente potente. Fa riflettere sull'uomo e sui suoi istinti più profondi. La religiosità in quei contesti è perfettamente integrata, armonica a quei gruppi umani e alla loro vita precaria e pericolosa, in balia degli accidenti più banali. Il sovrannaturale è sempre presente, anche se non esplicitato in divinità ben precise. E quest'ultima cosa è interessante. C'è poco o niente di elaborato da una cultura o da una lunga tradizione, poco di rituale. Al contrario colpisce la naturalezza della componente religiosa con cui si misurano tutti, come elemento di conforto, di speranza o di contrasto e ribellione. Le divinità sono più reali dell'habitat naturale in cui si muove la comunità umana, o meglio, sono un elemento concreto di questo habitat.

Anche la vicenda di Romolo e Remo è guidata e determinata dalle loro diverse scelte nei confronti del sovrannaturale. Il tragico epilogo non è altro che la conseguenza del volere degli dei sul destino degli uomini, che nulla possono sulla natura immensa e sugli agenti intenzionali che la governano. E' vero che questo sfondo è comune a molta letteratura del mondo antico ma vederla in una comunità dai caratteri così primitivi dà l'occasione di poter constatare come il rapporto con il sovrannaturale sia pensabile, in modo del tutto plausibile, come un dato pre-culturale, un elemento della natura più primitiva e ancestrale dell'uomo. Il film è una rappresentazione dell'essenza più profonda di qualunque religione.

sabato 9 febbraio 2019

La putrefazione dei bit

Recentemente mi ha colpito la lettura di una serie di articoli che riportavano il "grido di allarme" di Vint Cerf sul problema della conservazione delle informazioni digitali. Vint Cerf fa parte di quel gruppo di pionieri di Internet che negli anni settanta hanno gettato le basi delle principali tecnologie infrastrutturali della rete informatica mondiale, tecnologie a tutt'oggi funzionanti e che ne costituiscono l'ossatura. In particolare Vint Cerf insieme all'allora suo collega Bob Kahn ha scritto il core dello stack TCP/IP, il protocollo principale di Internet, quello responsabile del trasporto di tutte le informazioni sulla rete. Attualmente gli articoli che parlano di lui lo presentano come Chief Internet Evangelist di Google. Per quanto mi riguarda, a parte la sua fama di "padre di Internet", nel passato mi era capitato di associarlo a un progetto ambizioso e un po' bizzarro, quello della definizione di una Internet Planetaria (InterPlaNet, http://ipnsig.org/).

Comunque un personaggio degno di attenzione. Quello che ha detto recentemente ad un incontro della American association for the advancement of science, e meno recentemente in altre occasioni, riguarda la nostra capacità presente e futura di conservare le informazioni digitali in cui da un po' di tempo stiamo codificando tutto quello che produciamo. Secondo lui questa informazione è destinata in un tempo relativamente breve (e sempre più breve) a scomparire, o meglio, a ridursi ad un cumulo di macerie di bit incomprensibili. Il suo allarme è su due aspetti di questo problema, non indipendenti tra loro. Prima di tutto quello personale. Rischiamo nel corso della nostra vita di perdere quantità considerevoli di dati che ci riguardano, con o senza significato per noi (i bit sono bit, e vengono archiviati tutti allo stesso modo, il senso glielo diamo noi). Questo fatto Cerf lo esprime e lo sintetizza con una frase: “Nel nostro zelo, presi dall’entusiasmo per la digitalizzazione, convertiamo in digitale le nostre fotografie pensando che così le faremo durare più a lungo, ma in realtà potrebbe venir fuori che ci sbagliavamo. Il mio consiglio è: se ci sono foto a cui davvero tenete, createne delle copie fisiche. Stampatele”.

Il secondo aspetto è quello più propriamente storiografico. Cosa riuscirà a ricavare uno storico del futuro, mettiamo tra mille anni, dai nostri dati digitali, ovvero da tutto quello che sarà rimasto di noi e della nostra epoca? Secondo Cerf praticamente niente. Sarà impossibile ricostruire la nostra storia, la nostra cultura, perchè sarà impossibile leggerla nei documenti che lasceremo. Da notare che questo problema è in parte legato al primo. Nel senso che si potrebbe dire a prima vista che la perdita di dati del cittadino medio è ininfluente per la storiografia e che per quest'ultima sono molto più importanti i documenti ufficiali di una società, certamente molto più facili da conservare in qualunque forma. Ma probabilmente questa non è esattamente l'opinione degli storici. Come dice ancora Cerf "a distanza di secoli, anche documenti apparentemente irrilevanti possono rivelarsi importantissimi per la comprensione di un'epoca, con la sua sensibilità e il suo punto di vista". E secondo me non ha tutti i torti.

Fin qui però non ho discusso il punto centrale del problema. Di cosa stiamo parlando esattamente? Di perdere dati e documenti? Ma questo non è sempre successo nel corso dei millenni? E i vari metodi della ricerca storica non ci hanno consentito lo stesso di ricostruire le epoche passate e di conoscerle? In qualche modo lo faranno anche i nostri posteri, no? Ecco, su questo secondo me si possono fare alcune domande e osservazioni di qualche interesse.

Siamo sicuri che noi siamo riusciti a ricostruire bene la storia di tutte le epoche passate? Non ci siamo mai imbattuti nelle situazioni in cui abbiamo dovuto semplicemente ammettere che le informazioni in nostro possesso sono talmente poche da non consentirci una ricostruzione un minimo soddisfacente? E che per questo motivo alcuni periodi storici sono rimasti per noi sostanzialmente un mistero? E non ci viene in mente che di altri periodi storici potremmo avere un'immagine parzialmente sbagliata dovuta alla documentazione largamente incompleta che ci è pervenuta? E soprattutto, possiamo dire di avere un'idea abbastanza precisa di quanto abbiamo perso in termini di fonti storiche importanti per ricostruire la nostra storia?

Che cosa vogliamo tramandare ai nostri posteri? Con che livello di dettaglio ci piacerebbe che i nostri posteri ci conocessero? Sto dando per scontato che ce ne importi qualcosa, in caso contrario, inutile continuare a ragionare su quello che ci dice Vint Cerf. Si sa bene che ci sono dei periodi storici che hanno dei buchi impressionanti nelle loro fonti. Spesso conosciamo periodi importanti delle civiltà che ci hanno preceduto solo attraverso testimonianze indirette, di terza mano (traduzioni di traduzioni), scarse e frammentarie. Abbiamo comunque ricostruito una narrazione abbastanza coerente di quei periodi e di quelle civiltà, ma quante "puntate" abbiamo perso? Ci accontentiamo di dare ai posteri lo stesso livello di qualità delle fonti che ci hanno a loro volta lasciato i nostri antenati o confidiamo in qualcosa di meglio?

In che consisterebbe questo pericolo paventato da Vint Cerf? In fin dei conti la nostra era digitale ci ha consegnato la capacità di produrre e archiviare una quantità di informazioni su di noi mai raggiunta da nessun altra civiltà del passato, neanche lontanamente. E nonostante questo Vint Cerf ci dice che stiamo messi forse peggio dei periodi più oscuri (lui ha fatto riferimento al medio evo). Che intende con l'espressione "putrefazione dei bit"?

L'idea di Cerf per quanto ho capito è grosso modo la seguente. L'accesso ad una qualunque informazione digitale dipende in maniera cruciale da due elementi: l'hardware che la archivia e il software che la legge. Ma noi siamo già molto ben abituati ad assistere alla grande velocità con cui questi due elementi evolvono e si modificano, anche radicalmente. E siamo quindi anche ben abituati ad assistere alla veloce obsolescenza di macchine e programmi. E sappiamo bene che un dato costruito con un certo software e archiviato in un certo hardware diventa presto irrecuperabile se non ci preoccupiamo di aggiornarlo. Ma aggiornarlo ha un costo, di tempo, di risorse e di denaro. E molti di questi aggiornamenti, benchè necessari per conservare l'accessibilità ad un certo dato, potrebbero non essere convenienti. Il problema è questo.

La gravità di questo problema è tanto più grande quanto più archivieremo nel futuro tutte le nostre informazioni in formato digitale. Ma questo è molto probabilmente quello che faremo in misura sempre maggiore. Inutile documentare gli schemi tecnici dei vecchi dispositivi hardware di archiviazione o le logiche dei vecchi codici per la rappresentazione dei dati se tutto questo verrà a sua volta archiviato in digitale. Potremmo essere ottimisti e sostenere che in fin dei conti sarà facile lasciare anche solo involontariamente tracce sufficienti per il lavoro di interpretazione degli storici del futuro, come è sempre successo. Ma è sempre successo? Chi ce lo assicura? E poi forse noi siamo ingenuamente convinti (forse come ogni uomo di ogni epoca) che non perderemo mai le nostre conoscenze, e anzi non faremo altro che arricchirle progressivamente, e saremo sempre più bravi.

In che senso questo potrebbe essere considerato un problema nuovo, specifico della nostra epoca? Che particolarità ha l'era digitale relativamente a questo aspetto della conservazione dell'informazione? Perchè a Vint Cerf è venuta in mente un'idea del genere?

Direi che un aspetto abbastanza peculiare del nostro mondo è la presenza di una enorme complessità tecnologica e della sua grande velocità di cambiamento. Questo potrebbe rendere effettivamente molto più difficile avere gli strumenti adeguati per guardarsi indietro. Il motivo per cui Vint Cerf si è posto questo problema è perchè nell'arco della sua vita (cioè un tempo relativamente breve per la storia) può certamente dire di aver visto passare un'infinità di tecnologie ormai scomparse, e sicuramente avrà avuto modo di constatare l'entità della perdita di dati che questi passaggi tecnologici avranno inevitabilmente determinato. Forse potrebbe essere il caso di domandarsi quale sarà nel futuro il tasso di queste perdite, provare a misurarlo, e pensare a definire una qualche strategia di conservazione dei dati più affidabile di quella che abbiamo. In fondo si tratterebbe di inventare un'altra tecnologia.

NOTA1: Mi ha colpito l'aver constatato che in realtà questo problema è stato preso in seria considerazione anche da SNIA (Storage Networking Industry Association, https://www.snia.org/). E' stata addirittura creata una task force ("100 Year Archive Task Force"). In un suo documento di qualche anno fa ("100 Year Archive Requirements Survey", January 2007) si legge: "Le due grandi sfide tecniche della conservazione delle informazioni digitali a lungo termine sono la migrazione logica e fisica. La migrazione logica è la pratica di aggiornare il formato delle informazioni in un formato più nuovo che può essere letto e interpretato correttamente da applicazioni o lettori futuri senza perdere l'autenticità dell'originale. Migrazione fisica significa copiare le informazioni su nuovi supporti di memorizzazione per preservare la possibilità di accedervi e proteggerli dalla corruzione dei media".

NOTA2: Nel mio piccolo ho anche io un'esperienza abbastanza significativa di "putrefazione dei bit" (è certamente uno dei motivi per cui il pensiero di Vint Cerf mi ha colpito). Ho perduto (direi definitivamente) il mio lavoro di tesi, più esattamente il suo formato digitale. Era certamente in un floppy da 3.5 pollici, scritto con una versione di un word processor direi oggi assolutamente incompatibile con qualunque software analogo reperibile sul mercato. Comunque il floppy è scomparso, insieme a tutti i floppy che piano piano si sono persi senza un backup, senza un aggiornamento, sotterrati dalle faccende della vita. Ma se qualcuno (ma chi poi?) mi chiedesse un bel giorno di vedere per curiosità la mia tesi di laurea, andrei in uno scaffale basso della mia libreria, prenderei il suo tradizionale formato cartaceo, e in pochi secondi quel qualcuno l'avrebbe tra le mani pronta per essere sfogliata.

giovedì 10 gennaio 2019

Violenza negli stadi

Perchè ogni volta che si verifica un episodio di violenza in relazione ad una qualche partita, ci si affretta sempre a dire che la violenza negli stadi non c'entra niente con il calcio? Non mi pare proprio. Non ho capito se questa affermazione contiene un'ipocrisia o un desiderio, probabilmente entrambi. Io credo invece che c'entri eccome, almeno con il calcio così come lo conosciamo da decenni. E forse invece di continuare a dire che calcio e violenza negli stadi sono due cose distinte e non dipendenti l'una dall'altra, che tifosi e violenti non c'entrano nulla gli uni con gli altri, converrebbe ammettere il contrario e riflettere un po' meglio sul perchè.

Ma forse c'è anche poco da riflettere. Il calcio spesso purtroppo riempie i vuoti delle persone offrendo uno spettacolo semplice dove si possono facilmente trasferire gli istinti aggressivi e bellicosi che abbiamo. Se si ha l'occasione di conoscere altre cose sostanziose nella vita il calcio finirà per occupare il giusto posto altrimenti è un guaio.

Poi il calcio come si sa è un grande business, e questo secondo me fa rientrare le questioni della violenza nei costi generali e "fisiologici" di questo business. E' per questo che l'affermazione che la violenza negli stadi non c'entra nulla con il calcio mi sembra un'ipocrisia. E' sensato pensare di eliminare i fenomeni violenti da questo calcio? Sarebbe bello, ma è realisticamente possibile? Ovviamente il tutto senza toccare il calcio così com'è.

Il calcio è uno spettacolo di grandi numeri. Tantissimi soldi, tantissima popolarità, tantissimo tempo speso a guardarlo. Troppo. Non ha eguali con nessun altro sport, almeno in Italia. Secondo me gli altri sport, anche quelli di squadra che somigliano molto al calcio, hanno una sola differenza importante rispetto a quest'ultimo: sono decisamente meno popolari, meno diffusi, e fruiti in media in modo molto meno assiduo (questo è importante). Ed è ovvio che questa differenza è una diretta conseguenza del grado di sfruttamento commerciale che solo il calcio subisce in così grande misura.

Se si considera il calcio come fenomeno sociale in tutte le sue caratteristiche e tutte le sue conseguenze senza separare artificialmente il fenomeno puramente sportivo, ché so' boni tutti ma non serve a niente se non a tranquillizzare le coscienze degli appassionati, si possono distinguere (come credo per tutti i fenomeni sociali) due atteggiamenti diversi, uno di sinistra e uno di destra.

Quello di sinistra non digerisce bene il fatto che la società in cui vive sia costituita da tanta povera gente che vive di calcio perché sostanzialmente per varie ragioni non può vivere di molto altro, e che proprio per questo una parte di loro (prevalentemente giovani) trovino negli stadi l'alfa e l'omega della loro vita e quindi anche in alcuni casi la loro morte. Cioè tende a riconoscere nel calcio i riflessi di problemi sociali. Lo inquadra come metafora dello sfruttamento dei ricchi sui poveri. E quindi ne dovrebbe voler cambiare le logiche di fondo. Lo sa che è un'utopia.

Quello di destra vive forse un po' più tranquillo. La profonda disparità di ricchezze e di mezzi che esprime lo spettacolo calcistico tra chi sta in campo e chi sta negli spalti (a parte le tribunette dei vip) è una fisiologia della società, su cui non c'è una vera necessità di intervento. Certamente la violenza è sempre inaccettabile e in tutti i casi và condannata e contrastata, ma sotto sotto lo sa che è pure un po' inevitabile, l'unica cosa che si può fare è cercare di contenerla per quanto possibile senza stravolgere nulla, senza modificare strutturalmente nulla. Sarebbe appunto un'utopia insensata e non necessaria.

Ma alla fine è pur vero che entrambi sono tifosi di calcio. Di questo calcio, fatto di fuoriclasse comprati in tutto il mondo, di partite ormai quasi quotidiane, di dibattiti infiniti su tutti i media. Troppo faticoso cambiarlo, forse impossibile. Ed è troppo divertente. Dunque ci si accontenta di qualche palliativo ogni tanto, qualche critica ipocrita, qualche dibattito scandalizzato, qualche richiamo alla pacifica convivenza civile in nome di questo bellissimo sport. Una pantomima che avviene regolarmente da decenni a 'sta parte.

Oh, l'importante è che il calendario delle partite venga comunque rispettato.

NOTA: un furbo come Matteo Salvini, nostro attuale Ministro degli Interni e vice-Primo Ministro, tutto questo lo sa molto bene (è un tifoso pure lui, questo gli torna utile) e si regola di conseguenza, fa proseguire regolarmente il campionato perché non si possono mica penalizzare i tanti bravi cittadini tifosi togliendo loro lo spettacolo più bello. E così aumenta ancora il suo già largo consenso.