mercoledì 30 luglio 2008

La dimensione sociale della Scienza

Un bel giorno il signor pincopallo formula quella che lui chiama una teoria scientifica. Come si fa a stabilire che è corretta? Di solito quello che succede è che la si sottopone al vaglio della comunità scientifica attraverso articoli su riviste specializzate e conferenze presso università e istituti di ricerca. Dal momento della sua prima pubblicazione entra nel circuito degli addetti ai lavori che automaticamente la sottopongono sia ad un dibattito di tipo teorico sia ad una serie di verifiche sperimentali. Questa fase può evolvere in vari modi ovviamente, ma è comunque caratterizzata da una serie di contributi attivi da parte di molti scienziati, che lavorano eventualmente alla sua modifica, al suo perfezionamento e contemporaneamente alla sua divulgazione; oppure alla sua confutazione e definitiva archiviazione.

L'aspetto importante di questa storia è che l'attività scientifica ha una dimensione sociale che risulta essenziale al suo sviluppo. Nel momento in cui viene formulata la prima volta, una teoria scientifica può essere anche di una sola persona (ovviamente non sempre), ma dopo la sua prima divulgazione diventa in breve tempo parte di tutta la comunità (quella degli addetti ai lavori) e subisce inevitabilmente rielaborazioni che la fanno evolvere (positivamente o negativamente) indipendentemente dal suo primo autore. Non esiste ovviamente un vero e proprio punto finale di questa evoluzione. Mi sembra chiaro che un processo del genere ha una sua affidabilità ed efficacia intrinseca.

A pensarci bene questo destino è anche la principale prova della sua correttezza, cioè in definitiva della sua capacità non solo di passare tecnicamente tutta una serie di prove sperimentali (una caratteristica che comunque rimane essenziale) ma anche quella di fare presa, di essere plausibile, convincente, feconda, per tutti gli studiosi coinvolti.

Questo alla fine è proprio quello che manca a molte teorie pseudo-scientifiche che a intervalli regolari appaiono all'attenzione dell'opinione pubblica attraverso i media. E' un buon modo per riconoscerle.

mercoledì 16 luglio 2008

L'uomo di Neanderthal

La teoria dell'evoluzione di Darwin spesso non viene raccontata bene, altrimenti non si spiegano certi "vizi interpretativi" che a volte riscontro nel linguaggio comune e che nel passato hanno caratterizzato le mie conoscenze in merito.

Per molto tempo ho dato più o meno per scontato che l'evoluzione fosse un progresso lineare verso forme di vita sempre "migliori". Da qualche parte devo pur aver assorbito questa idea. L'esempio classico è quello della storia evolutiva dell'uomo. Mi ricordo di aver pensato che l'uomo attuale è un punto finale di alcuni stadi evolutivi intermedi, sempre più perfetti in quanto sempre più vicini a noi. Homo Erectus, Homo Ergaster, Homo Neanderthalensis, Homo Sapiens. Ma .... un momento, secondo la nomenclatura binomiale queste che ho citato sono tutte specie diverse, tra loro hanno in comune solo il genere Homo. Due specie distinte non si incrociano, non generano prole feconda, secondo la denfinizione. Possono evolvere l'una nell'altra ma non necessariamente, e infatti questo non è sempre avvenuto. L'albero dell'evoluzione umana è molto complesso e tutt'altro che lineare, dotato di molti rami che hanno generato specie umane ma che non portano a noi. Inoltre queste specie non hanno una successione cronologica stretta, si sovrappongono, sono spesso conviventi nello stesso ambiente naturale. Questa non è un'osservazione da poco.

L'uomo di Neanderthal è una specie che convive in europa con l'Homo Sapiens fino a circa 30000 anni fa, periodo in cui si perdono le sue tracce. Estinto per qualche motivo ancora non chiaro (ma ormai sappiamo che l'estinzione di una specie è un fenomeno molto comune in natura, per nulla strano). Probabilmente non si è mai incrociato con gli individui della nostra specie. Insomma è una specie umana diversa, non un nostro antenato. Una specie che aveva moltissime cose in comune con noi (*) ma non il nostro stesso patrimonio genetico.

Le scimmie antropomorfe, con cui attualmente conviviamo, non sono i nostri antenati. La famosa frase "l'uomo discende dalla scimmia" (pensando proprio alle scimmie antropomorfe) è fondamentalmente sbagliata, al limite, vista l'ampia accezione del termine, sarebbe più corretto dire che l'uomo è una scimmia. Una frase più corretta sarebbe all'incirca "l'uomo (in tutte le sue specie comparse sulla terra, compreso Homo Sapiens) e le scimmie antropomorfe attuali (scimpanzè, bonobo, gorilla, orango) hanno un antenato comune molto vicino nel tempo".

Ricordo che queste semplici constatazioni anni fa mi sono risultate per niente scontate e quindi molto istruttive. Nell'evoluzione biologica non c'è il concetto di progresso, che comporta necessariamente una direzione e un fine, c'è solo il concetto di adattamento. Una specie che può definirsi a buon diritto "umana" (nel senso biologico) è comparsa più volte nella storia della terra. Rimane il fatto che una sola di esse è sopravvissuta e ha prodotto una storia culturale.

(*) Se si potesse reincarnare un Neanderthal, e porlo nella metropolitana di New York, opportunamente lavato, sbarbato e modernamente vestito, si dubita che potrebbe attrarre alcuna attenzione. (William Straus)

lunedì 14 luglio 2008

Eluana Englaro

Pochi giorni fa i giudici hanno autorizzato a "staccare la spina" per Eluana Englaro, la donna che da 16 anni è in coma vegetativo permanente. Tecnicamente si tratterà di interrompere l'alimentazione forzata a cui è sottoposta. La Chiesa si è subito espressa contro questa sentenza (classificata come eutanasia) per voce di diversi suoi importanti rappresentanti.

Interessandomi a episodi di questo genere ho avuto occasione di individuare almeno tre atteggiamenti contrari a qualsiasi pratica di eutanasia (tutti in varia misura assunti dalla Chiesa Cattolica, ma non solo).

Il primo è squisitamente cattolico: la vita non ci appartiene, non ne possiamo disporre. Il momento in cui ci viene data, le modalità in cui ci viene data, il momento in cui ci viene tolta dipendono da una volontà che ci trascende. Nulla da eccepire, ma è evidente che questo principio non può essere esteso automaticamente a tutta una società (fatta anche in buona misura da non cattolici e non credenti). Il cattolico si deve rendere conto che questo suo sacrosanto principio (al quale lui evidentemente terrà fede per tutta la sua vita) non può essere codificato in una legge valida per tutti i suoi concittadini. Per lui avrà senso lottare affinchè questo principio si affermi largamente nella società, ma non ha alcun senso imporlo per legge. La legge dello Stato in materie come questa, che coinvolgono l'etica del singolo, deve semplicemente fornire un quadro normativo chiaro che consenta al cittadino di fare una scelta nella migliore delle condizioni possibili.

Il secondo atteggiamento è estendibile al di fuori del credo cattolico (e per questo motivo più usato dalla Chiesa): eliminare la vita, anche se questa è vissuta in condizioni di estrema sofferenza o di totale incoscienza come nel coma vegetativo, è un atto di estremo cinismo, fatto da una società che non dà più un valore alla vita in sè, che non coltiva più la speranza, che concepisce la vita solo se è efficiente, non di peso agli altri, insomma solo se è funzionale alla nostra società dei consumi. Nulla da eccepire anche in questo caso. Certamente condivisibile da un'ampia parte della società dal momento che non coinvolge nessun elemento trascendente. Però anche in questo caso si tratta di un giudizio di natura etica, e quindi secondo me non dovrebbe comunque rientrare nella formulazione di una legge, che invece andrebbe formulata in modo quanto più pragmatico possibile. Inoltre non credo che dietro a questi episodi così drammatici come quello di Eluana Englaro ci sia poi tutto questo cinismo e questa mancanza di valori verso la vita. Io credo più semplicemente che questi sono problemi etici nati con il progresso scientifico. Prima non c'erano. La scienza ci ha consentito di prolungare la vita, anche in stati di sofferenza, e di terminarla in modo dolce. E adesso ci dobbiamo fare i conti.

Il terzo atteggiamento è il più subdolo e controverso: bisogna lasciare il mondo in modo naturale (così come venire al mondo in modo naturale), l'eutanasia è un modo innaturale di terminare la propria esistenza. Ma che cosa vuol dire "naturale"? Questa domanda è troppo difficile, la rimando ad un prossimo post.....

giovedì 10 luglio 2008

8 luglio in piazza

Sono stato alla manifestazione di piazza contro le "leggi canaglia" del governo. Il tema era l'incostituzionalità degli ultimi provvedimenti in discussione al parlamento, in particolare quello conosciuto col nome di lodo Schifani, che introduce una sorta di immunità istituzionale a favore delle quattro alte cariche dello Stato, escludendoli così dalla sottoponibilità a processi penali nel corso del loro mandato (anche per reati che sono avvenuti precedentemente). Sul palco campeggiava un cartello che riportava il primo capoverso dell'articolo 3 della Costituzione (*).

Tutto questo, unitamente al fatto che certi provvedimenti sono in modo evidente funzionali al Primo Ministro per via dei suoi processi in corso e per niente utili al Paese (anzi, dannosi, dal momento che sottraggono il Parlamento ad attività importanti), e considerando che Berlusconi non è certo nuovo a questi comportamenti, l'ho giudicato sufficiente per andare ad ascoltare gli interventi a piazza Navona ed unirmi così alla protesta dei cittadini.

L'aspetto che mi è piaciuto poco della manifestazione è alla fine sempre il solito: la mancanza di un atteggiamento un minimo costruttivo, totalmente negato dall'intervento di Grillo che ormai spara a zero su tutto e tutti, o da quello satirico di Sabina Guzzanti, un vero boomerang, purtroppo.

Le idee c'erano, purtroppo largamente ignorate dai media. Le critiche pesanti al governo, sia al suo operato che alle persone che lo compongono, erano in gran parte condivisibili. Alcune battute pesanti ci stavano pure, se non altro avevano una funzione liberatoria. Ma io ho bisogno di proposte, di atteggiamenti più costruttivi, magari anche un minimo ottimisti. Non ce la faccio a campare solo di proteste, per quanto sacrosante. Qualcuno si dovrà prendere la briga di portare avanti un discorso, una linea di pensiero, un progetto politico.

Spero che col tempo, da tutto questo venga fuori qualcosa di buono.

(*) Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

giovedì 3 luglio 2008

I limiti di velocità

Ultimamente mi è capitato di sentire da più persone la classica critica ai limiti di velocità sulle strade: "sono troppo bassi, servono per fare le multe". E' una frase ricorrente e probabilmente in molti casi ha il suo fondo di verità. Ma la cosa strana è constatare che l'automobile non viene quasi mai percepita come uno strumento pericoloso, come oggettivamente è. Le statistiche sono molto chiare, il tasso di mortalità su strada è elevatissimo, ben più alto di molte altre cause che normalmente fanno più paura. Ed è inoltre, in modo evidente, strettamente legato alle velocità che si raggiungono.

E' una situazione esattamente ribaltata rispetto al tema della sicurezza nelle città, molto dibattuto ultimamente, anche in maniera strumentale, dalla politica italiana. In quest'ultimo caso è abbastanza evidente che il cosiddetto livello di sicurezza percepito è molto più basso di quello che traspare in modo più oggettivo dalle statistiche (secondo quest'ultime, come si sa, confrontate con la situazione europea o mondiale, le città italiane sono ambienti relativamente sicuri). Nel caso della sicurezza sulle strade invece, il dato oggettivo preoccupante delle statistiche non trova riscontro in una percezione altrettanto preoccupata. Un caso analogo credo sia quello della sicurezza sul lavoro.

I motivi di questa discrepanza tra percezione e dato oggettivo possono essere molti, ma credo ce ne sia uno di tipo, diciamo così, fisiologico. Nella percezione istintiva di un pericolo credo sia fondamentale la sensazione, vera o presunta, della propria capacità di controllo della situazione (e dunque del proprio grado di conoscenza di ciò con cui si ha a che fare).

Se salgo su un aereo so di non avere, in nessun momento, alcun controllo sul mezzo in cui mi trovo e questo aumenta significativamente la sensazione di pericolo, anche se le statistiche dovrebbero tranquillizzarmi. Se salgo su un'automobile come passeggero sono in genere molto meno tranquillo di quando ci salgo come autista. Alcune gravi malattie rese note al pubblico dai media in relazione a casi tanto gravi quanto sporadici, sfuggono al controllo medico e questo può portare il singolo individuo a comportamenti ridicoli se visti alla luce della incidenza enormemente bassa che tali malattie hanno. La città in cui abito è piena di gente che non conosco, con cui entro inevitabilmente in relazione, ma i cui comportamenti non sono mai del tutto prevedibili.

La sensazione di pericolo ha ovviamente radici antichissime ed è quindi elaborata principalmente a livello istintivo. Giudicare un pericolo su una base puramente razionale è certamente una cosa molto difficile.

Quando si guida l'automobile si ha la sensazione di controllare bene la situazione, ma è evidente che questa sensazione è più presunta che reale, tanto più presunta quanto più è alta la velocità; la guida sulle strade è un fatto collettivo, non individuale, la sicurezza dipende contemporaneamente da tutti, non solo dal singolo; visto in quest'ottica l'uso di regole rigide e rispettate da tutti (vedi i limiti di velocità) sembra essere l'unica vera strategia razionale praticabile.

martedì 1 luglio 2008

Il problema della politica in italia

In questo momento i termini politici destra e sinistra hanno un significato sempre più sfumato e sempre meno importante per gran parte delle persone. Il motivo principale secondo me è che i gravi problemi della politica italiana stanno tutti a monte di questa suddivisione, ovvero le politiche di destra e di sinistra hanno senso in una democrazia che ha raggiunto una certa maturità, in una società che sa mettersi d'accordo sulle regole generali del vivere civile, ma è proprio in questo aspetto che siamo estremamente carenti.

Tutti i maggiori scontri politici degli ultimi anni hanno sempre come sfondo gli elementi vitali di una democrazia: le regole di convivenza civile, il ruolo delle istituzioni e la loro efficienza, il rapporto tra i poteri dello stato, i conflitti di interessi, il ruolo dell'informazione, il funzionamento della giustizia, i meccanismi di controllo sull'accentramento dei poteri, la criminalità organizzata. Tutti elementi cruciali per mantenere il delicato equilibrio di uno stato democratico. Se molti dei problemi legati a questi fondamenti democratici rimangono intatti da anni (e alcuni peggiorano) è segno inequivocabile che gran parte della classe politica italiana di fatto non è interessata a risolverli, e anzi li usa a proprio vantaggio.

Quindi per noi cittadini il problema, prima ancora degli schieramenti destra/sinistra, è quello di cercare di capire da chi, tra i politici attuali, può arrivare una volontà di cambiamento, sia pur minima, a questo stato di cose.