venerdì 28 dicembre 2018

Alexa

E' già la terza volta che qualcuno mi racconta di avere in casa Alexa (non è una avvenente signora di qualche paese che ci manda immigrati bensì una tecnologia di domotica a cui si può "parlare" per ottenere vari servizi casalinghi), l'ultima da un amico a cui ho anche risposto un po' troppo duramente (ho fatto male).

Giuro che io non ho niente contro la tecnologia in sé, la trovo sempre un elemento essenziale del progresso di una società. Il fatto è che in un numero sempre maggiore di casi a me sembra che certe tecnologie ci aiutino a costruire una società sempre più chiusa, sempre più individualista. Perdiamo sempre più tempo a comprare e configurare dispositivi per il nostro comfort casalingo, o quello dei nostri spazi di vita sempre più angusti, come ad esempio le nostre automobili, o come i nostri televisori, sempre meno finestre sul mondo e sempre più veicoli di consumo. E' anche chiaro che tutto ciò non è certo colpa della tecnologia. E' la società che non funziona, e la tecnologia ne segue i binari.

Siamo sofisticatissimi nelle tecnologie quando queste si esprimono nei prodotti di più puro consumo, in oggetti che si comprano e si configurano per il proprio utilizzo personale ma poi non siamo in grado come società di liberarci di problemi gravissimi. Il nostro ambiente urbano è caratterizzato da automobili in movimento e in parcheggio, sono di gran lunga la cosa più presente in qualunque direzione si guardi. Il secondo elemento paesaggistico dominante sono i rifiuti. In generale il nostro ambiente è sottoposto ad un degrado costante sotto vari aspetti. Tutti aspetti su cui la tecnologia potrebbe fare tanto di buono. E' la direzione che è sbagliata. E intendiamoci, non c'è una direzione "naturale" che prima o poi risolverà tutto.

Dovremmo impiegare il nostro tempo libero molto più a riflettere sulla tecnologia che a praticarla (anche se praticarla certamente aiuta a rifletterci sopra), ad analizzarne i fini più che a comprarla compulsivamente, a capirne le potenzialità e il grande valore sociale più che a trastullarci individualmente con essa. Dovremmo costruirci una visione più ampia e lungimirante del mondo in cui viviamo. Un po' meno attenti ai nostri comfort, magari. Quello che mi preoccupa davvero della tecnologia è il suo potenziale alienante per l'uomo, sempre più presente nelle nostre società.

Trovo queste mie preoccupazioni riflesse in alcune considerazioni estratte dall'introduzione che Marcello Cini fa ad un bel libro sui rapporti tra scienza e società. Le sparo in calce a questo post un po' troppo triste: "E' evidente che il progresso tecnico, in quanto mezzo per intensificare la produzione di beni, non si può identificare a priori con il benessere della società. Non solo, ma diventa sempre più chiaro che non si può considerare in astratto tale progresso come uno strumento neutro rispetto alla struttura sociale, trascurando il momento essenziale dell'influenza di quest'ultima sul primo, influenza che appare sempre più determinante". "Dobbiamo guardarci dalla tentazione di considerare il progresso scientifico e tecnico di per sé come un fattore di felicità e di benessere per l'uomo. [... il progresso tecnico rinchiude] gli uomini ognuno nell'angusta sfera dei propri immediati interessi, raggela i loro slanci e sentimenti umani, trasformandoli in aridi utilizzatori di macchine, spegnendo la loro capacità di lottare insieme agli altri uomini per comuni ideali che li facciano sentire fratelli".

mercoledì 26 dicembre 2018

Individualismo mascherato

Se c'è una cosa che negli ultimi anni mi disturba sempre di più è quell'atteggiamento diffuso con cui molti cittadini italiani schifano sistematicamente l'Italia e gli italiani. Al di là del contenuto di verità di queste critiche (che sono sempre meno critiche e sempre più accuse scontate, sono cioè sempre più retorica) quello che mal sopporto sono due aspetti specifici. Il primo è questo confronto con un "estero" vagheggiato come se fosse l'Eden, un'entità astratta che ci risolverà tutti i problemi, se non i nostri quelli dei nostri figli meritevoli per definizione, la terra promessa delle persone intelligenti e capaci, oppressi dal "popolo italiano bue, fancazzista e paraculo". Il secondo, più grave, è questa pretesa ostentata (e troppo scontata) di "distacco" intellettuale e morale dalla massa, questo non includersi nell'Italia pur vivendoci, avendoci costruito la propria vita personale e familiare, e continuare a farlo tutti i giorni.

Trovo questo un atteggiamento di un individualismo spaventoso, una voglia atavica di non sentirsi parte di niente, di non voler spartire il proprio destino con quello di nessun altro, di non volersi includere in nessuna comunità. E' probabilmente uno degli atteggiamenti più incivili che si possano immaginare. Tipico di noi italiani ;-)

venerdì 21 dicembre 2018

Un cartello rivelatore. E un dubbio.

L'episodio del tizio che si presenta alla manifestazione leghista con il cartello Ama il prossimo tuo e per questo viene prontamente allontanato dalla piazza per "evitare le provocazioni" è una contraddizione macroscopica.

Il cartello riporta la frase che rappresenta l'insegnamento fondamentale del cristianesimo, e non credo che questo possa essere messo in dubbio da nessuno. Il cartello viene esposto ad una manifestazione di un partito il cui leader ad ogni buona occasione brandisce i simboli della tradizione cristiana rivendicata come un forte elemento culturale identitario del popolo italiano. Le due cose messe insieme possono consentire una sola deduzione, la seguente: il cristianesimo viene usato da quel partito e da quel leader in modo falso e ipocrita, con l'unico scopo di trovare un'etichetta, non importa se vera o finta, che distingua gli italiani dagli "altri".

Ora il dubbio. Ma gli italiani che votano e appoggiano questo partito e questo leader, che sono tanti e in crescita, procedono per analfabetismo funzionale o per ipocrisia cristiana incancrenita negli anni? In sintesi, ci sono o ci fanno?

venerdì 7 dicembre 2018

Un errore da umanisti

Giorgio Parisi, attuale presidente dell'Accademia dei Lincei scrive: "La scienza deve essere difesa non solo per i suoi aspetti pratici, ma anche per il suo valore culturale". Ecco, la cultura è sempre un problema di valori, e la scienza ad oggi ne è un po' carente, nel senso che la sua affermazione indiscutibile nella società è principalmente il risultato dei suoi aspetti pratici, quindi tecnologici, più che del suo intrinseco valore culturale, come invece succede per molte altre discipline.

La storia, la letteratura, e qualunque arte sono forme di conoscenza del mondo che hanno un valore in sé, generalmente riconosciuto. La nostra società li codifica come saperi nobili, magari più o meno ipocritamente e acriticamente (ci sono pseudoculture, sottoculture, ecc.) ma questo atteggiamento permette di inserire anche solo formalmente questi saperi nel patrimonio culturale della società, in modo stabile e ufficiale. Insomma hanno un posto nel patrimonio dei valori condivisi.

La scienza continua ad essere un corpo estraneo in questo sistema di valori. Quello che conta veramente è cosa ci permette di fare, che potere ci conferisce sulla natura, quanto a lungo e bene ci fa campare. Intendiamoci, questo aspetto è fondamentale, la scienza come attività intellettuale si è sviluppata anche per questo e come si sà la sua efficacia è enorme. Ma forse proprio l'evidenza macroscopica di questa efficacia ha prodotto il risultato finale, che mi sembra (per provare a sintetizzare) quello di una disciplina praticamente utile ma intellettualmente scomoda.

Siccome è utile ovviamente si studia, e i programmi scolastici mediamente sono abbastanza ricchi di argomenti scientifici. Ma poiché la cultura è appunto una questione di valori, questa presenza nei programmi scolastici può non bastare. Il rapporto tra scienza e tutto il resto rischia sempre di essere portato sul piano del confronto tra ciò che serve e ciò che ci piace o ci diverte, tra ciò che serve e ciò che ci forma come persone, tra ciò che serve e ciò che ci innalza lo spirito, tra ciò che serve e ciò che ci fa riflettere su di noi e sul mondo. Tra ciò che serve e ciò che non serve a un cazzo.

La cosa purtroppo è del tutto generale, arriva da tutte le parti, proprio perché è un dato culturale diffuso nella società. Sia chi ha una frequentazione con la scienza sia chi non ce l'ha la pensa sostanzialmente allo stesso modo, anche se da fronti opposti. La scienza fornisce le tecniche per risolvere i problemi pratici e per questo è importante. La scienza è solo una tecnica per risolvere problemi pratici e per questo non ha senso farla entrare (è pure faticoso) nel gruppo di quei valori culturali che fondano la società, è sufficiente consegnarla agli specialisti (in Italia se possibile, ma non necessariamente), e tenere il tutto in un posticino a parte (di cui alla fine gli specialisti sono anche fieri). Il titolo del post fa riferimento ad un retaggio forse importante per quello che sto dicendo, forse la sua causa storica. Un certo atteggiamento pseudo-umanista a tutt'oggi relega la scienza ad un fatto meramente tecnico-pratico, spogliandola del suo valore culturale intrinseco, quello che le discipline umanistiche invece indubitabilmente hanno.

E' questo che dà la dimensione del problema, ed è in questo ambito che va interpretata la frase di Parisi. Il quale aggiunge, molto significativamente: "Dovremmo avere il coraggio di prendere esempio da Robert Wilson, fisico statunitense che nel 1969, di fronte ad un senatore che insistentemente chiedeva quali fossero le applicazioni della costruzione dell'acceleratore al Fermilab, e in particolare se fosse utile militarmente per difendere il paese, risponde 'Il suo valore sta nell'amore per la cultura: è come la pittura, la scultura, la poesia, come tutte quelle attività di cui gli americani sono patriotticamente fieri; non serve per difendere il nostro paese, ma fa che valga la pena difendere il nostro paese'".

mercoledì 28 novembre 2018

Fibonacci for president!

La scienza è il più potente strumento per conoscere il mondo che l'uomo si sia mai inventato nella sua storia. E ad inventarla sono stati i Greci, prima con la matematica, intesa per la prima volta come un processo logico-deduttivo (vedi Euclide), poi con molte altre discipline in cui la matematica veniva efficaciemente applicata, come la fisica, l'astronomia e la geografia. Sin da subito questa loro scienza fu intimamente legata alla tecnologia, con la capacità di produrre manufatti razionalmente progettati (vedi Archimede) e misure complesse ed estremamente precise, come nel caso di Talete e della sua deduzione geometrica dell'altezza delle piramidi, o come Eratostene e la sua misura eccezionalmente precisa del cerchio massimo terrestre.

Nessun'altra civiltà ha riscoperto la scienza in modo indipendente (almeno così sembra). Al contrario, la civiltà occidentale ha rischiato di perderla, di non saperne riconoscere tutto il valore. I romani hanno conservato la tecnologia greca senza però preoccuparsi troppo della scienza greca. I cristiani successivamente hanno pensato bene di liberarsi definitivamente di questa enorme conquista distruggendo spesso quello che ne era rimasto, come nell'episodio della feroce uccisione di Ipazia e del conseguente rogo della stupefacente biblioteca di Alessandria. Subito dopo comincia il medio evo.

Fortunatamente a conservare il patrimonio della scienza greca ci hanno pensato gli arabi, che sono riusciti ad aggiungere anche farina del loro sacco (vedi al-khwarizmi, con la sua opera "al-Kitāb al-mukhtaṣar fī ḥisāb al-jabr wa al-muqābala") dimostrando che oltre a saper conservare e tradurre sapevano anche elaborare nuove idee. L'occidente invece è rimasto sopito per diverse centinaia d'anni, conservando quello che era sopravvissuto del mondo classico (soprattutto Aristotele), ma senza alcuna capacità di rielaborarlo. La scienza come attività intellettuale era perduta.

Ma dopo il mille, passata la paura della fine del mondo (una società senza scienza ha paura anche di questo), sono arrivati i comuni, le repubbliche, le intense attività mercantili, e con esse un po' di indipendenza dalla Santa Romana Chiesa. I commercianti hanno cominciato a girare il mondo e a mettere in contatto terre e civiltà, a favorire scambi culturali insieme a quelli commerciali. Tra questi commercianti c'era anche il figlio di un certo Guglielmo dei Bonacci, un ricco mercante della Repubblica di Pisa. Il caso volle che il figlio dei Bonacci (Fibonacci) fosse particolarmente interessato alla matematica. Questo interesse lo portò a conoscere e studiare la grande matematica araba e, di conseguenza, primo fra tutti, a riallacciare la tradizione scientifica greca. Il suo libro "Liber Abaci" riportò in occidente una parte importante di quello che si era perso, rinnovato dal contributo dell'Islam e dal suo personale.

Di lì a poco arriveranno altri grandi matematici (Niccolò Tartaglia, Scipione del Ferro, Gerolamo Cardano) e successivamente il grande Rinascimento, con la riscoperta critica del mondo classico (Leon Battista Alberti con il "De Pictura", Piero della Francesca con il "De Prospectiva Pingendi", Luca Pacioli con il "De Divina Proportione", Leonardo con i suoi codici, Copernico con il "De revolutionibus Orbium Coelestium"). Alla fine tutto verrà magistralmente recuperato e arricchito di un pensiero moderno da persone come Keplero e Galileo. Con una certa irritazione da parte della Chiesa Cattolica.

Nasce (rinasce) il pensiero scientifico tra gli eredi di quella civiltà che lo aveva per la prima volta formulato. Tutto è bene ciò che finisce bene.

Grazie Fibona', c'hai salvati.   ;-)

domenica 14 ottobre 2018

Complessità e consumo

Tempo fa ho scritto un post in cui sostanzialmente osservavo che il compito della scuola sarebbe quello di mettere in condizioni di affrontare, analizzare e comprendere situazioni complesse, di qualunque natura, da un testo letterario ad un'espressione matematica, da un quadro o un brano musicale ad un argomento scientifico, da una versione di latino ad un problema di fisica, da un periodo storico ad un argomento filosofico, e così via. L'ho scritto perché certe volte non mi sembra così scontato come dovrebbe essere.

Forse la nostra società si sta sviluppando in forme sempre più complesse e difficili da analizzare e comprendere, le generazioni future sono sempre più messe di fronte a questioni di difficile decifrazione. Forse il tasso di sviluppo di certe tecnologie determina dei cambiamenti così veloci da rendere difficile la possibilità di costruire in tempi adeguati gli strumenti concettuali adatti per saperli gestire.

Fatto sta che qualche volta ho l'impressione che abbiamo perso o stiamo progressivamente perdendo le capacità di comprendere il mondo che ci circonda. E la cosa ancora peggiore è che oltretutto mi sembra che sia sempre più importante non tanto capire il mondo ma consumarlo. La società dei consumi non è così interessata ad avere cittadini che si impegnino e perdano troppo tempo a capire le cose. E' invece molto più interessata ad avere cittadini che "ciuccino" il maggior numero di cose possibili, in maniera veloce, semplice e diretta, senza pensarci su troppo. E allo stesso tempo è anche interessata ad avere cittadini che producano (di tutto) in modi sempre più veloci. In questo i computer ci danno un grande aiuto, sia per la velocità con cui operano che per la loro capacità di riutilizzare materiali e standardizzare procedure.

Il consumismo ha la necessità di darci le cose in forma predigerita, non può attendere le nostre riflessioni. E' necessario che l'oggettiva complessità del mondo sia mascherata o sostituita da qualcosa di più semplice. Le forme trite e ritrite dell'industria culturale dominante sono un esempio illuminante.

Il messaggio credo che sia chiaro: oltre un certo livello non è più conveniente capire. Almeno per la maggior parte di noi.

domenica 9 settembre 2018

La religione tra Pascal e Russel

Io credo che la maggior parte delle persone che si dicono più o meno credenti abbiano una religiosità conveniente e acritica. Conveniente come nella scommessa su Dio di Pascal. Acritica come nella Teiera di Russel.

La scommessa su Dio di Pascal

Pascal negò che possiamo sapere con certezza che Dio esiste o no (posizione agnostica). Tale constatazione però non ci conduce su una posizione di agnosticismo permanente perché noi dovremmo scommettere su Dio. In questa situazione (di inconoscibilità) la scelta a favore di Dio è la più ragionevole. Se vinciamo la scommessa vinciamo tutto, se perdiamo, non perdiamo niente.

In questo ragionamento a dir la verità ci sono almeno due punti deboli. Se il Dio è quello cristiano (Pascal si riferiva a quello) c'è un prezzo da pagare su questa scommessa, che è quello di tener fede ad un preciso comportamento morale. Ma questo, nella nostra ormai libera e un po' sportiva interpretazione del cristianesimo, si traduce in una serie di principi piuttosto facili da rispettare e perfino condivisibili anche da molti non credenti. Un po' più problematica è la questione del pluralismo religioso, Su chi scommettiamo? La scommessa non è più così conveniente. Anche in questo caso però si può cercare di uscirne fuori il più decentemente possibile assumendo più o meno implicitamente la nostra religione come quella vera (?) o, ancora peggio, facendo un mezzo pastrocchio con le altre religioni (in fondo sono tutte uguali, Dio è uno, le religioni sono interpretazioni di una stessa verità. Si, ma quale?)

La teiera di Russel

Se io sostenessi che tra la terra e marte ci fosse una teiera di porcellana in rivoluzione attorno al sole su un'orbita ellittica, nessuno potrebbe contraddire la mia ipotesi purché io avessi la cura di aggiungere che la teiera è troppo piccola per essere rivelata persino dal più potente dei nostri telescopi. Ma se io dicessi che, giacché la mia asserzione non può essere smentita, dubitarne sarebbe un'intollerabile presunzione da parte della ragione umana, si penserebbe giustamente che stia dicendo fesserie. Se però l'esistenza di una tale teiera venisse affermata in libri antichi, insegnata ogni domenica come la sacra verità e instillata nelle menti dei bambini a scuola, l'esitazione nel credere alla sua esistenza diverrebbe un segno di eccentricità e porterebbe il dubbioso all'attenzione dello psichiatra in età illuminata o dell'inquisizione in un tempo antecedente.

Non sembrerebbe ma è piuttosto facile portarsi appresso per un'intera vita un pensiero acritico, appreso in tenera età, ereditato dalle generazioni precedenti quasi come un fattore biologico, sclerotizzato in secoli di storia culturale tanto da sembrare naturale e scontato come mangiare una mela.

sabato 1 settembre 2018

Il catechismo nei miei ricordi

Io me lo ricordo bene il catechismo, in chiesa per la preparazione alla prima comunione e alla cresima, a scuola durante l'ora di religione (era un catechismo anche quello, almeno fino a che abbiamo deciso di seguirlo). E ricordo bene il suo doppio aspetto, confortante e insoddisfacente al tempo stesso. E' stato un denominatore comune di tutta l'educazione cattolica ricevuta in quegli anni.

Il conforto dell'esistenza di un dio giusto e di un'esistenza infinita non gratuita ma legata al rigore morale del proprio vivere quotidiano era il messaggio centrale, che però eludeva sistematicamente la problematicità dell'idea di Dio, del perché per esempio quel dio e non un altro, visto che ce ne sono e ce ne sono stati tanti altri (una cosa forse banale? Non credo proprio). Come se quel problema dovesse essere di fatto solo un problema tuo. O non dovesse essere affatto un problema.

Forse la cosa per me più sconcertante, soprattutto da un certo punto in poi, era che in tutte le discussioni religiose l'esistenza del dio cristiano, con quasi tutte le caratteristiche che le scritture bibliche gli conferivano (almeno quelle evangeliche), era semplicemente data per scontata, quasi un  punto di partenza. Il problema di cui parlavo prima era in pratica già risolto (sono arrivato tardi nella discussione?).

Il catechismo era in pratica un racconto già fatto da qualcun altro, non riusciva quasi mai a discostarsi da questo atteggiamento. Gli insegnamenti morali che ne derivavano poggiavano su una verità non discussa e probabilmente non discutibile (una verità rivelata, come dicono i cattolici). Era un catechismo di risposte, un po' come la FAQ del compendio formulato qualche anno fa dalla CEI al tempo di Ratzinger.

Non che un cattolico non debba avere dubbi o non debba avere una sua dimensione di ricerca (immagino) ma a me proprio questa dimensione è sempre apparsa essenzialmente ipocrita in quanto convogliata quasi inavvertitamente su binari noti. Faccio fatica a comprendere una sincera ricerca personale di Dio (qualunque cosa voglia dire questo) quando hai un contorno predefinito così ricco, ben delineato e in gran parte ingiustificato (testi sacri, santi, dogmi, misteri codificati, ecc.). Secondo me un qualsiasi percorso spirituale personale dovrebbe anzitutto liberarsi da tutto questo pesante contorno di storia e di tradizione e procedere il più liberamente possibile, forse senza neanche più tornare indietro.

Le sovrastrutture del cattolicesimo sono così pesanti che l'ipocrisia nei loro confronti diventa la normalità. In questo senso l'episodio peggiore vissuto è stato quel blando catechismo imposto per il matrimonio. Sapere di dover parlare di certe cose in un certo modo, vedere le persone che fanno solo si con la testa, intuire che i problemi veri del matrimonio erano tutti ben lontani da quelle assemblee parrocchiali pomeridiane, è stata un'esperienza di frustrazione che non mi consentiva di concedere oltre a questa pseudo-religiosità.

Alla fine, per questi motivi, con il passare del tempo, l'unico pensiero sincero sopravvissuto è quello di una religione istituzionale che svolge diligentemente il suo millenario compito di strumento di potere, di controllo sociale, peraltro con un'efficacia probabilmente mai eguagliata nella storia. Il conforto dell'idea di una vita ultraterrena riscattata con un comportamento "appropriato" durante quella terrena, e una sostanziale rassegnazione alle ingiustizie del mondo ("i poveri ci stanno, dobbiamo pensare anche a loro ogni tanto", "io sono povero, il Signore per me questo ha voluto, imperscrutabili sono le sue ragioni, sia fatta la sua volontà") sono i suoi ingredienti principali.

Una volta lessi la seguente frase: "quando affermate di possedere la verità (la giusta interpretazione di qualcosa) state cercando di ottenere potere e controllo sugli altri".

domenica 26 agosto 2018

Preoccupazioni sulla Scienza come cultura condivisa

In un precedente post che parlava di scienza e democrazia avevo concluso con una frase un po' preoccupata: "Una società che abbia raggiunto uno stato avanzato di conoscenza scientifica e convivenza democratica non è detto che abbia la capacità di mantenerli, non è detto che non vadano persi". Poco tempo fa ho avuto l'occasione di ripensarci su e di definire meglio questa mia preoccupazione, almeno per quanto riguarda la scienza.

Come dicono alcuni storici il metodo scientifico è nato una sola volta nella storia della civiltà, e lo ha fatto nella Grecia classica ed ellenistica. La scienza moderna del seicento è sostanzialmente una operazione di recupero e rielaborazione conseguente al Rinascimento. Quello che voglio dire è che la scienza è il frutto di una cultura nata e cresciuta in particolari momenti storici e non riproducibile in qualsiasi contesto, come se fosse un dato esterno. Il metodo scientifico si è rivelato un prodotto culturale efficacissimo nel consentire la costruzione di conoscenze del mondo naturale ma presuppone una larga condivisione di queste conoscenze, e non solo tra gli addetti ai lavori. Se la scienza non rimane un dato culturale fortemente condiviso dalla civiltà che la produce è probabilmente destinata ad una involuzione i cui effetti nel tempo sono difficilmente prevedibili e non certo incoraggianti.

La scienza nei suoi ultimi tre secoli di storia ha avuto una accelerazione spettacolare che l'ha portata ad un grado di complessità elevatissimo e le ha consentito di produrre un numero incredibile di risultati tanto da essersi guadagnata un posto particolare nella cultura umana. Ma proprio questo posto particolare rischia di essere un problema. Io credo che la maggior parte dei cittadini di cultura media percepiscano la scienza come un corpo estraneo, piena di tanti bei risultati ormai perlopiù totalmente incomprensibili, fonte di una tecnologia sempre più ricca con la quale però non se ne colgono più i collegamenti logici. Le cose funzionano in un certo modo, perché? Boh, lo dicono gli scienziati. Ma chi sono questi scienziati? Questa alienazione secondo me è preoccupante. Se il cittadino non capisce da dove arrivano le conoscenze o come si costruiscono gli rimane in mano solo un pericoloso principio di autorità su cui prima o poi si sentirà in diritto di esercitare legittimamente la sua libertà di pensiero.

Per molte persone quello che dice la scienza è da considerare alla stregua di una qualunque opinione, il peculiare processo di conoscenza scientifica, che la pone ben al di sopra della formulazione di una semplice opinione, è totalmente ignorato. Al risultato consolidato e largamente condiviso dalla comunità scientifica si può tranquillamente contrapporre il "parere" isolato di un qualche "illustre scienziato" perché sostanzialmente non si comprende la differenza nei metodi.

La situazione a me sembra preoccupante anche dal lato dei comportamenti della comunità scientifica, che in generale non si preoccupa molto di spiegare la scienza perché la scienza si giustifica da sola, il suo valore è scontato, dato per acquisito. Si moltiplicano così le reazioni infastidite degli scienziati attaccati su più fronti in modo irrazionale da un "popolo bue" a cui non possono far altro che contrapporre nozioni imposte da un principio di autorità che, ahimè, è esattamente l'opposto della cultura scientifica, contribuendo quindi in buona misura ad affossarla ulteriormente.

Solo delle buone strutture educative (che evidentemente al momento non stanno funzionando poi così bene) possono farci uscire da questo preoccupante circolo vizioso.

domenica 29 luglio 2018

Compito sui vaccini

Domande:

1. I vaccini sono efficaci contro le malattie e le epidemie? Sono vantaggiosi per l'individuo e per la società?

2. Le vaccinazioni hanno un'incidenza negativa sulla salute dell'individuo? E in che misura?

3. Chi può rispondere in maniera affidabile alle prime due domande?

4. In che misura lo Stato può imporre un trattamento sanitario obbligatorio ai suoi cittadini, limitandone la libertà di scelta di cura e imponendo loro un rischio, sia pur piccolo, per la loro salute?

5. Cosa possiamo concludere?

Risposte:

1. I vaccini hanno ampiamente dimostrato di fornire al singolo un'efficace protezione da alcune importanti malattie infettive e, applicati su larga scala nella società, si sono rivelati efficaci nell'arginare l'azione delle epidemie fino addirittura in alcuni casi a debellare completamente l'agente infettivo.

2. Come tutti i farmaci e tutti i trattamenti sanitari anche i vaccini possono avere delle controindicazioni. In campo sanitario a qualunque azione con conseguenze benefiche sulla salute dell'individuo è associato un fattore di rischio di una qualche entità. I rischi a cui si può andare incontro sono sempre definiti in senso statistico (sono associati a delle probabilità) e non possono essere calcolati esattamente per ciascun individuo. Si può fare in modo di minimizzarli ma le procedure per farlo hanno dei limiti, tra questi anche i costi e le risorse impiegate. Per cui l'approccio più razionale è quello di confrontare i benefici con i rischi e prendere una decisione di conseguenza. Un rischio è la combinazione di due elementi, la probabilità che accada e il suo impatto sulla salute. L'indice che deve rimanere basso è qualcosa di quantitativo che dipende dal prodotto di questi due elementi. Posso trascurare un rischio sia se la sua probabilità è significativa ma l'impatto trascurabile sia viceversa. In questo senso il rischio dei vaccini sembra essere sempre estremamente basso, stando sia alle statistiche che alla valutazione della stragrande maggioranza dei medici.

3. Le questioni poste nelle prime due domande andrebbero il più possibile trattate quantitativamente, facendo riferimento sia a conoscenze mediche sia a una grande quantità di dati sanitari trattati con strumenti statistici. Entrambe queste risorse possono essere correttamente valutate in primo luogo da professionisti ed esperti. Questo in una qualsiasi disciplina scientifica (e anche in molte altre) è sempre vero. Occorrono conoscenze specialistiche per valutare correttamente una qualsiasi terapia. E occorre una popolazione mediamente colta per comprendere anche solo a grandi linee le scelte degli specialisti. La comunicazione scientifica si basa su due elementi essenziali: la capacità e la volontà di trasmettere informazioni corrette da parte dei media e la giusta preparazione culturale da parte di chi viene informato. A questo aggiungerei anche la necessità di un rapporto di fiducia tra scienziati e cittadini, che viene meno se questi ultimi non hanno un adeguato livello culturale. Pensare ad esempio che la comunità scientifica internazionale sia eterodiretta da ipotetici poteri forti è un segnale della mancanza di questo indispensabile livello culturale minimo.

4. Relativamente all'assunzione di un farmaco la cosa migliore sarebbe informare il paziente sia dei benefici che se ne trarranno sia di tutti i possibili rischi, ciascuno possibilmente con le indicazioni precise di impatto e probabilità. Quindi lasciare libero il paziente, o chi ne è responsabile, di decidere liberamente se assumere il farmaco o meno. Nel caso però delle vaccinazioni la situazione è più complessa in quanto l'efficacia del farmaco non può essere valutata solo sul singolo individuo quanto sull'intero gruppo che condivide gli stessi ambienti di vita. Il motivo è abbastanza evidente, se su cento persone ne vaccino solo dieci l'agente infettivo si propagherà indisturbato sui restanti novanta. Tra questi si genererà spontaneamente una certa quantità di immunizzati ma normalmente questo numero non è sufficiente a combattere la diffusione della malattia, e il suo carattere epidemico non verrà mai messo sotto controllo. Si può immaginare che stando a questa idea generale e studiando statisticamente il problema si possa arrivare a definire delle percentuali minime di vaccinati in una popolazione e questo è esattamente quello che ci dicono gli esperti, fornendoci una percentuale di riferimento pari al 95%. Si tratta di una percentuale molto alta che probabilmente non si riesce ad ottenere lasciando i cittadini pienamente liberi di decidere. In tal caso l'intervento dello stato con leggi che obbligano al trattamento vaccinale può essere risolutivo.

5. La questione delicata è che si deve sovrapporre al bilancio tra benefici e rischi del singolo individuo un'analoga valutazione sull'intera società. Ed entrambe le cose hanno l'una un feedback sull'altra. In qualche modo le due valutazioni, sull'individuo e sulla società, sono indivisibili. Vaccinare l'individuo accettando i minimi rischi associati migliora il livello di salute del gruppo e di consenguenza anche dell'individuo stesso. Non vaccinare l'individuo rispettando la sua libertà di scelta e quindi la sua libertà di non voler correre rischi porta un danno al gruppo e di conseguenza all'individuo stesso, a meno che la percentuale dei non vaccinati sia estremamente bassa. In quest'ultimo caso esercitare la propria libertà di non vaccinarsi porta il doppio beneficio di non correre rischi associati al vaccino e di vivere allo stesso tempo in un gruppo sano (perchè vaccinato in larga maggioranza). In tale contesto la cosiddetta "libertà di scelta" diventa una paraculata.

venerdì 13 luglio 2018

Il programma di ricerca della meridiana di San Petronio

Se si entra nella basilica di S. Petronio a Bologna si può notare una striscia metallica molto lunga incastrata nel pavimento con un'orientazione singolare, sghemba rispetto alla direzione longitudinale della basilica. Si tratta di una meridiana, ovvero di uno strumento di misura della posizione del sole rispetto alla terra. La luce del sole entra da un piccolo foro (detto foro gnomonico) posto a circa 27 metri di altezza sul tetto della navata sinistra. Si tratta della meridiana più lunga del mondo, misura circa 67 metri, pari alla seicentomillesima parte della circonferenza terrestre. Ma non è questo primato la cosa più interessante di questo strumento.

La realizzazione di questa meridiana, così come la vediamo ancora oggi, è dovuta a Gian Domenico Cassini, importante scienziato italiano del seicento, di poco posteriore a Galileo. Risale al 1657 e sostituisce una precedente meridiana, più piccola, realizzata nel 1575 dal domenicano Ignazio Danti.

Non è facile rendersi conto a distanza di così tanto tempo dell'importanza di un'opera del genere. In una visita a San Petronio risulta poco più che una curiosità dentro un'architettura affascinante. In realtà si tratta di uno degli strumenti scientifici più importanti e costosi dell'epoca, dietro il quale c'era un programma di ricerca ambizioso, che diede notorietà internazionale (e soldi) al suo ideatore. Facendo le dovute proporzioni è un po' come parlare oggi degli esperimenti LHC o LIGO. In seguito a questo lavoro Cassini fu chiamato negli anni successivi a dirigere il nuovo Osservatorio di Parigi, presso l'Académie des Sciences, dove fece importanti scoperte osservative in campo astronomico, la più famosa delle quali è la Divisione di Cassini negli anelli di Saturno. Forse la sua si può considerare una delle prime "fughe di cervelli" dall'Italia. La causa era la diffusione di istituzioni scientifiche prestigiose finanziate dai grandi stati nazionali quali Francia e Inghilterra, a fronte di una situazione italiana frammentata in tante realtà politiche di piccole dimensioni per le quali era quasi sempre impossibile avere le risorse per creare istituzioni in grado di attirare gli scienziati dell'epoca.

Per la verità c'era anche un altro motivo che allontanava certi scienziati dall'Italia, in particolare quelli che si interessavano di astronomia, che aveva già fatto le sue illustri vittime e che continuava ad essere un problema non facilmente eludibile: la presenza ingombrante della Chiesa Cattolica. Anche per questo motivo risulta interessante il programma di ricerca portato avanti da Cassini, che non aveva nessuna intenzione di fare la fine di Galileo.

L'obiettivo principale e dichiarato del programma di ricerca che Cassini intendeva portare avanti con il suo nuovo strumento (che lui chiamava "eliometro") era quello di determinare con la massima accuratezza la lunghezza dell'anno solare. Per farlo occorreva misurare il tempo trascorso tra due passaggi successivi del sole all'equinozio di primavera. Le dimensioni dello strumento avrebbero assicurato una precisione nelle misure mai raggiunta prima. Il motivo principale che spingeva a realizzare questa misura era la verifica della correttezza della riforma gregoriana del calendario.

In pratica la situazione era la seguente: il calendario Giuliano era basato sull'ipotesi che la durata dell'anno solare fosse esattamente pari a 365,25 giorni. Questo significava che per riallineare l'anno civile (365 giorni esatti) con quello solare occorreva introdurre un giorno in più ogni 4 anni. Questa correzione però con il passare dei secoli introdusse comunque uno sfasamento tra anno civile e anno solare riscontrabile nelle misure di posizione del sole e nell'anticipo delle stagioni. Il motivo era evidentemente riconducibile al fatto che la durata dell'anno solare non era esattamente pari a 365,25 giorni bensì qualcosa di meno (circa 365,2422). La riforma Gregoriana del 1582 recuperava lo sfasamento accumulato durante i secoli (si decretò che il giorno successivo al giovedì 4 ottobre 1582 fosse il venerdì 15 ottobre) e per il futuro fu stabilito di sopprimere tre anni bisestili ogni quattro secoli, mantenendo bisestile solo gli anni secolari che risultano divisibili per 400. Ma la efficacia di quest'ultimo provvedimento era chiaramente legata alla conoscenza precisa dell'anno solare, quindi una misura accurata di questo intervallo di tempo avrebbe confermato o meno quanto stabilito dalla riforma. In particolare si voleva capire se conveniva sopprimere l'anno bisestile del 1700 come previsto oppure no.

Le misure effettuate da Cassini con il suo eliometro confermarono la bontà della riforma Gregoriana, quindi furono non bisestili il 1700, il 1800 e il 1900. Altre importanti misure seguirono, come ad esempio misure sulla rifrazione (differenza tra altezza reale e altezza apparente di un astro sopra l'orizzonte), misure sull'obliquità dell'eclittica, misure del diametro del sole. Da notare però che tutte queste misure si riferiscono (anche nei termini e nel linguaggio) a movimenti del sole, nel pieno rispetto della visione tolemaica dell'universo.

Ma c'era un secondo importante obiettivo nel programma di ricerca di Cassini. La seconda legge di Keplero, formulata per la prima volta nel 1609, sostiene che il raggio vettore che unisce la terra al sole descrive aree uguali in tempi uguali e che questo vale per tutti i pianeti. In altre parole significa anche dire che "la Terra ha una velocità maggiore quando è più vicina al Sole e si muove più lentamente quando è più lontana". L'obiettivo di Cassini era proprio quello di trovare dati osservativi che corroborassero questa affermazione. E' da notare però che a differenza di quanto detto prima in questo caso non si parla più di moto del sole attorno alla terra bensì il contrario, in quanto le leggi di Keplero sono state dedotte studiando il moto dei pianeti come un moto di rivoluzione attorno al sole, e la terra in questo caso viene semplicemente annoverata nella famiglia dei pianeti che ruotano attorno al sole.

Quindi questo elemento del vasto programma di ricerca di Cassini si inseriva direttamente nella delicata controversia tra coloro che, seguendo Aristotele e Claudio Tolomeo, ritenevano il moto del Sole circolare e uniforme, intorno alla Terra immobile, e coloro che ritenevano, invece, seguendo Niccolò Copernico e Galilei, che la Terra fosse in moto intorno al Sole e che il moto del Sole fosse, quindi, solo apparente. La visione copernicana dell'universo era all'epoca ancora ampiamente osteggiata dalle autorità ecclesiastiche, l'abiura di Galileo risale a poco più di vent'anni prima dell'episodio che stiamo raccontando.

Ma in che modo Cassini voleva verificare la seconda legge di Keplero?

Il dato osservativo ben noto di partenza era il seguente: il moto del sole nel cielo è più lento d'estate che d'inverno, inoltre da misure del disco solare è possibile dedurre che proprio d'estate il sole è più lontano dalla terra. La spiegazione nell'ambito della teoria Tolemaica è semplice, l'allontanamento del sole dalla terra nella stagione estiva fa apparire il suo moto più lento. In tal caso però dovrebbe esserci una correlazione precisa tra la lontananza del sole dalla terra (quindi le dimensioni del suo disco nel cielo) e la variazione della sua velocità. Attraverso l'uso di uno strumento di grande precisione sarebbe stato possibile verificare o meno questa correlazione. L'eliometro di Cassini si rivelava particolarmente adatto sia per le sue dimensioni, e quindi la sua precisione nelle misure di posizione del sole, sia per la sua capacità di fare misure anch'esse molto precise delle dimensioni del disco solare.

Cassini riuscì a determinare le variazioni del diametro solare, con la precisione di circa un minuto d'arco, misurando le dimensioni dell'immagine proiettata sul pavimento della chiesa. In tal modo verificò che, nel corso dell'anno, il diametro del Sole (quindi la sua distanza) non diminuiva nello stesso modo in cui diminuiva la sua velocità, il che voleva dire che la diminuzione di velocità non era apparente, ma reale: era la prima conferma osservativa eseguita al mondo della seconda legge di Keplero. Con la meridiana di San Petronio Cassini ha dato un contributo importante a favore della teoria eliocentrica mostrando che la Terra può essere trattata come un pianeta, come affermato da Copernico.

venerdì 6 luglio 2018

Dentro e fuori il giardino di casa

Tempo fa ho assistito con degli amici ad uno spettacolo di cabaret in un locale romano. Un duetto di comici in cui lei faceva da spalla a lui. Una comicità che funzionava abbastanza bene (loro erano bravi) ma rientrando a casa e anche successivamente ripensavo a quale fosse il limite che al momento della performance avevo intuito ma non del tutto focalizzato. Mi ha aiutato provare a confrontarli con Lillo e Greg, due comici che a me piacciono molto.

La comicità che ho visto quella sera era su temi stereotipati, ecco quello che la indeboliva. Lo erano i temi e anche il modo di trattarli. Il rapporto tra marito e moglie sui vari aspetti della vita quotidiana, sempre gli stessi, lo shopping, il sesso. Il rapporto tra nord e sud, in particolare tra Milano e Roma (nella coppia lei era milanese lui romano). Battute efficaci, ma su temi e con modalità sempre ampiamente prevedibili. Ecco che dice questo, adesso dice quest'altro, tette piccole della moglie, ora parla del sadomaso, di quanto è ridicolo, dei travestimenti da batman, i romani so' sornioni e sfaticati, i milanesi so' tutti isterici, e via di questo passo. Soprattutto sono le modalità del linguaggio comico ad essere ben note.

Effettivamente invece quello che più mi colpisce della comicità di Lillo e Greg è l'originalità, sia dei temi che delle tecniche e modalità usate. Le loro situazioni comiche (quando non le conosco già) sono spiazzanti, assurde perchè inaspettate, magari anche sceme o estremamente semplici ma non sempre te le aspetti, e questo dà decisamente una marcia in più alle loro scene teatrali. Poi ovviamente quando li si segue come me da molto tempo questa originalità si scarica un po' ma al contempo è diventata anche uno stile, un modo di lavorare riconoscibile come una cosa loro.

Eppure i due comici visti l'altra sera, anche se in modo diverso, facevano ridere abbastanza pure loro. La differenza è probabilmente nella qualità del ridere. Quella di certi comici è una comicità più "confortevole", proprio perchè nota, proprio perchè si muove in un terreno conosciuto. Questo divertirsi (con situazioni comiche o con altro) ritrovandosi sempre nelle stesse cose, muovendosi con sicurezza sempre dentro il "proprio giardino di casa" è da molti particolarmente apprezzato. Nel campo della comicità sfocia addirittura nel parossismo dei famosi "tormentoni", molto cari a trasmissioni come Zelig, e che ne hanno in buona parte decretato il successo.

In tutto ciò, e oltre questo semplice esempio, la cosa per me più interessante è il constatare, almeno nella mia esperienza, che proprio tutta l'arte funziona così, dalle forme più semplici e popolari a quelle più complesse (per quello che arrivo a capire), un continuo equilibrio tra battere gli stessi sentieri del proprio giardino e uscir fuori ad esplorare. Se questo equilibrio si sbilancia in un senso o nell'altro il rischio è più o meno sempre quello di annoiarti, anche se per motivi differenti.

sabato 2 giugno 2018

Un articolo di Feltri

L'altro giorno mi imbatto in un articolo che criticava in maniera molto severa un altro articolo scritto da Vittorio Feltri. Questo veniva accusato abbastanza apertamente di stupidità e poi, con una certa riluttanza (perché un articolo stupido non andrebbe neppure considerato) veniva analizzato punto per punto. La questione riguardava le considerazioni che si possono fare sulle disparità di compensi tra uomo e donna nel mondo del lavoro. I due articoli in questione sono qui (articolo di Feltri) e qui (articolo in risposta).

Quello che mi ha colpito nella lettura di questo "carteggio" e che mi interessa sottolineare è la chiara posizione di destra che traspare nell'esposizione di Feltri e che però non mi pare venga colta dalla giornalista che lo critica, o almeno non viene abbastanza sottolineata, non quanto mi piacerebbe. Certo si può dire che l'articolo di Feltri è una cazzata ma a me pare più interessante rivelarne la posizione ideologica sottostante, che invece una cazzata non lo è.

La questione descrive tecnicamente una diseguaglianza tra i generi maschile e femminile in un ambito sociale molto importante come quello del lavoro. La posizione di Feltri è di destra in quanto riconosce l'esistenza di questa diseguaglianza e la presenta come un fatto costitutivo e ineludibile della società. E' la donna che sceglie di fare i figli e automaticamente di penalizzarsi sul fronte della carriera, della professionalità, della produttività e dunque della retribuzione. Queste sono conseguenze che discendono "naturalmente" da questa scelta. D'altra parte è la natura che ha stabilito che i figli li fanno le donne e non gli uomini. Il richiamo all'aspetto naturale della questione lo trovo particolarmente significativo.

Perché contrastare una diseguaglianza così ovvia ed evidente? A che scopo? Non è meglio accettarla ed accettare di fondare la convivenza tra uomo e donna su questo? Magari la società così funziona anche meglio.

Credo che il pensiero di Feltri, per quanto la giornalista lo classifichi come scemo e non degno di commento, si ritrovi implicitamente espresso nella nostra società. Io ho più volte riflettuto sul fatto che la famiglia italiana ha in media l'occasione di funzionare meglio se si accetta una fondamentale disuguaglianza tra uomo e donna nel mondo del lavoro. L'uomo lavora, pensa alla carriera e al raggiungimento di un adeguato benessere economico, la donna pensa alla casa e ai figli ("lei sceglie di farli, lei se li cresce", direbbe Feltri). Molte famiglie alla fine funzionano ancora molto bene con questa logica, magari con qualche variante ma poco significativa. Se è vero che in molte famiglie lavorano entrambi i genitori è altrettanto vero che questo spesso non esprime una uguaglianza, cioè un'eguale libertà di scelta, ma al contrario si tratta di una scelta obbligata da motivi di sostentamento (un solo stipendio normale non può far fronte alle esigenze di un tenore di vita medio) attorno alla quale si sviluppano spesso parecchie difficoltà e frustrazioni familiari.

L'uguaglianza in questo ambito, come in tutti gli ambiti della società, va costruita, protetta, rafforzata, fatta crescere. E noi, sia politicamente che culturalmente (le due cose vanno di pari passo), non ne siamo ancora sufficientemente capaci.

lunedì 28 maggio 2018

Una bella analogia

Le analogie sono spesso divertenti e istruttive. Servono per capire meglio le cose. Oddio, non sempre. Qualche volta sono un po' troppo sceme. Ad esempio si usa dire che l'attività intellettuale e la capacità e lo sforzo di imparare cose nuove mantiene allenato il nostro cervello, così come avviene per un muscolo del corpo quando viene utilizzato, e lo preserva da patologie dell'invecchiamento, la più grave delle quali, l'alzheimer, è ormai percepita come una vera piaga sociale.

Questa analogia è appunto un po' scema, non serve per capire meglio il cervello, non ha il potere unificante tipico delle belle analogie, collega in modo poco significativo muscoli e cervello.

Invece il cervello può essere associato ad una rete dove le connessioni tra le varie parti veicolano informazioni. Imparare cose nuove equivale a costruire nuove connessioni per mettere in comunicazione idee fino a quel momento isolate, per arrivare da più punti ad una qualche informazione memorizzata e poterla recuperare ed utilizzare.

Le patologie degenerative del cervello possono essere associate ad una qualche forma di degrado di queste connessioni, ad un qualche agente o processo che le rende inutilizzabili e alla conseguente perdita di capacità di recuperare informazioni memorizzate da qualche parte. Di fronte a questi processi degenerativi un cervello tanto utilizzato, che ha imparato tanto e che ha quindi costruito un gran numero di connessioni si mostrerà molto più resiliente, offrirà tanti percorsi alternativi, tante ridondanze possibili e dunque avrà più chance di sopravvivere come sistema nel suo complesso.

Questa si che è un'analogia!

(La morale sarebbe la seguente: impara il più possibile che nel tempo costruirai un sistema sempre più resiliente alle degenerazioni dell'invecchiamento).

lunedì 21 maggio 2018

La storia delle stelle oscure

C'era una volta il signor Isaac Newton, un filosofo della natura che nel 1687 decise di pubblicare attraverso la Royal Society di Londra quello che oggi è noto come uno dei più importanti scritti nella storia della scienza, i Principia (più esattamente "Philosophiae Naturalis Principia Mathematica"), dopo aver passato un periodo di soggiorno coatto nella tenuta di campagna di famiglia (era di buona famiglia) causato dall'esigenza di tenersi lontano dai focolai di peste che a quell'epoca imperversava a Londra. La tenuta era evidentemente piena di alberi di mele, dunque un luogo di grande ispirazione.

In questo libro Newton scrisse, tra le altre cose, due equazioni. La prima stabilisce che un corpo sottoposto ad una forza riceve un'accelerazione direttamente proporzionale ad essa ed inversamente proporzionale ad un parametro caratteristico del corpo detto massa. La seconda stabilisce che due corpi qualunque, per il solo fatto di possedere ognuno la sua massa, quella che compare nella prima equazione, si attraggono con una forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle masse dei due corpi e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. Queste due equazioni sono note rispettivamente come legge fondamentale della dinamica e legge di gravitazione universale.

In uno scritto successivo (1704) intitolato "Ottica", Newton avanza l'ipotesi della natura corpuscolare della luce, secondo la quale la luce sarebbe costituita da piccoli corpuscoli dotati di massa e quindi soggetti ad entrambe le equazioni citate sopra. Tra l'altro all'epoca di questa ipotesi un certo signor Ole Rømer, astronomo danese, era già riuscito ad ottenere una prima misura della velocità della luce, cioè la velocità a cui questi ipotetici corpuscoli si muovono (1676).

In breve tempo le due equazioni formulate da Newton diventano strumenti molto potenti di predizione di fenomeni dinamici, sia di natura terrestre che celeste. L'ipotesi della natura corpuscolare e massiva della luce invece rimane sostanzialmente un'ipotesi, senza nessun riscontro sperimentale.

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C'era una volta il signor John Michell, un reverendo e filosofo della natura che nel 1783, combinando le due equazioni di Newton, avanzò una strana ipotesi. Se un qualunque oggetto si trova sulla superficie di un pianeta subirà una forza di attrazione verso il centro di esso da cui deriverà un certo valore della sua accelerazione, se lasciato libero di cadere sotto l'azione della forza. Questa accelerazione non dipende dalla massa del corpo in questione ma solo dalla massa del pianeta. Anche il corpo attirerà a sua volta il pianeta ma ipotizzando il corpo di massa molto piccola questo contributo può essere trascurato.

Se si lancia l'oggetto in verticale verso l'alto con una certa velocità iniziale, l'accelerazione di verso opposto, cioè verso il centro del pianeta, tenderà ad azzerarla, quindi ad invertire il moto e a riportare l'oggetto al suolo. E' chiaro però che esisterà un valore della velocità iniziale talmente elevato che l'accelerazione applicata, via via più debole man mano che il corpo si allontana dal pianeta, non sarà più in grado di riportare il corpo al suolo. Questo valore può essere chiamato velocità di fuga.

E' anche chiaro che il valore della velocità di fuga aumenterà con l'aumentare dell'accelerazione esercitata dal pianeta sul corpo, cioè sarà tanto maggiore quanto maggiore è la massa del pianeta e quanto minore è il suo raggio. Quindi più la massa del pianeta si concentra su un raggio piccolo (alta densità) più sarà difficile per il corpo abbandonare definitivamente il pianeta.

Se a questo punto si immagina una stella al posto del pianeta e i corpuscoli luminosi al posto del corpo si arriva all'ipotesi di Michell: è possibile immaginare l'esistenza di stelle così massicce (dense) che la velocità di fuga dalla loro superficie sia superiore alla velocità della luce. E se neanche la luce può sfuggire da queste stelle allora queste devono essere stelle oscure.

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C'era una volta il signor Thomas Young, uno scienziato britannico, che a seguito di una serie di famosi esperimenti di ottica, come quello della doppia fenditura (1801), stabilì la natura ondulatoria della luce. Ovvero mise chiaramente in evidenza che la luce si propaga come un'onda. Successivamente la luce venne descritta più precisamente come un'onda di natura elettromagnetica. Era chiaro a questo punto che la luce non poteva essere costituita da corpuscoli luminosi dotati di massa e non poteva quindi sottostare a quelle forze che compaiono nelle due equazioni di Newton.

Da quel momento in poi l'affascinante ipotesi del signor Michell venne accantonata. Fine della storia delle stelle oscure (ma si sa che ci sarà una spettacolare rivincita).


lunedì 30 aprile 2018

L'inghippo del post-ideologico

Oggi mi imbatto in una dichiarazione di Luigi Di Maio, attuale leader del Movimento Cinque Stelle, che accusa sia la destra (Lega) che la sinistra (PD) di non aver colto finora le sue proposte di accordo per formare un nuovo governo, lasciando aperta solo la strada di nuove elezioni. Cioè M5S si è rivolto separatamente prima alla Lega e poi al PD per cercare di definire con loro un accordo di programma con cui governare. Ovviamente questi accordi sarebbero stati piuttosto diversi ma M5S può "vantare" un pragmatismo tale da consentirgli di trovare punti in comune tanto con la destra che con la sinistra.

Questa cosa nel messaggio viene esplicitamente sottolineata con una frase che io considero una delle peggiori sentite pronunciate da un politico negli ultimi anni: "Il nostro è un movimento post-ideologico, per noi le idee non sono nè di destra nè di sinistra, sono idee buone o cattive". Ho già espresso in un altro recente post le mie perplessità in merito a questo modo di pensare, ma qui vorrei definirle meglio, se ci riesco.

Se io non mi rifaccio ad una ideologia il mio approccio sarà necessariamente di tipo pragmatico, cioè analizzerò provvedimento per provvedimento e deciderò in merito ad ogni singola questione presa a sè stante. Ma è pensabile fare questo? Ha senso considerare ogni singolo problema senza inserirlo in un contesto di analisi dell'intera società? Non è una visione eccessivamente riduzionista della politica? Se non parto dal tentativo di avere una visione generale della società probabilmente non sono in grado neanche di definire correttamente i suoi problemi e quindi di trovare la strategia giusta per affrontarli e risolverli. Credo che una buona politica non possa rinunciare a fare questo.

Avere una visione generale della società ha un effetto sia sui problemi che individuiamo e sul loro grado di importanza, sia sulle risposte che formuliamo per risolverli e sul modo in cui risolverli. Viceversa la definizione dei problemi, delle priorità e delle possibili soluzioni definisce abbastanza chiaramente una visione generale della società, ovvero un'ideologia.

D'altra parte è possibile far scadere il dibattito politico proprio sulla base di questo pragmatismo individuando dei problemi talmente generici da accomodarcisi con qualunque ideologia, o con nessuna ideologia. In questo senso la lotta alla povertà dichiarata più volte da M5S è certamente una cosa "buona" e condivisibile, l'onestà è anch'essa cosa "buona" e condivisibile. Ma da qui mi pare si capisca bene che la categoria di buono e cattivo in politica è semplicemente una stronzata. Sono concetti assoluti che non hanno senso. Buono per chi? Cattivo per chi?

Insomma, data una certa società, a me pare veramente sciocco pensare che su di essa si possano distinguere in forma assoluta idee buone e cattive. Se così fosse la politica non avrebbe alcun senso, non esisterebbe. Piuttosto ci saranno necessariamente delle scelte precise di problemi e soluzioni che definiscono inevitabilmente più interpretazioni distinte della società, e in questo ambito si articola il dibattito politico democratico.

A chi mi fa osservare, forse con qualche ragione, che con la questione dello scontro tra destra e sinistra i partiti politici nostrani ci hanno preso per il culo per decenni, mi viene in mente di rispondere che però, pure il concetto di superamento delle ideologie mi suona come una presa per il culo. Anzi, forse peggio. Il superamento delle ideologie può essere a sua volta un'ideologia. Soprattutto perchè in questo modo gli orientamenti politici di fondo seppure di fatto ci sono e si possono riconoscere, non vengono mai esplicitamente dichiarati creando confusione nel dibattito politico e disorientamento nei cittadini che si sforzano di seguirlo. Potrebbe essere un obiettivo cercato. Una pappa indecifrabile in cui quello che alla fine inevitabilmente rimane a galla è la sola gestione del potere.

domenica 15 aprile 2018

Scuola di competenze o scuola di formazione?

Torno su un argomento che mi gira in testa da un po' e su cui ho scritto già qualcosa tempo fa. L'occasione è stimolata dal fatto che mio figlio sta frequentando la prima classe del liceo scientifico e io ogni tanto gli dò una mano a studiare alcune materie. Nel frattempo rifletto. Quali materie dovrebbero essere studiate nella secondaria superiore? Che cosa è utile studiare? Con quali obiettivi? Cosa serve di sapere?

Le domande sull'utilità di una materia scolastica si rivelano una trappola. Proprio non si capisce che senso dare al concetto di utilità riferito ad una qualche specifica materia o argomento di studio. Piuttosto si può cambiare leggermente la forma della domanda e chiedersi di cosa ha bisogno un ragazzo di questa età per crescere e formare la sua personalità. Lasciando perdere possibili posizioni estreme sull'argomento (si potrebbe dire che non ha bisogno di niente, cresce e basta) ed evitando la pretesa di esaurire l'elenco di tutti questi possibili bisogni, mi concentrerei su quello che uno si potrebbe aspettare ragionevolmente dall'ambiente scolastico, non certo l'unico ambiente di vita ma a questa età uno di quelli su cui si passa il maggior tempo.

Vedendo le oggettive lacune di mio figlio e ragionandoci sopra a me pare che un ragazzo a questa età abbia bisogno di sviluppare le capacità seguenti:

1. Esporre un contenuto appreso, confrontarsi con la capacità di comunicare e di presentare un concetto, quale che sia, di raccontare un lavoro che si sta facendo in modo che sia chiaro a chi ascolta.
2. Sintetizzare un contenuto concettuale, coglierne gli elementi essenziali, focalizzare gli aspetti chiave di un argomento complesso.
3. Usare efficaciemente il linguaggio, sia quello del parlato normale, sia quello appropriato di una certa disciplina, sia nelle sue forme orali che in quelle scritte e/o grafiche.
4. Analizzare un testo e ricavarne il relativo contenuto, coglierne il significato più profondo e le relative sfumature, saper riflettere su questi contenuti, anche in modo personale e originale.
5. Concentrarsi su quello che si sta facendo, per il tempo sufficiente a farlo bene.
6. Sviluppare metodi efficaci e personali per arrivare agli obiettivi suddetti.

Probabilmente basterebbe dire che l'unico vero obiettivo è quello di trovare il modo (il metodo) di sviluppare la capacità di affrontare in tutti i modi possibili e con la massima efficacia qualunque argomento, o meglio qualunque oggetto della conoscenza sufficientemente complesso, e arrivare a comprenderlo.

Dunque acquisire la capacità di trattare un qualunque argomento concettualmente complesso è la chiave dell'attività formativa della scuola (non l'unica effettivamente, c'è almeno anche la capacità di convivere con gli altri, di saper stare in un ambiente sociale strutturato, cosa di non secondaria importanza, vedi la "nota di sconforto" alla fine). Questo ha per caso a che fare con qualche materia in particolare? Evidentemente no, casomai ha a che fare con la capacità di una materia di presentare al ragazzo problemi complessi da affrontare e sicuramente ha a che fare con le modalità con cui questa materia viene insegnata. In questo senso aumentare lo spettro di materie in grado di proporre un panorama di argomenti complessi il più eterogeneo possibile determina forse un potenziamento della capacità formativa complessiva (ma non è scontato).

Certo si può insegnare ad un ragazzo a cucinare, a fare un lavoro manuale, a saper usare il computer, a cavarsela con l'inglese, a fare fotografie o filmati, a disegnare usando tecniche varie, ecc. Sono dei "saper fare" che possono essere tutti di una qualche utilità. Ma sono competenze, se non addirittura abilità, e questo secondo me non può rientrare tra gli obiettivi principali di una scuola secondaria. La scuola deve puntare sulla formazione, non sulle competenze. Queste ultime tra l'altro si possono costruire in breve tempo, se necessario, e se si ha la formazione giusta per affrontarle.

Nota di sconforto: ogni tanto penso che la scuola soffra di una certa carenza di valori, che la riduce ad un campo di battaglia, dove il sentimento prevalente è l'ansia di successo sugli altri. E che questo prepari alla peggiore vita sociale, fatta di individualismo, mancanza di solidarietà, di rispetto e di collaborazione, e di assenza di amore per la conoscenza.

sabato 10 marzo 2018

Scienza e Democrazia

Ci sono espressioni che hanno una fortuna eccessiva sui media. Probabilmente perchè si ricordano bene e quindi sono facili da rilanciare ad ogni buona occasione. Purtroppo però il loro destino è anche quello di diventare degli stereotipi che dopo un po' non servono più a niente e rischiano spesso di far danno, soprattutto perchè sotto la loro semplicità nascondono delle realtà ben più complesse. Basti pensare che da un po' di tempo a questa parte non si uccidono più le donne per mille diversi motivi, si compiono solo dei "femminicidi", tutti uguali in un certo senso. Si sa, i termini con cui ci si esprime sono importanti e un linguaggio povero impoverisce inevitabilmente anche le idee che veicola. Bisognerebbe starci più attenti.

Una sentenza che ultimamente ha avuto un picco di diffusione notevole è quella che dice "la scienza non è democratica", credo introdotta nel dibattito sui vaccini, il cui scopo era in realtà quello di far capire che per poter fare delle affermazioni scientifiche bisogna essere preparati, e che quindi non tutti possono entrare nel merito di un dibattito scientifico. Una cosa ovvia, che non riguarda certamente in modo peculiare la scienza. Si potrebbe fare la stessa affermazione, con lo stesso senso, in qualunque attività specialistica che necessita di studio e preparazione.

Mi dispiacerebbe però che questa frase venisse abusata, perchè secondo me contiene dei potenziali fraintendimenti che proprio non mi piacerebbero. Mi riferisco alla possibilità di creare artificialmente una distanza tra cultura scientifica e cultura democratica, un obiettivo certamente non contenuto negli scopi di chi ha formulato e usato questa espressione la prima volta. Ma le semplificazioni sui media sono una brutta bestia.

D'altra parte ci mancherebbe pure questa, cioè che la scienza passasse per qualcosa di elitario che favorisce naturalmente organizzazioni sociali oligarchiche e tecnocratiche. Anche perchè secondo me ci sono delle buone ragioni invece per pensare proprio il contrario, cioè che scienza e democrazia sono due costrutti culturali in qualche modo complementari e che per questo hanno probabilmente bisogno l'una dell'altra.

A me pare che l'operare di una comunità scientifica sia sempre intrinsecamente democratico, e che questo sia addirittura imprescindibile in quanto direttamente collegato alla sua efficienza e ai risultati che può produrre. Non sto parlando di una democrazia formale, ovviamente non si fanno scelte a maggioranza, non si mettono ai voti le decisioni. Sto parlando di una democrazia sostanziale, cioè di un modo di intendere il lavoro in comunità basato su valori che richiamano quelli del vivere democratico: il rifiuto dell'autoritarismo, la tolleranza verso l'espressione di punti di vista diversi dal proprio e il rispetto per l'oggettività dei dati di fatto.

Chi lavora in ambito scientifico e ne ha assorbito gli atteggiamenti culturali sa che non ha senso dare valore a un'idea solo considerando chi l'ha prodotta ma in quanto si dimostri oggettivamente funzionale ad una spiegazione di fatti sperimentali noti e condivisi da tutti. L'idea deve essere convincente in sé e non perché è stata formulata da questo o quell'altro grande scienziato. Il principio di autorità viene naturalmente rifiutato perchè ci si accorge subito che danneggia il lavoro scientifico ostacolando il passaggio a nuove conoscenze. Richard Feynmann diceva: "Science is the belief in the ignorance of experts". Al contrario è ovvio che una buona idea può venire da chiunque, e la bravura è saperla cogliere. E siccome chiunque può far avanzare con una buona idea il livello di conoscenza generale la condivisione delle informazioni assume un valore primario per la comunità.

Trattare con lo stesso identico rispetto tutti gli individui di una comunità che persegue uno stesso scopo, informare tutti di quello che si sta facendo e dello stato di avanzamento delle conoscenze, predisporsi all'ascolto di qualsiasi idea avendo come unica discriminante il confronto con dati di fatto oggettivi e anch'essi condivisi e accessibili a tutti, esporsi a qualunque critica sensata e ben argomentata da chiunque sia in grado di formularne una. Tutto questo a me sembra individuare un nocciolo di valori che hanno molto a che fare con quella che dovrebbe essere in generale una comunità democratica.

L'accostamento tra scienza e democrazia sembrerebbe avere anche una sua giustificazione storica. Molti sostengono che nel passato si siano formate buone società democratiche là dove parallelamente si sviluppavano all'interno delle società stesse altrettanto buone comunità scientifiche, e che questo sia stato anche il risultato di un feedback positivo. Gilberto Corbellini, ad esempio, nell'introduzione del suo saggio Scienza, quindi democrazia, citando Timothy Ferris (The Science of Liberty) scrive: "Ferris ricorda che la rivoluzione democratica moderna è stata guidata in larga parte da individui con una formazione scientifica che è avvenuta nell'età dell'Illuminismo ed è scaturita dagli stimoli intellettuali e sociali creati dalla rivoluzione scientifica". D'altra parte "l'accrescimento della ricchezza economica e la domanda di competenze tecniche hanno stimolato i sistemi democratici moderni ad investire in modo crescente nell'educazione dei cittadini e nella ricerca scientifica, creando e alimentando in questo modo un circolo virtuoso che, attraverso l'istruzione, promuove la libertà individuale, rendendo le persone più autonome e capaci di autodeterminazione".

C'è un'altra cosa che secondo me accomuna la scienza e la democrazia. Sono entrambi sistemi di convivenza complessi, direi innaturali, e per questo molto delicati. I sistemi di valori su cui si basano possono essere solo tipici di una società avanzata, di una società con livelli di ricchezza e di istruzione sufficientemente alti e omogenei. Questi valori non solo vanno costruiti ma anche conservati, e questo è tutt'altro che scontato. Una società che abbia raggiunto uno stato avanzato di conoscenza scientifica e convivenza democratica non è detto che abbia la capacità di mantenerli, non è detto che non vadano persi. Insieme.

venerdì 2 marzo 2018

Vangeli e Costituzione

Matteo Salvini che brandisce in un suo comizio i Vangeli e la Costituzione Italiana è forse il momento peggiore che mi è capitato di vedere di questa campagna elettorale. Ovviamente sono stati tantissimi i commenti a questa uscita barbara del peggior politico italiano di questi ultimi tempi, tutti convergenti ad una stessa critica, la più ovvia: i messaggi morali contenuti nei Vangeli non sembrano essere molto in sintonia con quelli che ispirano la politica di Salvini e del suo gruppo, tanto che viene il dubbio se li abbia mai letti. Ma faccio notare che Salvini si definisce un appassionato di Fabrizio De André. Gli uomini oltre che paraculi possono essere sinceramente complessi e contraddittori.

Tanti possono essere i motivi opportunistici (soprattutto opportunistici) per tirar fuori quei testi. E' chiaro che sono utilizzati come elementi di identificazione sociale, e quindi di distinzione dagli "altri". In questo senso trovo che sia più forte il segnale dato dai Vangeli che dalla Costituzione. Il primo è un rafforzativo del secondo. La Costituzione è un trattato di convivenza sociale a cui tutto sommato ci si può uniformare piuttosto facilmente ma i Vangeli sono certamente qualcosa di più, capaci di creare un solco ben più profondo tra le persone, e quindi risponde meglio al messaggio del "noi e voi" che è l'obiettivo cercato.

I Vangeli però sono la Buona Novella per tutti, non per un popolo (come succede per altri monoteismi). Ciononstante possono essere utilizzati come elemento che distingue, che separa, che esclude. Ed è stato già fatto in tantissime occasioni nella storia del Cristianesimo. Salvini è solo l'ultimo arrivato, nessuna pretesa di originalità. Questa dunque non è una semplice "contraddizione" di una personalità "complessa" ma più seriamente una caratteristica a cui le religioni si prestano particolarmente bene. Anche i nostri tempi lo testimoniano, purtroppo.

Probabilmente un tratto caratterizzante di qualsiasi credo, di qualsiasi religione della storia, è quello di creare una coesione sociale di una forza particolare, senza confronti con altri fattori culturali, in quanto legata ad elementi sovrumani e sovrannaturali. Il gruppo sociale trae giustificazione direttamente da essi e non da semplici accordi tra uomini. Questo ovviamente da una parte favorisce comportamenti altruistici verso chi condivide lo stesso credo ma dall'altra tende a generare comportamenti aggressivi e minacciosi, di potente alterità, verso i cultori di altre credenze o verso i miscredenti in generale. Dal punto di vista evolutivo (oltre che storico) credo che queste caratteristiche abbiano avuto grande importanza, dunque ce le portiamo senz'altro appresso come un dato che può avere grande influenza sul comportamento istintivo, non elaborato razionalmente. Solleticare queste funzioni primitive in un discorso politico, che dovrebbe invece fare affidamento sulle capacità più razionali e nobili di ogni individuo, è cosa tanto facile quanto ignobile. Una rovinosa caduta di valori umani, sociali e civili. Complimenti.

(per non parlare della solita mancanza di valori laici, altro aspetto oscurantista di cui in Italia non ci si vuol liberare; da questo punto di vista l'accostamento dei Vangeli e della Costituzione in un comizio politico è di per sè un gesto tristemente eloquente).

lunedì 5 febbraio 2018

La regola della cosa

La conoscenza è soprattutto un fatto sociale, almeno così secondo me andrebbe visto. Le proprie conoscenze personali sono sempre un riflesso di quelle della società in cui viviamo e della sua storia, a cui evidentemente possiamo dare o no un contributo originale significativo. Tra l'altro in molte circostanze è proprio la storia di questa conoscenza uno degli elementi che più può indurre un sentimento di appartenenza e di comunione con gli altri e che può annullare sentimenti xenofobi tra i popoli.

Sto leggendo un libro sull'algebra e sulle sue origini. Mi scorrono sotto gli occhi nomi complicati, indiani e arabi, lontani dalla cultura classica, greca e latina, con cui ho certamente maggiore familiarità. Sono nomi che oggigiorno hanno un suono sinistro, evocano terre devastate da guerre e da terrorismo, cumuli di macerie materiali e culturali. Territori nemici della nostra civiltà e del nostro progresso. Con queste brutte immagini in testa leggere di Baghdad come della più grande città del mondo, fiorente centro culturale del medioriente, ricco di scienza e di tecnologia, in gran parte ricavate dall'osmosi culturale avuta con la Grecia ellenistica, fa un grande effetto. Certo, sono cose che bene o male si sanno, ma rileggerle ogni tanto fa bene, soprattutto di questi tempi. Il travaso di conoscenze dal mondo greco ellenistico a quello indo-arabo e poi di nuovo verso la nostra civiltà medioevale e rinascimentale alimenta un benefico sentimento di comunione e di profondo rispetto che dovremmo sempre tener presente quando si parla dell'Islam.

Quando al-Khwarizmi scrive i suoi trattati sull'algebra nel nono secolo introduce per la prima volta il concetto di incognita, ovvero di una quantità che rientra nelle relazioni come non specificata, solamente indicata, per poi riuscire a determinarla attraverso passaggi ben definiti e codificati nelle relazioni scritte che formalizzano un problema. L'incognita è designata con il termine al-Shay, che significa la cosa. Un termine alternativo utilizzato è jidhr che significa radice di un albero. Come scrivono gli autori del libro che sto leggendo "il fatto stesso di aver introdotto una parola per indicare ciò che non si conosce permette di utilzzare l'ignoto come se fosse noto, operando con esso come si opera con i numeri conosciuti. [...] Tale termine, nei grammatici contemporanei di al-Khwarizmi, designa 'il più indefinito degli indefiniti', e in teologia al-Shay, attribuito a Dio, rimanda ad una esistenza sicura la cui conoscenza è tuttavia indeterminata".

Quando le opere scientifiche arabe cominceranno ad essere diffuse nel mondo occidentale, in special modo in Italia, attraverso le traduzioni in latino e in volgare, il termine al-Shay verrà tradotto con res e in volgare con cosa, tanto che nel tempo l'algebra sarà anche chiamata in italiano la regola della cosa. L'altro termine invece, jidhr, verrà tradotto con radix e in italiano radice, termine che andrà via via assumendo il significato di soluzione di un'equazione algebrica.

Il trattato di algebra più importante scritto da al-Khwarizmi fra l'813 e l'833 ha il titolo originale Kitab al-jabr wa al-muqabala ed è considerato l'atto di nascita di questa disciplina. Le parole del titolo, al-jabr e al-muqabala, descrivono due procedure di calcolo per semplificare un'equazione algebrica: al-jabr, che significa restaurare, aggiustare, riparare, consiste nell'aggiungere nei due membri dell'equazione uno stesso termine. La parola al-muqabala, che significa confrontare, consiste nel togliere uno stesso termine dai due membri dell'equazione per poterli collocare nella stessa parte. L'algebra non è altro che una serie di al-jabr e al-muqabala su un'espressione che dipende da una cosa allo scopo di determinarne il valore. I due termini il più delle volte non verranno tradotti nelle versioni latine e italiane che si diffonderanno a partire dal medioevo, in particolare il termine al-jabr si trasformerà più volte nelle varie traduzioni fino a stabilizzarsi nel termine algebra.

Tutto questo ce lo hanno insegnato i grandi scienziati dell'Islam. Un po' di rispetto per favore.

sabato 6 gennaio 2018

Commento ad una statistica

Recentemente l'ISTAT ha pubblicato una statistica che vede un aumento medio del reddito degli italiani. Questo aumento medio è però accompagnato da una maggiore sperequazione, ovvero l'aumento non è uniformemente distribuito, è invece significativo solo sullo strato sociale più benestante ("la crescita del reddito è più intensa per il quinto più ricco della popolazione"), e circa un cittadino su tre è a rischio di povertà o esclusione sociale.

Le statistiche sono uno strumento scientifico molto delicato, occorre molta attenzione sia a scriverle che a leggerle. Purtroppo oggigiorno molte statistiche, spesso di dubbia provenienza, possono essere più strumenti di propaganda che scientifici ma questa che sto citando mi sembra si possa dire attendibile, si può accettare come un risultato che arriva da un istituto molto competente. Comunque in questo momento mi interessa di più l'atteggiamento che si può avere nei suoi confronti, dando quindi per scontato che sia una fotografia attendibile della realtà sociale italiana.

Dunque che si può dire di un risultato del genere? Certamente una cosa banale, ovvero che contiene una informazione positiva e una negativa. Il reddito complessivo (medio) degli italiani aumenta, quindi complessivamente (in media) c'è più benessere e questo è positivo, la disomogeneità di questa ricchezza che lascia all'asciutto una fascia sempre più ampia della popolazione è invece un dato preoccupante. Per tutti.

Ora però potrei aggiungere altre considerazioni condivisibili non proprio da tutti.

La crescita economica è un fenomeno di cui sono solitamente responsabili le classi più agiate. Sono loro che hanno comunque la maggiore probabilità di produrre ricchezza, anche se poi sono loro le prime ad usufruirne. Proprio per questo chi è in grado di trainare la ripresa economica non va ostacolato in nessun modo, anzi, possibilmente favorito. La disomogeneità nell'accesso al benessere (a tutti i livelli, da quello nazionale a quello mondiale) è un fatto fisiologico, non solo non è eliminabile ma in un certo senso è auspicabile, almeno fino a che tale disomogeneità non rischia di diventare un problema di stabilità sociale. Quest'ultima viene generalmente assicurata dalla presenza di una larga fascia di classe media relativamente soddifatta del proprio livello di benessere. La fotografia dell'ISTAT non è da vedere come una contrapposizione tra sfruttatori e sfruttati, tra chi è ricco e continua ad avere la possibilità di arricchirsi e chi è povero e rimane irrimediabilmente fuori dalla possibilità di cambiare a breve la sua situazione, ma piuttosto come la convivenza a distanza tra chi è meritevole a vario titolo di gestire le principali ricchezze del paese avendone anche la responsabilità morale di moltiplicarle, e chi viene trainato dallo sviluppo economico e in parte contribuisce ad esso per quel poco che può fare. In questo contesto il concetto di sfruttamento ha paradossalmente anche una sua almeno parziale legittimità. Io so come utilizzare le risorse e lo faccio per aumentare il benessere anche a scapito di chi comunque non saprebbe fare quello che faccio io.

Il cuore della società (nazionale o mondiale), il suo motore, è costituito da chi detiene le ricchezze e più facilmente di qualsiasi altro può contribuire alla crescita che, in media, sarà quella di tutta la società. Questo motore va protetto, protetto anche da "invasioni esterne" che iniettano "siringhe" di povera gente a cui rendere conto, che finiscono per erodere non tanto la ricchezza delle classi alte quanto ovviamente quella delle classi medie, generando pericolosa instabilità sociale, dannosa per tutti. Da un certo punto in poi il modello sociale non può che essere "noi da una parte, voi dall'altra", troppo pericoloso (o semplicemente utopico) mettere tutto assieme e tener conto delle necessità e dei diritti di tutti. Chi sta dalla parte sbagliata deve essere "tenuto a bada" o "tenuto lontano", cosa sempre più difficile se i rapporti numerici esplodono (questa è la vera preoccupazione). L'ideale sarebbe tenere questi fenomeni sociali necessari sotto controllo, magari "puntellati" attraverso un massiccio uso dei meccanismi della beneficienza e dell'elemosina, che fa sempre contento chi è dalla parte giusta, e male non fa.

Bene, mi sono sforzato di descrivere quella che secondo me è una visione di destra della società (non la mia).

Avere una visione della società è secondo me in generale una cosa buona. Soprattutto nella politica. Il compito dei politici nei confronti dei cittadini sta proprio nell'interpretare una visione della società e tradurla in provvedimenti, leggi, governo, ecc. Una visione della società io la chiamerei anche ideologia, mi pare un termine abbastanza corretto ("complesso di idee proprie di un gruppo sociale, che costituisce la base di un movimento o partito politico"). Il terreno più appropriato per un dialogo vero tra cittadini e rappresentanti politici a me sembra essere proprio quello ideologico, e questo descrivere la nostra società come post-ideologizzata, dove destra e sinistra non hanno più senso mi suona sempre di più come uno dei fattori principali dello scollamento tra elettori e classe politica. Il superamento delle ideologie, il fare le cose non di destra, non di sinistra, ma fare le cose giuste e fatte bene, i governi tecnici che prendono provvedimenti necessari, tutto questo mi sembra devastante per la politica. La politica ridotta a soluzioni tecniche dei problemi (su cui, proprio per il loro carattere tecnico, dovremmo tutti essere d'accordo), in cui l'unica vera difficoltà è l'efficienza, diventa una politica gestibile da algoritmi. Stiamo andando in questa direzione? Forse in parte è già così, vista l'influenza dei meccanismi finanziari, largamente governati da sistemi automatici, nei giochi politici di tutto l'occidente. E' il caso di sottolineare che gli algoritmi sono oggetti tecnologici per loro natura nascosti all'utente finale, ovvero al cittadino.