venerdì 27 dicembre 2013

Conformismo

In seguito ad un episodio molto simpatico di adolescenti che decidono di "protestare" contro il conformismo della società presentandosi a scuola in pigiama, e aiutato dal fatto che mi trovo a passeggiare per le strade di Milano da solo, comincio ad interrogarmi su quanto è reale il rischio di essere conformisti in molti atteggiamenti e pensieri della vita quotidiana. Intanto di che cosa sto parlando? L'episodio del pigiama mi aiuta fino ad un certo punto anche se devo ammettere che gli adolescenti, per il fatto che hanno appena cominciato ad osservare il mondo e hanno ancora intatta tutta la loro carica di stupore, riescono ad essere stimolanti. Quello che si intuisce facilmente è che l'uscire di casa solo a condizione di "conformarsi" ad un certo modo di vestire non sembra essere la forma di conformismo peggiore, anzi la chiamerei convenzione sociale.

Direi che per conformismo si può intendere l'atteggiamento che porta ad uniformare il proprio pensiero a quello degli altri, senza lo sforzo di un'elaborazione personale, dunque senza una scelta. Questa capacità di elaborazione personale è innanzitutto stimolata dall'ambiente educativo (e in massima parte proprio negli anni dell'adolescenza) ed è poi supportata in modo decisivo dalla possibilità/volontà di essere adeguatamente informati. E' soprattutto per questo che la gestione "opportuna" della formazione e dell'informazione è sempre stata un importante strumento di potere, in quanto permette di costruire un pensiero uniforme, o di "scoraggiare" forme di pensiero libero, che poi è la stessa cosa.

Se poi si sono avuti tutti gli strumenti e le possibilità di analizzare una cosa che fanno tutti, come vestirsi in un certo modo prima di uscire di casa, e si sceglie alla fine di farlo, direi che semplicemente si accetta una convenzione sociale, e uscire di casa in pigiama perde un po' della sua ipotetica carica anticonformista. Se lo si fa a quindici anni però va bene, ed è certamente meglio di non essersi mai posti il problema.

Probabilmente il conformismo è un comportamento del tutto naturale per l'uomo, alimenta il senso di appartenenza ad un gruppo sociale e propaga velocemente modelli di pensiero, specie se questi partono da una fonte riconosciuta come socialmente autorevole. Può essere inteso come un vero e proprio elemento naturale di stabilità sociale. Il libero pensiero invece tende a creare diversificazione, e inevitabilmente destabilizza. E' il motore che può far trovare percorsi nuovi ad un gruppo sociale.

A questo punto mi sembra quasi di poter fare un'analogia con l'evoluzione del mondo biologico, in cui i meccanismi interni che lo producono sono proprio la propagazione della copia fedele delle informazioni (la conservazione) e la comparsa casuale delle mutazioni (l'innovazione), a loro volta propagate grazie al primo meccanismo. Però questi due elementi sono in stretta relazione tra loro ed entrambi importanti, ognuno con il suo compito positivo. Forse con questa analogia un po' azzardata sto dando a quello che chiamo conformismo un valore immeritato. O no? Forse il conformismo, presente in una dose opportuna, è fisiologico in una società che voglia sopravvivere? Ma allora la libertà di pensiero, che penso sia un valore assoluto per l'individuo, la si può considerare tale anche per l'intera società? Beh, una cosa è abbastanza certa: ciascun individuo è nella sua vita un esempio di tutte e due le cose, anche contemporaneamente.

giovedì 24 ottobre 2013

La "mancanza di fascino" della Scienza

Due elementi che secondo me rendono poco affascinante la Scienza a molte persone che si trovano volenti o nolenti a studiarla in qualche periodo della loro vita sono:
1. la descrizione di aspetti "troppo particolari" del mondo,
2. la potenziale "rivedibilità" di tutti i suoi risultati.
Nel primo caso a domande del tipo "in quanto tempo si ferma un grave che scivola su un piano in presenza di un determinato attrito" si vorrebbe rispondere "ecchissenefrega". Dalla Scienza si vorrebbero sempre grandi domande e soprattutto grandi risposte. Nel secondo caso seppure si possono ottenere certe volte dalla Scienza anche grandi risposte queste non sono mai definitive, sono sempre "falsificabili", e agli occhi di molti rischiano sempre di sfumare in semplici opinioni.

A questo proposito riporto due interessanti affermazioni intorno alla Scienza, ciascuna focalizza uno degli elementi poco affascinanti che ho riportato sopra e lo presenta come un punto di forza del processo di ricerca scientifica, un suo elemento caratterizzante e imprescindibile. La prima  (già in parte riportata in un mio post precedente) è di François Jacob, premio Nobel per la medicina nel 1965, la seconda è di Telmo Pievani, storico della Scienza.

«Probabilmente è un’esigenza della mente umana avere una rappresentazione del mondo unificata e coerente. Se manca, compare l’ansia e la schizofrenia. E bisogna pur riconoscere che in fatto di unità e di coerenza la spiegazione mitica vince di molto su quella scientifica. La scienza, infatti, non mira subito a una spiegazione completa e definitiva dell’universo. Opera soltanto localmente. Procede con una dettagliata sperimentazione su fenomeni che riesce a circoscrivere e definire. Si accontenta di risposte parziali o provvisorie. Magici, mitici o religiosi che siano, gli altri sistemi di spiegazioni invece abbracciano tutto, sono applicabili ad ogni campo, e danno conto dell’origine, del presente e persino del futuro dell’universo. Si possono rifiutare i sistemi di spiegazione offerti dai miti o dalla magia, ma non si può negar loro unità e coerenza perché, senza la minima esitazione, essi rispondono a ogni problema e risolvono ogni difficoltà con un unico e semplice argomento a priori. A prima vista, la scienza sembra meno ambiziosa del mito per i problemi che si pone e le risposte che cerca. In realtà, la nascita della scienza moderna è databile dall’epoca in cui alle questioni generali si sono sostituiti problemi limitati; e invece di chiedersi: “Come è stato creato l’universo? Di che cosa è fatta la materia? Qual è l’essenza della vita?”, ci si è domandati: “Come cade una pietra? Come scorre l’acqua in un tubo? Come circola il sangue nel corpo?”. Questa sostituzione ha avuto un risultato sorprendente: mentre le questioni generali ricevevano solo risposte parziali, le questioni limitate portavano a risposte sempre più generali. E questo è valido ancora anche per la scienza odierna». (François Jacob)

«Asserire che le conoscenze scientifiche sono costantemente rivedibili non significa [...] degradarle a mere opinioni. E' semmai il contrario: se un programma di ricerca è adottato dalla comunità scientifica significa che funziona, che ha resistito finora ai tentativi di falsificarlo. Dunque, per quanto sia sottoposto a incessanti revisioni, quel complesso di acquisizioni è corroborato e attendibile, proprio perchè falsificabile. [...] La falsificabilità è, in ultima istanza, un codice di comportamento basato sulla trasparenza, sulla revisione dei pari e sulla costante auto-correzione dei propri modelli». (Telmo Pievani)

domenica 13 ottobre 2013

Frequentazioni utili

Trovo sempre utile parlare con gli insegnanti, probabilmente perché mi interessano i loro argomenti. Ultimamente in una breve discussione con loro mi ha colpito un'affermazione su come si insegna la matematica in certi tipi di scuole secondarie, molto netta (e per questo mi ha colpito) ma riportata da addetti ai lavori di cui non ho motivo di dubitare. Pare che i programmi di matematica per alcuni licei (tra quelli nuovi tirati fuori dall'ultima riforma) debbano essere svolti escludendo sistematicamente tutte le dimostrazioni delle affermazioni che si insegnano. Inquietante.

Beninteso, molte dimostrazioni, specialmente quelle di carattere troppo tecnico, sarebbero un inutile appesantimento al programma e credo anche che nell'insegnamento della matematica si debba prevalentemente far leva sull'immaginazione e sull'intuito, capacità fondamentali per questa disciplina (come per tutte le discipline scientifiche). Ma l'esclusione sistematica dei procedimenti dimostrativi toglie un pezzo sostanziale allo studio, conducendo facilmente (e pericolosamente) al rischio di ridurre tutto a nozioni disconnesse, regolette mnemoniche e algoritmi per svolgere esercizi. Affrontare qualche dimostrazione (e ce ne sono di semplici, belle e non tecniche) fa capire nell'unico modo efficacie possibile come si combinano l'intuito e l'immaginazione con i vincoli del procedimento logico-deduttivo, un rapporto fecondo tra capacità essenziali della mente umana da cui scaturisce tutto lo sviluppo della matematica.

Ne va della comprensione della matematica come "fatto di cultura", cruciale nella formazione di uno studente. A questo proposito nell'ambito della stessa discussione è stato fatto un esempio significativo, che mi pare si colleghi in modo quasi immediato al pericolo appena paventato. Le stesse persone che si dimostrano in grado di risolvere equazioni algebriche ed eseguire studi di funzione rispondono in modo inesatto (in una buona percentuale di casi) a questioni tipo: "dato un numero di dieci cifre indicare la posizione delle decine di migliaia". Detto così risulta una cosa sconcertante (e magari, spero, è stata portata come un esempio un po' forzato) ma ribadisce in modo chiaro il pericolo di trasformare studenti di matematica della scuola secondaria in meri esecutori di algoritmi (in un'era, peraltro, dominata dall'informatica!).

Il rischio, forse troppo apocalittico ma non del tutto campato in aria, è quello di costruire nel tempo una società in cui scompaiono progressivamente le conoscenze matematiche dalla cultura media delle persone a fronte di una loro concentrazione in un ristretto ambito di specialisti. Sapendo quanto queste conoscenze risultino cruciali per una società tecnologicamente avanzata, la cosa mi provoca una certa inquietudine.

lunedì 30 settembre 2013

Bug-free software

Quando si scrive un programma per computer si può incorrere in due tipi di errori: quelli di sintassi e quelli logici. I primi vengono rilevati direttamente dal compilatore poichè quest'ultimo (si tratta di un altro programma) non riesce ad applicare le sue regole di traduzione in codice eseguibile dalla macchina. I secondi invece vengono regolarmente tradotti dal compilatore ma portano a comportamenti non previsti e in particolare molti di essi possono portare ad una interruzione imprevista o ad uno stallo del processo di calcolo. Un esempio di un errore di sintassi potrebbe essere una parentesi aperta in un punto del codice e mai chiusa, oppure semplicemente una parole chiave del linguaggio scritta male. Un esempio di errore logico potrebbe essere una divisione per zero o l'ingresso in un ciclo di calcolo infinito. Molti errori logici si rivelano solo con particolari dati in ingresso al programma.

Anni fa mi è capitato di sentire più di una volta l'espressione categorica "non esistono programmi senza errori", oppure "non è possibile scrivere programmi che siano esenti da qualsiasi errore", "scrivere software senza bug è impossibile". Ma non è chiaro cosa questo voglia significare. Voglio dire: è chiaro che è possibile scrivere programmi esenti da errori, cioè programmi il cui comportamento è esattamente quello previsto. Non saranno particolarmente interessanti ma si possono scrivere. Dunque queste frasi o non hanno senso oppure il loro senso va precisato in qualche modo (ma rimane il fatto che sia io a non aver mai capito bene la questione, o che non ci abbia mai riflettuto abbastanza, almeno fino a questo momento).

Credo di aver trovato questa precisazione in un libro letto recentemente, o perlomeno certe osservazioni del libro mi sono suonate come precisazioni interessanti di questa idea vaga persa nella mia memoria, che quindi mi è apparsa come una specie di detto popolare con un qualche fondamento (del tipo "rosso di sera bel tempo si spera").

La precisazione è la seguente: "non può esistere un programma (un algoritmo) che sia sempre in grado di decidere se, dato un certo programma con certi dati in ingresso, quest'ultimo andrà in crash o in hang per qualche errore oppure no, per qualunque programma fornito". In altre parole sebbene esistano programmi che aiutano più o meno efficacemente il programmatore a fare il cosiddetto "debugging" di un suo programma, o più in generale il testing, questa attività rimane in parte legata all'abilità dello stesso programmatore, non potendo essere completamente automatizzata attraverso un qualche algoritmo efficiente al 100%. Terminata una fase di test nessuno mi assicura, per quanto il lavoro possa essere stato accurato, che il mio programma sia stato emendato completamente da tutti i suoi possibili errori. Si tratta di un risultato di carattere generale che ricorda molto da vicino il famoso "problema dell'arresto" il quale, detto in breve, afferma che stabilire se l'esecuzione di un programma termina a fronte di un input arbitrario e' un problema indecidibile (Alan Turing, 1936).

Quindi è possibilissimo scrivere software senza bug, quello che è impossibile è avere un procedimento generale (magari di tipo algoritmico) in grado di dimostrarcelo per qualunque software.

Nota: devo ammettere che, con il senno di poi, se si cerca un po' meglio in rete si trova spesso la frase, enunciata a volte come un principio della programmazione, che dice: "è impossibile dimostrare l'assenza di bug in un programma"; inoltre nella trattazione del problema generale del testing si incontra inevitabilmente la famosa tesi di Dijkstra: "Testing shows the presence, not the absence of bugs" (Dijkstra, 1969).

Nota2: se si scrive un programma che fa uso ad esempio di una procedura di calcolo che non è quella voluta dal programmatore (che dunque avrà sbagliato a scriverla) ma che appare del tutto legittima sono in presenza di un bug oppure semplicemente di un altro programma? Dal punto di vista teorico sembrerebbe essere semplicemente un diverso programma (a cui non posso applicare il risultato della teoria). Dal punto di vista pratico è certamente un bug che in qualche fase di testing dovrà essere messo in evidenza.

martedì 10 settembre 2013

Argomenti sottratti alla società

L'accaduto è circa il seguente: una lite cruenta avvenuta in una strada del bergamasco tra un gruppo di connazionali indiani è terminata con l'uccisione di uno di essi. In questo assassinio è rimasta coinvolta un medico italiano capitata per puro caso in quel momento e fermatasi a prestare soccorso. Muore anche lei, investita insieme alla vittima (già picchiata selvaggiamente in precedenza e riversa a terra sulla strada) dall'automobile degli aggressori.

Sul "giornale" La Padania questa notizia compare in prima pagina, con una foto gigante della strage e con il titolo a caratteri cubitali: "Sulla strada dell'integrazione". Altri commenti riportati sono del tipo: "Salvini: «in Italia non c'è posto per un immigrato in più»". Si aggiungono poi le solite dichiarazioni di stile del vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli: «Chi ha commesso un delitto del genere non è un uomo ma una bestia, e come tale va trattato»; «Le bestie feroci, le belve, vanno rinchiuse subito in gabbia e bisogna buttare via per sempre la chiave»; «A fronte di episodi del genere, che vedono l'assassinio premeditato anche di un soccorritore, c'è da riflettere sul fatto che sia stata opportuna o meno l'abolizione della pena di morte» (Il Messaggero online).

Sarà mai possibile aprire un dibattito serio sull'immigrazione in Italia con questa gente? Quello dell'immigrazione/integrazione è un problema complesso e importante, dalla sua corretta gestione (la sua eliminazione è cosa ovviamente impossibile) dipende buona parte del nostro futuro. Ma per affrontare un problema complesso serve un confronto tra visioni magari anche molto diverse ma tutte guidate da una forma di pensiero intelligente.

Mancano i prerequisiti, come sempre. Dialogo tra destra e sinistra? Argomento sottratto alla società da politici che da tempo non rappresentano più idee di un qualche tipo. Dibattito sui possibili futuri dell'economia? Argomento sottratto alla società da politici che si sfidano quotidianamente sull'inutile questione dell'IMU si o no, per mesi e mesi. Confronto su questioni istituzionali e sulla legge elettorale? Argomento sottratto alla società da politici che fanno melina. Questioni di bioetica, di libertà personali, forme di convivenza tra cittadini, laicità dello stato? Argomenti sottratti alla società da politici asserviti per convenienza alla Chiesa Cattolica. Problema della gestione dei flussi migratori in Italia e in Europa? Argomento sottratto alla società da "politici" beceri e incivili che intervengono sempre e comunque a gamba tesa, puntuali e sempre più veloci di qualsiasi considerazione intelligente.

Sembra di stare in uno di quegli assembramenti di persone in cui, una volta intavolato un qualunque argomento serio, trovi sempre quei due o tre stronzi che con una serie di osservazioni inutili, banali e fuori luogo ti mandano in vacca tutta la discussione, per quanto tu abbia la buona volontà di continuarla. E alla fine te ne vai incazzato, cercando di pensare ad altro.

domenica 1 settembre 2013

Un "moderno" capo tribù

In un paese campano ho avuto un casuale e brevissimo incontro con il parroco. Non ho potuto fare a meno di notare che le persone del gruppo di cui facevo parte si rivolgevano a lui dandogli del voi, mentre lui usava più semplicemente il tu. Ciò non era senz'altro dovuto a questioni di differenza di età poiché eravamo tutti grosso modo coetanei. Il prete si permetteva un tono molto colloquiale anche con chi conosceva poco ed in particolare con me (che non conosceva affatto) se ne è uscito con un "ciao guaglio' ...".

Il linguaggio usato, i comportamenti e gli atteggiamenti (apparentemente secondari) espressi nel corso della breve chiacchierata sottolineavano secondo me in modo molto naturale delle precise posizioni di potere nell'ambito del gruppo. E' il caso di notare che le persone che stavano con me non brillavano certo per un'ortodossa condotta di vita cristiana (persone non sposate con figli, tanto per fare un esempio). Evidentemente una cosa è quello che predica il prete "nel suo ruolo" e una cosa è la vita reale. Ma questo come al solito sembra ben tollerato e anche trascurato da chi rappresenta la chiesa. Sembra che la vita reale delle persone non sia poi così importante (è più il "ruolo" che conta).

Ma che cosa vuole il prete dalla sua comunità di cristiani? E cosa chiedono le persone di questa comunità al loro parroco?
La parrocchia in questione, come molte in quella zona, è capace di spendere 10000 € per corredare la festa del santo patrono da fuochi pirotecnici. Anche qui è il caso di notare che la festa commemora un personaggio storicamente molto incerto se non addirittura completamente infondato il cui simulacro, simbolo unificante del paese, viene custodito in chiesa dal parroco. Ma quel simbolo è la divinità a cui l'intero paese raccomanda il proprio destino, e il parroco è il suo tramite. Non esiste un evento civile altrettanto forte e aggregante per la comunità e non esiste un cittadino altrettanto autorevole e rappresentativo come il parroco. Il parroco mantiene e gestisce la principale identità culturale del paese. E questo effettivamente può essere percepito come un fatto importante dai cittadini.

I riti propiziatori alle divinità mantengono unita la tribù e la legano ad un unico destino. Lo stregone che officia i riti della tribù ha in essa un posto molto speciale.



domenica 25 agosto 2013

Una serata all'Opera

Qualche tempo fa ho assistito alla rappresentazione della Traviata di Giuseppe Verdi fatta all'Arena di Verona nell'ambito dei festeggiamenti per i 100 anni della sua apertura. Gli spalti erano suddivisi, come sempre succede in questi casi, in fasce di prezzo che andavano dalle oltre 200 € delle poltronissime di platea alle 27-30 € delle gradonate non numerate. Ovviamente questo determina immediatamente una altrettanta suddivisione tra il pubblico più facoltoso e meno facoltoso (come succede più o meno sempre).

Quello però che mi colpiva era il fatto che questa suddivisione era particolarmente marcata e ben visibile, come probabilmente non mi era mai capitato in altre occasioni. In particolare la platea era un'esibizione di vestiti da sera, dove camerieri impeccabili servivono lo champagne direttamente agli spettatori delle prime file, mentre le gradonate non numerate, tenute ben separate e sorvegliate dal personale durante gli intervalli, erano frequentate da vocianti venditori di bibite, gelati e depliant sullo stile di quello che si vede durante le partite di calcio. La cosa risultava piuttosto fastidiosa, almeno per me, e non mi sembrava di ricordare un analogo in altre manifestazioni musicali, per esempio non all'Auditorium di Roma, dove pure ovviamente i posti sono suddivisi in fasce di prezzo.

Per darmi una qualche spiegazione mi è venuto in mente che il teatro musicale, almeno quello italiano, probabilmente ha avuto sempre questa caratteristica, e la conserva tuttora, almeno nei teatri più tradizionali. Una caratteristica diversa da quello che si vede alla tradizionale prima del Teatro alla Scala di Milano (fuori dal teatro molto più che dentro), dove l'alta borghesia italiana mostra i denti e attesta in modo ostentato la sua presenza (e potenza) nella società. Più che altro si tratta invece della convivenza nello stesso ambiente culturale di fasce sociali ben distinte (anche fisicamente distinte all'interno del teatro). Questo è presumibilmente il riflesso di una peculiarità storica del teatro musicale italiano che in una certa misura sopravvive tuttora, quella cioè di essere un fenomeno culturale di ottimo livello (fatto da gente colta e preparata) ma al contempo molto popolare, trasversale su tutte le fasce sociali.

Mio padre e mio zio, provenienti da una famiglia di bassa estrazione sociale, non avevano nessuna preparazione musicale specifica ma conoscevano molto bene il teatro musicale (in particolare quello italiano) e nel primo dopoguerra frequentavano regolarmente i teatri musicali romani (Teatro dell'Opera, Terme di Caracalla, ecc.). Nell'attesa dello spettacolo mi sono soffermato ad ascoltare incuriosito due signori di cui quello visibilmente più anziano raccontava come lui era cresciuto in famiglia recitando e cantando insieme agli altri membri della sua famiglia le parti salienti e più belle di molte opere della tradizione operistica italiana (come ad esempio quella che ci apprestavamo ad ascoltare). Lo stesso Giuseppe Verdi, il più illustre e famoso esponente di questa stagione musicale italiana, ha un'estrazione sociale popolare e contadina, ben sottolineata in tutte le sue biografie.

Un fenomeno culturale di massa prima della vera e propria cultura di massa veicolata dai moderni mass media.

venerdì 5 luglio 2013

Una buona chiave

Non è una questione di fare soldi, o di averne abbastanza; concetto peraltro molto ambiguo nel caso dei soldi. Non è neanche esattamente una questione di fare le cose che piacciono, anche se in questo secondo caso ci stiamo andando molto vicino. E' che può essere troppo semplicistico metterla in questi termini.

Credo che sia soprattutto una questione di avere la testa e il tempo per rendere il più possibile belle tutte le cose che facciamo, che inevitabilmente in parte abbiamo scelto in modo più o meno consapevole e deliberato e in parte ci sono capitate, senza voler dare a quest'ultimo aspetto un valore negativo.

Non è una cosa facile, ma a me sembra una buona chiave.

lunedì 10 giugno 2013

Siamo tutti fratelli

Questa frase, tante volte detta nella storia dell'uomo, in varie occasioni, contesti, culture, religioni, ha per me un'evidenza biologica prima ancora che morale. La "fratellanza" di tutti gli essere umani e più in generale di tutti gli esseri viventi è un aspetto naturale messo in luce in modo spettacolare dalle scienze biologiche di questi ultimi due secoli. Le cose che accomunano tutti, ma proprio tutti gli esseri viventi della biosfera sono parecchie, significative, e alcune anche piuttosto facili da elencare.

Le basi chimiche: sebbene i processi chimici che sovrintendono le tante funzioni biologiche siano in numero enorme ed in genere estremamente complessi, i materiali di base (gli elementi) che elaborano sono sempre gli stessi e di fatto relativamente pochi. Le molecole cosiddette "organiche" sono tutti composti centrati sul carbonio che includono quasi esclusivamente ossigeno, idrogeno e azoto. Nessun organismo vivente conosciuto (terrestre) fa eccezione a questa semplice ma spettacolare osservazione.

Il codice genetico: la quantità di informazione che ogni essere vivente conserva e passa alle generazioni successive (con un certo tasso di errore, decisamente provvidenziale per creare quella stupefacente diversità biologica che in genere rende ben evidenti le differenze esistenti nel vivente, mascherandone la sostanziale unità) è codificata esattamente allo stesso modo per tutti gli organismi della terra.

L'interdipendenza: specialmente nelle forme viventi superiori è molto forte il concetto di individualità, per cui il mondo vivente può essere percepito come una collezione di individui dotati ognuno della propria indipendenza. Tuttavia non ha alcun senso pensare all'esistenza biologica di un solo singolo individuo senza collegarlo alla moltitudine di tutti gli altri individui che popolano il pianeta con lui e alla moltitudine di tutti gli individui che lo hanno preceduto. Un qualunque organismo vivente attuale esprime di fatto un'istanza particolare del vivente, pensato come un'unica e particolarissima manifestazione della natura che è accaduta e tuttora accade in un tempo e un luogo specifici dell'universo.

domenica 26 maggio 2013

Verità e dimostrabilità

Kurt Gödel (1906-1978) passa per il più grande logico della storia insieme ad Aristotele. Mentre però Aristotele si studia regolarmente nella secondaria superiore (almeno credo) e tutti più o meno hanno un'idea di che cosa sia un sillogismo, Gödel non fa ancora parte del bagaglio culturale medio, nonostante i suoi risultati più importanti risalgano ormai a circa ottanta anni fa. Effettivamente il contenuto del suo articolo principale "On formally undecidable propositions of Principia Mathematica and related systems" (1931) è molto complicato, roba per tecnici, ma esistono molti modi (e molta letteratura) per esemplificare questo contenuto senza banalizzarlo, e sforzarsi di farlo è anche divertente. In questo post cerco di descrivere questi risultati senza neppure accennare a come ci si arriva (magari quest'ultima cosa in un altro post).

Un sistema formale si compone di:
1. un vocabolario - un catalogo completo dei segni che si usano nel calcolo.
2. una grammatica - le regole di formazione che stabiliscono quali delle combinazioni possibili dei segni del vocabolario sono formule, cioè quali stringhe di simboli sono ben formate e quali invece sono mal formate.
3. le inferenze - le regole di trasformazione (o regole di inferenza) che permettono di derivare stringhe ben formate da altre stringhe ben formate (teoremi).
4. gli assiomi - costituiscono il fondamento dell'intero sistema. Sono proposizioni primitive, vere per assunzione, punto di partenza per derivare qualsiasi altra formula.
In un sistema formale così definito un teorema è una qualsiasi formula che possa essere dedotta dagli assiomi applicando successivamente le regole di inferenza.

Riconosciamo intuitivamente che i concetti che definiscono un sistema formale sono quelli tipicamente utilizzati dalla matematica (nelle sue varie discipline). Inoltre è interessante notare che in questo contesto il concetto di verità ha una natura convenzionale e tutta interna al sistema formale stesso: sono vere tutte le formule ben formate (sintatticamente corrette) e sono veri gli assiomi (per definizione). Il concetto di verità non è rimandato al confronto con una qualche realtà esterna. Osserviamo anche che tutto quello che si può creare in questo sistema sono nuovi teoremi. In realtà verrebbero scoperti, dal momenti che sono già contenuti tutti nelle ipotesi e di queste sono conclusioni logiche necessarie. Infine è notevole il fatto che la questione dei contenuti sia irrilevante (da qui il termine sistema formale). Come mi è capitato di leggere da qualche parte "la validità delle dimostrazioni matematiche riposa sulla struttura delle affermazioni, piuttosto che sulla natura particolare del loro contenuto".

Un sistema formale ha due aspetti interessanti:
1. la coerenza - un sistema formale è coerente quando è non-contraddittorio, cioè quando in esso è impossibile, usando le regole di trasformazione, dedurre dagli assiomi una certa formula e insieme anche la sua negazione.
2. la completezza - un sistema formale è completo quando ogni verità logica esprimibile mediante il vocabolario del calcolo è anche un teorema. In un sistema del genere ogni teorema è una formula (stringa ben formata) ma è anche vero il viceversa, cioè ogni formula è un teorema, ogni formula è deducibile dagli assiomi usando le regole di inferenza. Gli assiomi sono completi, ovvero sono sufficienti a generare tutte le formule del sistema.

In altre parole dato un sistema formale come lo abbiamo definito sopra è lecito chiedersi se i teoremi che si possono dedurre non arriveranno mai a contraddirsi e se ogni cosa vera è anche dimostrabile. Ovviamente tutto ciò che è dimostrabile nel sistema è anche vero, nel senso che tutte le formule deducibili dagli assiomi (veri per definizione) saranno appunto formule, cioè stringhe di simboli del vocabolario sintatticamente corrette, dunque vere.

Quali sono i risultati di Gödel?
Il primo teorema di incompletezza afferma che se il sistema formale è non contraddittorio, quindi se è coerente, allora esiste un enunciato che non è dimostrabile in esso, ma tale che anche la sua negazione non è dimostrabile. Un enunciato del genere si dice indecidibile. Il sistema formale si dice perciò incompleto, o deduttivamente incompleto.
Il secondo teorema di incompletezza afferma che, se un sistema formale è non contraddittorio, allora l'affermazione della sua non-contradditorietà, posto che si possa scriverla, o trovarne una traduzione equivalente nel linguaggio del sistema formale stesso, non è dimostrabile nello stesso, e non è neanche refutabile, cioè è essa stessa un esempio di enunciato indecidibile.

I teoremi di Gödel pongono un limite generale al concetto di dimostrabilità. Affermano l'esistenza di formule vere non dimostrabili, e dunque l'irriducibilità della nozione di verità a quella di dimostrabilità.

"Negli ultimi secoli si era creato un diffuso convincimento che tacitamente supponeva che ogni settore del sapere matematico potesse essere corredato da un insieme di assiomi sufficienti per sviluppare sistematicamente l'infinita totalità delle proposizioni vere nell'ambito di una data area di ricerca. Il lavoro di Gödel ha dimostrato che questa ipotesi è insostenibile." (Nagel e Newmann)



sabato 4 maggio 2013

L'invenzione della scrittura e la nascita della Storia


Nei manuali della scuola elementare di mio figlio si fa giustamente coincidere l'inizio della Storia dell'uomo (e la fine della preistoria) con l'invenzione e la diffusione della scrittura. L'idea principale è che solo attraverso la pratica della scrittura l'uomo ha cominciato a lasciare dietro di se delle fonti di informazione tali da poterci permettere oggi una ricostruzione sufficientemente dettagliata delle civiltà che si sono susseguite. La ricerca storica propriamente detta si avvale principalmente di fonti scritte.

Questa idea però mi sembra insufficiente a render conto dell'importanza dell'invenzione della scrittura e del  concetto di "inizio della Storia". L'impatto dell'introduzione della scrittura nella storia culturale della specie umana è veramente enorme. Il fatto che questa abbia tecnicamente permesso la storiografia è solo una delle conseguenze, per quanto importante.

Un elemento tanto ovvio quanto fondamentale della scrittura credo sia quello di aver trovato un modo per archiviare in forma permanente una mole considerevole di informazioni con un grado di dettaglio assolutamente impensabile fino a quel momento. La cosa a cui non avevo mai pensato (anche questa piuttosto ovvia) è che attraverso questa soluzione tecnica è stato possibile per l'uomo sviluppare tutta una serie di attività che diversamente non sarebbero mai diventate come le conosciamo oggi, e molte non sarebbero mai esistite. L'impatto della scrittura è visibile praticamente ovunque, in qualsiasi attività umana.

Ma la cosa più impressionante è accorgersi che la scrittura è una forma di pensiero. Pensare scrivendo è diverso che pensare e basta. Leggere e pensare è diverso che parlare e pensare. L'invenzione della scrittura ha probabilmente modificato in modo radicale e definitivo il nostro modo di ragionare oltre che il nostro modo di comunicare. Le grandi invenzioni tecnologiche hanno sempre trasformato la vita dell'uomo, il suo modo di pensare, la sua visione del mondo. La scrittura è una di queste. E dire che si tratta "semplicemente" di una tecnologia. Forse la prima grande tecnologia di elaborazione dell'informazione. Credo sarebbe molto interessante studiare l'evoluzione della scrittura, dal disegno all'astrazione dei pittogrammi fino all'invenzione potente dell'alfabeto.

Qualunque uomo costruisce una sua visione del mondo e la condivide con gli individui della sua stessa tribù. Ma attraverso la scrittura l'uomo ha "cominciato a scrivere la sua Storia", e con essa ha definito il concetto di Umanità e l'ha messa in relazione con il mondo.

venerdì 26 aprile 2013

E' tutta colpa di ...

Berlusconi entra in politica nel 1994 per costruirsi da solo una copertura politica alle proprie non sempre limpide attività personali, all'indomani della rovinosa caduta ad opera di tangentopoli di quella classe politica che fino ad allora lo aveva aiutato. La sua abilità fu quella di presentarsi all'opinione pubblica come un uomo di successo essenzialmente estraneo agli ambienti corrotti della politica italiana appena smascherati dall'azione giudiziaria della magistratura. Ottenne questo facendo leva su valori "estranei" alla politica, si propose alla scena politica come "non politico". Propose il modello del "partito-azienda". Propose l'idea che per governare un paese non servono politici, persone senza meriti acquisiti "sul campo" e quindi sostanzialmente incapaci, ma imprenditori, gente "del fare", gli unici in grado di mandare avanti in modo efficiente l'Italia, così come le proprie aziende.

E' necessario per questo un partito politico? No, è sufficiente un consiglio di amministrazione, un'oligarchia di gente capace a cui il paese deve affidarsi. E' necessaria una visione coerente della società che si vuole costruire? No, un'azienda non ha questi obiettivi, semplicemente si muove dentro la società, ne fa un uso strumentale a proprio vantaggio, coglie tutte le occasioni possibili per aumentare il proprio grado di successo, e lo fa anche in modo incoerente, spregiudicato. E i termini destra e sinistra? Ecco appunto, sono dei termini, servono per definire il campo di gara, per distinguere se stesso dal competitor, non ci devono essere idee troppo caratterizzate dietro, sarebbero perlopiù di intralcio. E la democrazia? Perbacco, un'aziende non si regge in piedi se cede troppo ai pareri di tutti, la partecipazione ampia alle decisioni è un modello insostenibile, l'operaio è operaio, l'impiegato è impiegato, pensare che abbiano parte attiva alle decisioni dell'azienda è da comunisti.

E la giustizia? Beh, questo è un altro discorso. E' sempre stato un altro discorso. Le regole andrebbero rispettate anche dalle aziende, ma qualche volta non lo si è fatto. Qualche volta Berlusconi non lo ha fatto. E questo "qualche volta" è sufficiente per essere costretti a sorvolare su tutto. Su tutto e su tutti. Non conviene ravanare su queste cose. La questione della giustizia va congelata a data da destinarsi, con tutti i mezzi possibili. Punto. E poi parliamoci chiaro: i meriti di un grande imprenditore, di un grande "produttore di ricchezza" della nazione, giustificano pure qualche scorrettezza, senza la quale un uomo di valore non riuscirebbe ad esprimersi al massimo delle sue potenzialità. Le regole sono briglie per le persone capaci.

Questo è il modello politico e culturale proposto a suo tempo da Berlusconi. E purtroppo è un modello che per chi sta al potere è estremamente conveniente e che per questo nella nostra classe politica ha attecchito in modo sorprendente. Sarebbe un modello da combattere sia da destra che da sinistra, ma a destra c'è un drammatico vuoto di intelligenza politica (da cui chissà quando ci riprenderemo), e la sinistra in tutti questi anni purtroppo non è riuscita a trovare la forza morale di distinguersi in maniera compatta da questa melassa di pseudo cultura politica, degenerata e degenerante. Questa incapacità la sta portando ad una crisi profonda.

E adesso abbiamo Grillo-Casaleggio e il Movimento 5 Stelle (e il tormentone del "tutti a casa"), ultimo rametto impazzito di questo cespuglio della seconda Repubblica.

domenica 3 febbraio 2013

Perchè la matematica


Che differenza c'è tra un tecnico che usa, configura e gestisce tutti i giorni i protocolli internet e chi a suo tempo li ha progettati? Che differenza c'è tra chi configura tutti i giorni ambienti di virtualizzazione e chi progetta un hypervisor? Che differenza c'è tra chi conosce le tipiche porte TCP da utilizzare nei filtri del traffico di rete e chi ha ideato e testato gli algoritmi che permettono il controllo di flusso e di congestione di questo stesso traffico?

In altre parole, che differenza c'è tra il mio meccanico sotto casa che mi rimette a posto l'automobile e un progettista della Ferrari? Sicuramente quest'ultimo non mi sa riparare l'automobile. Quindi non ha più conoscenze del mio meccanico, ha conoscenze diverse. E in cosa consistono queste diversità? Qual'è il punto più importante che distingue queste due conoscenze (entrambe con la loro utilità)? Su che cosa ha puntato il progettista della Ferrari rispetto al mio meccanico?

Credo che la risposta sia semplice: la teoria, le conoscenze scientifiche, l'apparato strumentale della matematica. In particolare quest'ultima cosa, la conoscenza degli strumenti matematici, fa la differenza.

Mio zio non ha avuto la possibilità di studiare molto. Per professione e per passione faceva il tecnico. Gli oggetti più frequenti con cui aveva a che fare nel suo lavoro erano circuiti stampati che realizzavano varie funzionalità. Questo prima e durante la diffusione massiccia dei circuiti integrati nel mercato dell'elettronica. Una volta non so per quale motivo (ma spesso non c'erano veri motivi) mi parlava dei tempi di carica e scarica di un condensatore e di come secondo lui questo fenomeno avveniva. Ricordo di aver osservato con chiarezza che gli mancava il linguaggio matematico corretto e che questo gli impediva letteralmente di arrivare a descrivere con precisione il fenomeno. Ricordo anche che sì stupì molto quando con pochi passaggi gli scrissi l'andamento esatto della funzione di carica (è un semplice esercizio di fisica generale), che guarda caso dava risultati numerici in linea con i suoi "dati sperimentali". Non ci sarebbe potuto arrivare, non aveva gli strumenti matematici appropriati. Senza di essi la sua elettronica era monca, nonostante la sua curiosità e la sua passione. Togli il pezzo, metti il pezzo, comprane un altro, sostituiscilo. Armamentario che gli permetteva di risolvere brillantemente un gran numero di problemi ma che lo costringeva ad avere una conoscenza complessivamente modesta della sua materia.

La società ovviamente ha bisogno sia del meccanico sotto casa che del progettista della Ferrari, sia del tecnico che ripara un computer sia di chi progetta una qualsiasi tecnologia informatica (tra cui il computer). Ma quando si dice che in Italia la ricerca scientifica e tecnologica non è adeguatamente finanziata nonostante la sua importanza si parla dei secondi e non dei primi.

E' vero che la conoscenza dell'inglese è fondamentale nella società moderna, e indubbiamente i nostri bambini la dovranno coltivare, ma se puntiamo solo su quella un giorno potranno emigrare in un paese di lingua anglosassone per andare a vendere i panini al McDonald. Non possiamo diventare un paese di camerieri esterofili che comprano telefonini. La tecnologia del futuro la farà chi avrà coltivato le conoscenze matematiche (e scientifiche in generale), gli altri faranno gli operai della tecnologia o i semplici utilizzatori finali. Questo sta già succedendo.

lunedì 21 gennaio 2013

Lavorare meno, lavorare tutti?


"Lavorare meno, lavorare tutti" è uno slogan che nel passato mi ha affascinato ma credo che oggi non lo posso più accettare come qualcosa che abbia dietro un'idea di società funzionante. Rimane uno slogan vuoto da tirar fuori ogni tanto per rimarcare un difetto reale del nostro mercato del lavoro, quello che costringe al superlavoro una percentuale minoritaria di persone competenti. Nel passato (e forse un po' ancora oggi) il superlavoro qualificato è stato alimentato (e celebrato) da modelli culturali discutibili. Ma lo slogan di cui sopra non ha speranza di risolvere il problema.

Lavorare bene, giustificare il proprio stipendio all'interno del sistema produttivo in cui si opera, a qualunque livello, dal negozietto alla grande azienda, dare al proprio lavoro la qualità che merita. E ricevere il giusto compenso per quello che si fa. Anche questi sono valori importanti, per l'individuo e per la società di cui fa parte. Il lavoro è uno di quei valori fondanti di una società (non a caso ce lo abbiamo nella Costituzione) per cui andrebbe sempre usato il doppio termine "diritto/dovere". Se chiunque ha il diritto di lavorare ha anche il dovere di farlo al meglio delle sue possibilità. E la società glielo deve riconoscere. Questo è il meccanismo su cui la società dovrebbe puntare.

Troppo spesso mi è capitato di verificare a vari livelli che la qualità del lavoro non venga sufficientemente riconosciuta, non solo economicamente ma neanche come fatto moralmente e culturalmente importante. Credo che in Italia purtroppo le competenze tecniche elevate risultino troppo spesso perlopiù inutili dal punto di vista professionale. Nel senso che troppo spesso se sei mediocre, bravo o bravissimo può non fare una grossa differenza ai fini della collocazione professionale, della soddisfazione, del riconoscimento e, ovviamente, dello stipendio. Questo significa non solo aver costruito un sistema produttivo e un mercato del lavoro dove il merito non viene considerato come dovrebbe ma che addirittura il sistema può ragionevolmente essere definito "de-meritocratico", in cui il merito risulta essere addirittura un fatto sconveniente.

Il nostro sistema produttivo è adatto a figure mediocri che occupano un posto, svolgono mansioni di routine, di tipo burocratico, dove la responsabilità di quello che si fa è sistematicamente mascherata o mascherabile, insomma non in evidenza. Le persone che attualmente hanno meno problemi sono queste, sebbene la crisi stia probabilmente cambiando in parte le cose, e questo è forse il suo unico aspetto positivo. Effettivamente si tratta di un aspetto culturale profondo che probabilmente solo una crisi profonda del sistema potrebbe cambiare. Ed è un aspetto che viene colto bene solo da chi tenta di lavorare con un alto livello di qualità e professionalità.

Non so se il concetto di "mercato" sia criticabile e se è possibile una società diversa, ma sta di fatto che almeno in Italia probabilmente il problema peggiore è che questo concetto è stato applicato troppo raramente. Una buona parte di "professionisti" e "imprenditori" per anni hanno lavorato, e continuano a farlo, non con le regole del mercato ma attraverso una rete di "amicizie" e di rapporti (ruffiani) di potere che hanno l'effetto di mettere in un piano di assoluta trascurabilità la qualità delle vere e proprie prestazioni professionali. Questa cosa è talmente diffusa che forse risulta anche impossibile per molti evitarla.

Lo slogan "lavorare meno, lavorare tutti" non contiene un elemento che per me è diventato essenziale: la qualità del nostro lavoro. Dunque non lo posso accettare. Anzi, il valore di uguaglianza a cui questo slogan punta (e che lo rende affascinante) gli dà purtroppo un contenuto di irrealtà evidente (che me lo rende fastidioso). Non si può distribuire il lavoro in egual misura, indistintamente, perchè non si può tradurre il lavoro in "ore lavorative". Forse tutto questo conserva un senso ben preciso solo nelle grandi fabbriche, e solo per le figure professionali di minor qualifica. Ma di questi ambienti non ho esperienza.

domenica 13 gennaio 2013

Caso e superstizione


Il caso è un concetto che ha due caratteristiche interessanti: si è inserito in maniera sempre più pervasiva nello sviluppo della scienza moderna ed è estremamente ostico da digerire.

Il caso è entrato nella descrizione di tantissimi fenomeni fisici, il concetto di probabilità si è dimostrato un concetto estremamente fecondo e il calcolo delle probabilità è oggi presente in quasi tutti i campi della fisica. L'approccio probabilistico ha dato frutti notevoli ogni volta che la descrizione deterministica non era più praticabile, soprattutto nell'affrontare la modellizzazione di fenomeni complessi, quelli con un elevato numero di gradi di libertà. Il caso entra non solo nella trattazione statistica dei fenomeni complessi ma anche in quella di tutti i fenomeni quantistici, quindi nella chimica come nella biologia.

Tuttavia il caso è anche un concetto che ci appare infecondo, privo di significato, poco interessante, e questo probabilmente perché non si lega ai meccanismi di causa-effetto che hanno da sempre giocato un ruolo principale nella nostra comprensione del mondo. Noi tendiamo ad associare qualunque evento ad una qualche causa. E' un istinto molto forte e antico che probabilmente genera in noi il concetto di destino e ispira le concezioni finalistiche del mondo.

Molto probabilmente questo istinto oltre a renderci inaccettabile il concetto di caso è anche alla base di molti atteggiamenti superstiziosi, dove per superstizione si intende la tendenza ad associare coppie di eventi attraverso relazioni di causa-effetto che non hanno nessun fondamento razionale.

E' molto interessante constatare che questa cosa è probabilmente una caratteristica non solo umana, bensì condivisa anche da altre specie (dunque un istinto ancestrale). Tempo fa un mio amico mi ha raccontato di un esperimento fatto con i piccioni, facilmente reperibile su Internet, che rende esplicito proprio questo fatto. L'esperimento mostra il seguente risultato, curioso e istruttivo: se si apre un varco per il cibo in conseguenza di un preciso comportamento (tipo "sbattere le ali") il piccione impara e lo ripete ogni volta che vuole ottenere cibo. Se invece gli si apre il varco a caso il piccione tende a ripetere il primo comportamento avuto casualmente all'apertura del varco (tipo "sbattere le ali") e ogni volta che riottiene casualmente questa coincidenza rafforza questo suo comportamento "superstizioso".

giovedì 3 gennaio 2013

I logaritmi del sor Pompilio


Era un periodo in cui passeggiavamo spesso sotto casa. A volte incontravamo il sor Pompilio, un nostro vicino, un anziano signore che conosceva i nostri genitori. Lo salutavamo e qualche volta facevamo due chiacchiere di circostanza. Una di queste volte ci fa una domanda strana: "Ma voi che studiate, mi sapreste dire che cosa sono i logaritmi? E a che cosa servono?". Noi effettivamente all'epoca studiavamo, eravamo due liceali, avevamo già avuto a che fare con i logaritmi, ma francamente non sapevamo come rispondergli, e a dir la verità la cosa ci appariva piuttosto comica. Il bello è che questa situazione se non ricordo male si ripropose più di una volta e noi ovviamente, sebbene ci divertissimo, non abbiamo mai soddisfatto questa sua curiosità.

Adesso provo a spiegare al sor Pompilio cosa sono i logaritmi e a cosa servono, sebbene per lui questa mia spiegazione arrivi in netto ritardo ...

Supponiamo che si debba moltiplicare 100 per 1000. Come si impara già dalle scuole elementari questa cosa si può fare molto facilmente contando gli zeri dei due numeri e sommandoli, il risultato sarà 100000. Supponiamo invece di dover dividere 100000 per 100. Anche in questo caso trovare il risultato è semplice, basta fare la differenza degli zeri. Si può esprimere questa cosa più efficacemente attraverso le potenze: 10^2*10^3=10^5 per la moltiplicazione e 10^5/10^2=10^3 per la divisione. In altre parole per moltiplicare si sommano gli esponenti, per dividere si sottraggono; in tal modo si riduce una moltiplicazione in una somma e una divisione in una differenza. Gli esponenti che stiamo sommando o sottraendo si dicono "logaritmi" dei numeri che moltiplichiamo o dividiamo.

Si può provare a generalizzare in questo modo: supponiamo di dover moltiplicare due fattori qualsiasi A e B. Possiamo pensare di rappresentarli attraverso due opportune potenze di 10 e scrivere: A*B=10^a*10^b=10^(a+b). Analogamente per la loro divisione. Abbiamo così ridotto il calcolo di una moltiplicazione/divisione di una qualunque coppia di numeri in quello di una addizione/sottrazione dei loro logaritmi. Se riuscissimo a scrivere tutti i numeri (o quasi tutti i numeri) come potenze di una base scelta (ad esempio il 10) avremmo un vero e proprio strumento di calcolo. Questo strumento è esistito e si chiamava "tavola dei logaritmi" (e consentiva di calcolare facilmente anche potenze e radici). Se poi addirittura riuscissimo a costruire delle aste scorrevoli con scale graduade in cui ogni numero è espresso con un segmento proporzionale al suo logaritmo avremmo una calcolatrice che moltiplica e divide semplicemente sommando o sottraendo segmenti. Questa calcolatrice è esistita e si chiamava "regolo calcolatore" (e permetteva di calcolare anche quadrati, cubi, radici, potenze, funzioni trigonometriche, ecc.).

I logaritmi, sebbene abbiano attualmente innumerevoli applicazioni in tutte le discipline scientifiche, come strumento di calcolo sono stati completamente superati dal calcolo automatico digitale odierno. Ma hanno assistito le capacità di calcolo manuali dell'uomo dal momento della  loro prima introduzione nel 1614 ad opera di John Neper (Giovanni Nepero) fino agli anni in cui il sor Pompilio era un ragazzo come lo eravamo noi all'epoca della sua curiosa domanda.