sabato 27 agosto 2022

La pubblicità "autorevole" di un dentifricio

In questo ultimo periodo ho notato in televisione uno spot pubblicitario curioso. Si tratta di una banale pubblicità ad un dentifricio ma concepita come un "consiglio" dato da una scienziata. Formule pubblicitarie simili sono abbastanza frequenti, fanno leva sull'autorità più o meno riconosciuta della scienza (anzi, forse finché ci saranno pubblicità di questo tipo significherà che la scienza è ancora considerata un'istituzione autorevole, anche se sempre più incomprensibile). Ma la cosa curiosa è che la "scienziata" che spiega le importanti caratteristiche del prodotto uscito dai suoi laboratori ha un chiaro accento anglosassone, pur parlando in italiano. Non può essere un caso. L'autorevolezza viene amplificata dal fatto che il tutto sembra uscir fuori da un'intervista ad un qualche laboratorio scientifico americano. Ma perché questo? Perché nel nostro immaginario lo sviluppo scientifico e tecnologico è associato inevitabilmente alla società americana? 

La risposta è tristemente semplice, ed è strettamente legata al periodo europeo del nazifascismo. Chi conosce un po' di storia della scienza sa che fino ai primi del novecento questa era un grande patrimonio culturale europeo (con l'Italia già un po' indietro, per altri motivi storici più antichi e per specifici problemi politici e culturali). Ma il nazifascismo, prima perseguitando i dissidenti, poi scagliandosi contro gli ebrei, infine portando tutta l'Europa nella tragedia della seconda guerra mondiale, ha causato una vera e propria diaspora di scienziati e intellettuali. Questi non potevano trovare altro approdo che negli Stati Uniti, che hanno saputo accoglierli adeguatamente dando loro fiducia e mezzi. Nel giro di pochi anni gli Stati Uniti sono diventati dei leader mondiali nella scienza e nella tecnologia. Per i decenni successivi se volevi essere informato e informare i cittadini dei progressi scientifici dell'umanità dovevi prendere l'aereo ed andare oltreoceano. Quante interviste abbiamo visto in televisione fatte da Piero Angela a scienziati e professori del MIT di Boston (il mitico MIT!) o della NASA o di diversi altri istituti, università e laboratori scientifici degli USA?

La tragedia culturale dell'Europa di quel periodo (certamente non la tragedia più grave purtroppo) sta tutta in questo aneddoto: "Ai nazisti c'erano volute poche settimane per trasformare Gottinga, la culla della meccanica quantistica, da una grande università in una istituzione di secondo ordine. Il ministro nazista dell'istruzione chiese a David Hilbert, il più celebre matematico di Gottinga, se fosse vero 'che il suo istituto [aveva] tanto sofferto con la partenza degli ebrei e dei loro amici'. 'Sofferto? Non è che abbia sofferto, signor ministro", rispose Hilbert, 'non esiste più'" (Manjit Kumar, "Quantum").


lunedì 22 agosto 2022

Visite ai musei

Questa estate ho visitato diversi musei, in particolare uno dei più importanti d'Europa, il museo del Prado, a Madrid. Mi sembra evidente però che in genere i musei, soprattutto quelli importanti, cioè quelli famosi e ricchi di opere, non siano fatti per la fruizione da parte degli utenti di cultura media, che però ne sono i principali frequentatori. Si passeggia all'interno delle grandi sale guardando in modo inevitabilmente distratto un catalogo immenso di opere eterogenee, su cui peraltro non vengono quasi mai riportate informazioni se non le classiche "titolo-autore-anno", in modo volutamente asettico. Le eventuali audioguide di cui spesso ci si può dotare sono sempre didascaliche, inutilmente particolareggiate e tremendamente noiose, quasi sempre incapaci di catturare l'interesse di chi le ascolta.

Il risultato di queste visite è una generale stanchezza che sopraggiunge ben prima di aver terminato la visita e la sensazione di non riuscire ad imparare granché. Questo probabilmente si scontra con il messaggio retorico di essere entrati in un tempio delle arti figurative da cui uscire con chissà quale ricchezza. Un'esperienza complessivamente deludente e anche un po' frustrante. Ho la presunzione di pensare che queste considerazioni, forse un po' estreme, siano però più o meno condivise con diversi livelli di consapevolezza dalla maggior parte dei visitatori. D'altra parte si tratta proprio di una questione banalmente fisiologica, che non può che essere condivisa. Si è costretti in poco tempo ad elaborare una quantità di informazioni ben al di sopra delle possibilità di chiunque. 

Eppure i visitatori di questi musei sono tanti. Penso che quello che muove la maggior parte di noi sia il fatto di andare a vedere le "opere famose", cioè quelle che già si conoscono, una cosa che nell'epoca della riproducibilità delle immagini risulta essere poco più che inutile. In pratica si tratta di un atteggiamento classificabile come pregiudizio di conferma se non addirittura come una forma di feticismo, che non è quasi mai un'acquisizione di nuove conoscenze o di nuove esperienze artistiche. E forse non è quest'ultima cosa che stimola il turista medio alla visita, forse sarebbe troppo faticoso, non compatibile con una gita turistica. Invece la passeggiata alla ricerca delle opere famose (quelle viste e riviste un po' dappertutto) appaga sufficientemente e magari permette anche di riportare a casa un po' di materiale culturale a buon mercato, "argomenti di conversazione" (parafrasando una nota battuta di un film di Verdone).

Le visite ai grandi musei in tutto il mondo sono una forma di turismo che serve per testimoniare uno status culturale di buon livello. Il cittadino della classe media cerca di distinguersi dai suoi pari almeno sul piano culturale. E realizza questo suo obiettivo non facendo esperienze culturali reali (qualunque esse siano) ma acquistando un prodotto culturale, che in certe occasioni può anche essere esibito. Una forma di consumismo.