giovedì 31 dicembre 2020

No-Vax e individualismo

"Il vaccino non può essere obbligatorio, ma vogliono far passare il messaggio che chi non si vaccina è un pericolo per la collettività. Ma se uno si vaccina dovrebbe essere protetto di fronte a uno che non si vaccina. Quindi qual è il pericolo per la società?"

Leggo questa frase su un social. Non è la prima parte che mi interessa, credo che sia meglio che il vaccino anti-covid rimanga non obbligatorio e non chiamerei uno che non si vaccina un pericolo per la collettività. E' la seconda parte a farmi pensare, quella che ho riportato in corsivo. C'è dentro un cazzo di individualismo che faccio fatica a sopportare. E' un pensiero che tradotto suona così: "Chi si vuole vaccinare lo faccia così si protegge di fronte a chi non si vaccina, e non rompa i coglioni agli altri". Ognun per sè, la società è fatta di individui che scelgono per quello che gli conviene secondo le proprie personalissime convinzioni. Se poi i vaccinati sono 10 o 10 milioni non è un elemento significativo e quindi non viene neanche discusso. Perchè evidentemente non è significativo qualcosa che ha un impatto sulla società nel suo insieme. In effetti posso anche essere l'unico che si vaccina, ottengo comunque il mio risultato personale, perchè devo rompere le scatole agli altri?

Questa cosa che la società non sia altro che una massa di coglioni eterodiretta e che un comportamento sociale sia solo un appecoronamento è un atteggiamento che ogni volta che lo osservo mi inquieta. Peraltro, anche se apparentemente sembrerebbe un argomento scollegato, io trovo che questo atteggiamento possa produrre comportamenti antiscientifici o addirittura contrari alla costruzione di qualunque sapere razionale. La conoscenza, e in particolare la conoscenza scientifica, è una costruzione sociale basata sulle competenze di una minoranza di specialisti che dibattono sui problemi e convergono sui risultati e sulla fiducia in loro riposta da una maggioranza di persone in grado di avere un sufficiente grado di comprensione del mondo in cui vivono.

Criticare la società in cui si vive è essenziale ed è prerogativa di qualunque cittadino libero. Ma dare valore solo ai propri obiettivi personali è antisociale. E' come se la storia della nostra conoscenza, togliendoci progressivamente il gusto dell'antropocentrismo, ci abbia lasciato solo quello dell'egocentrismo. Ma questo secondo me porta ad un eccesso di individualismo che favorisce agglomerati umani sempre più ignoranti, antidemocratici e antiscientifici.


martedì 29 dicembre 2020

Negazionismo e individualismo

Mi domando se per caso il negazionismo, inteso in senso generale, nelle sue varie forme così come si incontra ai tempi nostri, sia in qualche modo legato all'individualismo.

Il negazionismo è in genere la tendenza a distanziarsi dalle opinioni correnti espresse tipicamente da componenti ufficiali della società, per abbracciare teorie più o meno improbabili raccolte da pochi individui (che si presentano come outsider) e amplificate oggi dai social, mezzi di comunicazione di massa in cui si può esprimere direttamente il singolo.

Secondo me questa tendenza esprime (tra le altre cose) il desiderio di distinguersi da ciò che la società ci dice, attraverso le sue varie istituzioni, da quelle scientifiche a quelle politiche, e di avere una voce più personale. Un atteggiamento, anche solo psicologico, con cui il singolo emerge dalla comunità e trova una sua individualità. Abbandonare un pensiero comune (definito solitamente come mainstream) significa quasi sempre "aprire gli occhi", "ragionare di testa propria", non farsi abbindolare, in poche parole essere indipendente.

In questa logica la società è vista sempre come un sistema di potere manipolante, mai come una comunità a cui si può appartenere, condividendone il pensiero e la costruzione delle conoscenze. Questo ovviamente crea a volte delle situazioni contraddittorie, conseguenza del fatto che in realtà l'individuo nella società ci sta eccome.

L'individualismo si può esprimere in modo passivo come indifferenza alle questioni del tuo gruppo sociale, ma anche forse in modo attivo, come contrapposizione e distanziamento dalla maggioranza passiva e "condiscendente" a quello che la società imporrebbe loro.

venerdì 25 dicembre 2020

Natale in casa Cupiello

Un paio di settimane fa con l'avvicinarsi del Natale mi è tornata in mente la bellissima commedia di Eduardo che tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta la Rai mandava in onda sistematicamente ogni anno. Si trattava di una registrazione fatta proprio dalla Rai nel 1977, interpretata da un cast eccezionale (Eduardo De Filippo, Pupella Maggio, Luca De Filippo, Gino Maringola, Lina Sastri, Marina Confalone), e che appartiene ai ricordi della mia infanzia. In quegli anni era talmente scontata la messa in onda di questa commedia che da allora praticamente ad ogni Natale mi torna in mente.

Quest'anno però, con l'aiuto del servizio di streaming on line della Rai me lo sono andato a cercare per rivederlo e tra l'altro ho anche scoperto che di edizioni televisive di questa commedia ne esistono addirittura due, quella che ricordo io a colori e una precedente, del 1962, in bianco e nero.

Natale in casa Cupiello è un vero capolavoro, sia il testo teatrale in sè che l'interpretazione che ho visto tante volte grazie a questa famosa registrazione. Racconta tutto quello che c'è di buono e di cattivo in una famiglia che si riunisce in quella che da sempre è in un certo senso proprio la sua festa. Un ritratto universale della famiglia, delle sue incomunicabilità, della sua retorica, delle sue verità nascoste, dei suoi dolori e insieme dei suoi grandi legami di affetto viscerali. Un monumento.

Certo, l'interpretazione è talmente caratteristica e con un livello di recitazione così alto che è difficile separarla dal testo teatrale. Non viene neanche da pensare che possa essere reinterpretato in altro modo. Non mi è venuta neanche la curiosità di andare a vedere l'altra interpretazione, sempre di Eduardo, del 1962. Un fenomeno di "cristallizzazione" dell'evento artistico consentito ormai da tempo dalle tecniche di registrazione. Se non avessimo avuto la possibilità di registrare quella e altre commedie di Eduardo avremmo perso un grande patrimonio artistico, che molti altri in futuro potranno apprezzare. Testimonianze artistiche da conservare come si è sempre fatto.

Ma qualche giorno fa su raiplay è comparso (massicciamente pubblicizzato) un nuovo adattamento televisivo della commedia di Eduardo, questa volta non una recitazione in presa diretta ma registrata e montata quasi come un film, con tanto di colonna sonora originale (Enzo Avitabile). La regia è di Edoardo De Angelis e il cast comprende Sergio Castellitto, Marina Confalone, Adriano Pantaleo, Tony Laudadio, Pina Turco, Alessio Lapice, Antonio Milo.

Il fenomeno di cristallizzazione di cui parlavo prima si fa sentire subito alla prima reazione istintiva. L'unico vero "Natale in casa Cupiello" è quello di Eduardo, tentare una diversa interpretazione è quantomeno discutibile, se non peggio. L'effetto "mostro sacro" induce immediatamente il pregiudizio. Ho notato che sui social lo spettro degli atteggiamenti era più o meno sempre condizionato in tal senso. Prevedibile. E banale.

Fatto sta che il nuovo adattamento televisivo è bello, fatto bene, la messa in scena in modo diverso e non inutile di un grande testo teatrale. E questo mi ha fatto riflettere un pochino sull'arte. Almeno su alcune forme d'arte, quelle per cui ha senso il concetto di "interpretazione", di interazione diretta col pubblico, che può sfociare anche in momenti irripetibili di improvvisazione. L'arte che ha un "tempo di esecuzione". Parlo del teatro e della musica (includendo anche la danza). Non credo che il cinema sia da annoverare tra queste forme d'arte, sebbene anche dei film si possano fare i cosiddetti "remake", ma non mi sembra che questa sia una caratteristica così importante dell'arte cinematografica.

Un testo teatrale può e deve essere reinterpretato continuamente, credo che sia nella natura di questa forma d'arte. Andare in scena è la normalità. Tra l'altro è proprio il valore di un testo che lo predispone a tante diverse interpretazioni. Inoltre il testo può essere riadattato, rielaborato, integrato usando anche l'arte dell'improvvisazione. Perchè no? Lo stesso vale per la musica scritta. Credo che le tecnologie di registrazione, sebbene abbiano dato la grande possibilità di produrre documenti artistici duraturi, abbiano anche un po' indebolito questa concezione "viva" e "fisica" delle arti da palcoscenico. Davvero non ha senso fruire il teatro e la musica solo attraverso le registrazioni, per quando famose e di grande valore. Si perdono pezzi essenziali di queste forme d'arte. Si finisce forse per non capirle.


domenica 20 settembre 2020

Un gesto di disperazione

A me sembra evidente che una riforma costituzionale che abbia come unico risultato quello di ridurre il numero dei parlamentari sia una cosa che, se va bene, non serve a niente e se va male potrebbe portare problemi istituzionali da risolvere. Che la voti a fare una cosa che non serve a niente e che per giunta modifica alcuni articoli della Costituzione?

Pensare che questa riforma porti maggiore efficienza nei lavori del parlamento mi sembra proprio ingenuo. L'efficienza del parlamento nel legiferare si misura casomai sulle procedure dei lavori parlamentari. Puntare sul risparmio che si ottiene è semplicemente ridicolo. I conti parlano abbastanza chiaro.

Rimane negli elettori la solita motivazione: dammi la possibilità di cacciare un po' di politici, quali che siano, e di risparmiarci sopra un po' di soldi, non importa quanti; dammi 'sta soddisfazione e io ti voto la "riforma". Penso che questo referendum esprima un gesto di disperazione della nostra società, e una sua incapacità ormai cronica di immaginare una politica degna di questo nome.

Tre osservazioni mi preoccupano. I politici che più sostengono questa riduzione dei parlamentari la giustificano con motivazioni che, anche se dette in altri termini, sono sostanzialmente quelle che ho scritto sopra, nulla di più. L'efficienza del parlamento di cui si parla viene collegata semplicemente alla riduzione del numero di chi decide; meno persone decidono, meglio è. La riduzione dei parlamentari è giustificata sotto sotto dalla convinzione che i politici sono dei lupi e i cittadini i loro polli.

Ma se i cittadini la pensano così, o hanno dimenticato cosa sia la democrazia, o non lo hanno mai saputo, o non ci credono più. Perlomeno a me pare evidente che da tutto ciò emerga una generale sfiducia nella democrazia, nei tradizionali meccanismi democratici e di rappresentanza politica. Questi segnali della società, messi insieme alla attuale crisi delle politiche comunitarie e delle collaborazioni internazionali dall'emergere dei vari "sovranismi", che poi non sono altro che i vecchi nazionalismi, non mi raccontano niente di buono per il prossimo futuro.

lunedì 31 agosto 2020

Immuni e individualismo

Ammetto di aver installato l'app Immuni con un certo ritardo dalla sua uscita. Diciamo cha la motivazione principale è stata la pigrizia. Questa "pigrizia" però evidentemente sta caratterizzando il comportamento della maggior parte degli italiani dal momento che Immuni ha avuto fino ad ora scarso successo.

Io penso da tempo che una delle caratteristiche principali delle nostre società (non solo quella italiana) sia il forte individualismo e ora credo che l'insuccesso di Immuni abbia a che fare più con questo che con la pigrizia.

Perchè dovrei installare Immuni? Ci sono sostanzialmente due ragioni per farlo.

La prima è questa: nel momento in cui mi scopro positivo al virus posso avvisare le autorità sanitarie e con loro informare i server del servizio sanitario nazionale in modo che tutti i cittadini che recentemente sono venuti a contatto ravvicinato con me siano tempestivamente avvisati dall'applicazione. Embè? Perchè dovrei farlo? C'è il tampone per capire se si è positivi. Ci sono i primi sintomi. C'è bisogno anche di me? Nel momento in cui mi scopro positivo ho già i miei problemi.

La seconda è la sua complementare: l'applicazione può avvisarmi nel caso io sia venuto a contatto recentemente in maniera continuativa con cittadini positivi al virus. E allora? A quel punto dovrei andare dal mio medico? Senza sintomi? Dovrei forse fare il tampone? Per sicurezza? Con tutto quello che ho da fare? Perchè mi dovrei complicare la vita?

L'obiettivo principale dell'applicazione non è quello di proteggere il singolo individuo, è quello di proteggere la società (di cui il singolo individuo ovviamente fa parte), tracciando nella maniera più efficiente e veloce possibile la diffusione del virus. L'oggetto è la comunità nel suo complesso, questo è il problema.

Evidentemente per la maggior parte di noi il concetto di comunità è diventato troppo astratto e sfumato, tanto da far prevalere su di esso la nostra naturale pigrizia (e tutta una serie di sciocchi timori che la puntellano). Leggi anche indifferenza.

martedì 4 agosto 2020

La misura del tempo

La settimana scorsa abbiamo festeggiato gli 88 anni di mia madre. Le ho regalato un libro, non so bene di che cosa parli perché non l'ho letto, spero di aver indovinato e che le piaccia. Io l'ho scelto soprattutto per il titolo (oltre che per il fatto che è uscito da poco e che è stato un finalista al premio strega di quest'anno): "La misura del tempo" (di Gianrico Carofiglio). Mi sembrava azzeccato per una persona che il tempo lo dovrebbe misurare con attenzione, e a suo modo ne parla spesso ("fino a qui ci sono arrivata, poi chissà ..."). Anche se mio fratello giustamente mi ha fatto notare che forse, in questi ultimi anni la mamma non misura più tanto bene il tempo, visto che la percezione del tempo nella vita di una persona è sempre basata sulla memoria del suo vissuto, e questa da un certo punto in poi fa strani scherzi, rende incerta anche la semplice cronologia degli eventi.

Ho detto a mia madre che i suoi anni sono tanti quanti i tasti di un pianoforte. Un modo forse divertente per quantificare visivamente gli anni di una persona. Nessuno dei suoi nipoti ha superato le prime due ottave. Poi pensandoci ho realizzato che io ho già consumato tutti i miei tasti bianchi e un paio di tasti neri, anche se nell'arco della vita espressa dalla tastiera di un pianoforte i tasti neri sono ancora un 41% circa.

Qualche anno fa è morto Oliver Sacks. Recentemente mi è capitato di leggere il suo ultimo libro, "Gratitudine", una raccolta di quattro saggi molto brevi ma molto intensi, che il medico e scrittore ha composto nell'ultimo periodo della sua vita, quando era già malato e prossimo alla fine. Il terzo saggio si intitola "La mia tavola periodica" e racconta della sua abitudine a rappresentare la sua età con gli elementi chimici, ad ogni anno l'elemento chimico con il corrispondente numero atomico. Sulla sua scrivania era poggiato da una parte un campione di bismuto, l'elemento 83, che non ha mai raggiunto ("penso che, in un modo o nell'altro tenere vicino a me l'83 ispiri speranza e infonda coraggio"), e dall'altra un pezzo di berillio, l'elemento 4 ("sta lì a ricordarmi di quando ero bambino, e di quanto sia lontano l'inizio della mia vita, ora prossima alla fine").

Mia madre è arrivata al Radio, importantissimo elemento chimico, da cui deriva il termine radioattività e che portò Marie Curie al suo secondo premio Nobel (1911). Regalarle un campione di radio sarebbe stato certamente più originale del libro, ma un tantino pericoloso.

Io sono arrivato allo Xenon, gas nobile.

P.S.: 88 è anche il numero delle costellazioni della sfera celeste :-)

martedì 2 giugno 2020

Perchè il Rinascimento?

Questa mattina, mentre stavo finendo di leggere un libro, sento per caso mio figlio che chiede alla mamma perché c'è stato il Rinascimento. Più esattamente il dubbio era che cosa ha causato quel processo storico da noi chiamato Rinascimento. Una bella domanda, che chi studia la Storia, sempre piena di classificazioni per ragioni di comodità, si dovrebbe sempre fare. A maggior ragione per un periodo storico così importante e rivoluzionario. Non sempre questo tipo di domande vengono stimolate dalla didattica. Un periodo con un nome così famoso esiste e basta, fino al punto da sembrare più reale dei fatti storici stessi. In un contesto del genere può risultare difficile porsi "all'esterno" delle tradizionali classificazioni della disciplina e farsi delle domande sulle ragioni delle trasformazioni storiche che determinarono un periodo così diverso dai precedenti tanto da meritare, a posteriori, un nome tutto suo. Qualche volta sarebbe buona cosa ricordare che la società del Rinascimento non sapeva di "stare nel Rinascimento".

Il caso ha voluto che mentre ascoltavo questa domanda stessi leggendo un passaggio di un libro che faceva l'elenco delle principali innovazioni dell'umanità che hanno determinato cambiamenti repentini nello storia. L'elenco era il seguente (in ordine cronologico): il linguaggio, l'agricoltura, i metalli, la scrittura, le banche, l'industria, la medicina. Ovviamente si può essere più o meno d'accordo sulle voci di questo elenco ma credo che nessuna di esse risulterebbe strana ad una prima lettura. Tranne una, le banche. Ed effettivamente anche il testo la sottolineava come insolita ma la giustificava subito dopo proprio come l'innovazione da cui scaturisce il Rinascimento.

Fornire come causa principale del Rinascimento la nascita delle banche è una cosa insolita (almeno per me), e probabilmente in realtà stiamo parlando di una delle cause, non l'unica. Però è anche vero che gli istituti di credito (una forma di usura regolamentata), una volta entrati stabilmente nel tessuto sociale sono in grado di trasformarlo rapidamente. Si tratta certamente di una modifica del sistema economico in grado di fornire un grande dinamismo sociale, finanzia attività commerciali e imprenditoriali e arricchisce la società in modo trasversale. Ha cioè la capacità di intercettare i talenti e il "saper fare" molto meglio della società del periodo precedente, ben più chiusa nelle gerarchie e nei privilegi aristocratici ed ecclesiastici. Favorisce in un modo mai visto prima la circolazione del denaro e dà la possibilità a larghi strati della popolazione di arricchirsi intraprendendo attività produttive.

In una società dove la ricchezza è molto più disponibile e prevalentemente in mano a persone capaci è più facile promuovere attività di lusso (ad esempio l'arte), è più facile e naturale scovare talenti dove sono, in modo quasi indipendente dall'estrazione sociale. Se molti grandi personaggi del Rinascimento fossero vissuti in epoche precedenti sarebbero stati semplici servi della gleba. Nasce un sapere più pratico e conseguentemente una mentalità più critica nei confronti dei saperi del passato, fino a quel momento semplicemente custoditi e poi invece utilmente rielaborati in nuove forme di conoscenza.

Mio figlio voleva evitare di dire (non gli suonava bene) che il Rinascimento nasce ad opera di alcuni mecenati (tipo Lorenzo de Medici) che di punto in bianco decidono di far lavorare tanti importanti ingegni dell'epoca. Dalla nostra discussione siamo riusciti a tirar fuori qualcosa di meglio.

domenica 10 maggio 2020

Degenerazioni umanistiche

Un po' perchè siamo in quarantena per un'epidemia, un po' perchè ultimamente è stato più volte intervistato a questo proposito dai telegiornali della Rai, sono andato a rileggere alcuni passaggi del bel saggio di Alessandro Vespignani "L'algoritmo e l'oracolo". Vespignani è un professore di fisica e informatica alla Northeastern University di Boston, uno degli scienziati più quotati nel campo della teoria delle reti e della complessità. Ovviamente italiano emigrato, laureatosi all'Università "La Sapienza" di Roma qualche anno prima di me con il prof. Luciano Pietronero che in quegli anni insegnava (anche a me) Fisica dei Solidi.

Il libro parla delle capacità predittive che l'elaborazione statistica di grandi quantità di dati, insieme ad algoritmi appropriati, ha fornito a scienziati e ingegneri di tutto il mondo in questi ultimi anni. La capacità di raccogliere grandi quantità di dati su vari aspetti che riguardano la vita dell'uomo è una conseguenza dell'infrastruttura di rete informatica globale nata alla fine degli anni sessanta e che ha ormai raggiunto una capillarità elevatissima e su piani diversi della comunicazione: prima l'e-mail e il Web sui computer desktop, poi le apps (chat e social) sugli smartphones fino alle potenzialità del cosiddetto IoT (Internet of Things), dove qualsiasi dispositivo può essere collegato alla rete e comunicare dati.

In particolare il libro racconta un episodio interessante vissuto in prima persona dal protagonista nel 2014 e che risulta estremamente pertinente con il particolare momento che stiamo vivendo adesso (il motivo per il quale ho ripreso in mano il libro, già letto qualche tempo fa). Si tratta di come è stata affrontata l'epidemia di Ebola, nata nel febbraio del 2014 in un piccolo villaggio della Guinea, diffusasi velocemente in buona parte dell'Africa occidentale, e dichiarata ufficialmente terminata nel gennaio del 2016, con un bilancio di oltre 11000 morti.

Il compito dello staff di Vespignani è stato quello di creare delle simulazioni più fedeli possibili dell'espansione dell'epidemia sul territorio in modo da suggerire per tempo le mosse giuste al sistema sanitario locale, permettendo di giocare d'anticipo sul virus. "Un lavoro molto complesso che ha coinvolto una grande mole di dati raccolti sul territorio, anche tramite lo studio di foto satellitari di Google Maps, e che ha riunito un gran numero di competenze (biologia, matematica, economia, scienze sociali) per un totale di una mezza dozzina di gruppi di ricerca sparsi tra Europa e Stati Uniti". I modelli elaborati al computer fornivano previsioni sulla diffusione del virus analogamente a come i modelli metereologici forniscono le previsioni del tempo.

Ma rileggendo qua e là tratti di questo saggio mi sono imbattuto di nuovo in una osservazione che già all'epoca della prima lettura mi aveva colpito e che adesso voglio commentare personalmente. L'autore ad un certo punto, parlando del suo lavoro e delle potenzialità future delle tecniche da lui utilizzate scrive: "Purtroppo molto spesso studi di questo tipo sono invece sottovalutati o ridicolizzati". E chi cita ad esempio? Un giornalista italiano, ovviamente. Si riferisce infatti ad un breve articolo pubblicato su La Stampa il 6 novembre 2013, di Massimo Gramellini. Il pezzo si intitola "Abbasso gli algoritmi" ed accusa i due autori di una ricerca (Backstrom e Kleinberg) di essere "maschi intellettuali con il cuore a forma di granchio e gli occhi a forma di dollaro, che non riuscendo più a sentire niente si illudono di domare le loro insicurezze con una serie di algide formulette attinte dalla marea di dati personali che le nuove tecnologie mettono a disposizione".

La questione, tragicomica, è questa: il giornalista legge di uno studio fatto allo scopo di ottenere algoritmi predittivi sul tipo di relazioni sociali che ci sono tra gli utenti di un social, non lo capisce e ne coglie solo l'aspetto superficiale esterno, e pensa bene di criticarlo in un modo che può anche risultare d'effetto (ad un lettore di pari ignoranza sull'argomento) ma che è del tutto fuori luogo. "In sintesi: chi ha molti amici e li condivide con il proprio partner costruirà un legame resistente, mentre chi separa la sfera degli amici da quella del partner farà morire il rapporto d’asfissia. Ebbene, ci voleva un algoritmo per scandire questa ovvietà? Bastava il buon senso....." (quanta saggezza!). Secondo Gramellini lo studio non fa che predire una cosa ovvia sulle dinamiche sociali delle relazioni di coppia, ma gli sfugge totalmente che a fare questa predizione su un dominio di competenze squisitamente umane è un "algido algoritmo" che macina dati, ed è proprio questo il risultato spettacolare dalle implicazioni profonde.

Per me questo è un caso di "degenerazione umanistica", che è un modo simpatico per sottolineare quella tendenza delle persone di cultura umanistica ad ignorare ostentatamente tutto quello che riguarda la scienza e la tecnologia, considerate culture di second'ordine, per poi ovviamente permettersi di criticarle senza rendersi conto di cosa effettivamente hanno davanti, facendo leva solo su una scialba retorica d'effetto. Che però raggiunge e convince tutta quella popolazione di lettori (e secondo me ce ne sono tanti) che soffrono dello stesso complesso di superiorità su cose che non conoscono affatto.

La cosa comica è che il giornalista evidentemente non ha neppure la benchè minima idea di quanto gli algoritmi tanto odiati siano importanti nella nostra quotidianità (oltre che nella storia della nostra conoscenza) in quanto diffusi in tutti i dispositivi che lui, come tutti, usa e sfrutta come potenti strumenti di ausilio, nella vita e nel lavoro, e a cui di certo non rinuncerebbe così facilmente. Lascio le parole conclusive ad Alessandro Vespignani, se le merita: "Questo argomentare è il più deleterio esempio di un'arrogante cultura antiscientifica che critica senza capire ed esprime una classe dirigente incapace di comprendere il mondo circostante".

sabato 2 maggio 2020

Primomaggio

Ieri mattina mio figlio mi faceva notare come il silenzio di queste giornate di quarantena permetteva di ascoltare i canti degli uccelli, insolitamente presenti in sottofondo, tanti e vari. Ci domandavamo quante specie fossero a cantare insieme.

La quarantena ci ha costretti in molti a cambiare abitudini di lavoro (per chi riesce ancora a lavorare) in modo drastico e certamente in molti casi problematico e magari poco efficiente. Il cosiddetto "smart working" nella maggior parte dei casi non si può certo organizzare dall'oggi al domani in risposta ad un'emergenza sanitaria come questa senza conseguenze più o meno gravi sulla produzione (e dunque sugli stipendi). Però non può essere giudicato negativamente per questo. Dovrebbe invece sollevare un dibattito serio nella nostra classe dirigente.

Perché è innegabile che nel futuro il modello di sviluppo, e con lui anche i modelli di produzione e dunque di lavoro, dovranno cambiare. Il lavoro è un valore fondamentale, permette l'indipendenza economica delle persone, la loro libertà, il loro benessere. Quindi permette il benessere sociale e tutto quello che ne consegue. Ma è innegabile che, per come lo concepiamo oggi, ha un impatto ambientale che può essere, soprattutto nelle aree ad alta concentrazione di popolazione, di una certa gravità. La mobilità giornaliera che comporta, estesa a grandi masse di lavoratori, è una forma seria di inquinamento, che provoca traffico, stress, problemi di qualità dell'aria, consumi energetici, tempo di vita impiegato male.

Per il lavoro e per molte altre attività umane, così come le abbiamo sempre concepite, dovremo porci sempre più da qui in avanti il problema del loro impatto ambientale, e non per salvare una "natura incontaminata" (poverina, quanto soffre), ma per salvare noi stessi. Il dramma della quarantena che stiamo vivendo per una complicata epidemia virale di portata planetaria, e tutte le conseguenze che provocherà in termini di problemi economici e ulteriori squilibri sociali (come se già non ce ne fossero abbastanza) è solo uno dei possibili fatti che ci dice che stiamo progressivamente perdendo il controllo dell'habitat naturale che ci ospita in questo pianeta.

Ieri ad esser sinceri non ho festeggiato come si doveva il primo maggio, perchè dovevo necessariamente finire un lavoro utilizzando delle risorse in rete disponibili solo fino a ieri. Però diciamo che l'ho festeggiato oggi, non lavorando ed augurandomi che nel futuro, con i tempi necessari ad una trasformazione simile, i lavoratori (almeno sempre più categorie di lavoratori) possano gestirsi il tempo del proprio lavoro con sempre maggiore libertà e autonomia, mantenendo tutti i diritti già acquisiti. Credo sia la prossima importante conquista da fare nel mondo del lavoro.

Buon Primo Maggio a tutti quelli che passeranno di qui.

domenica 26 aprile 2020

Venticinqueaprile

Ricordo, oramai molti anni fa, una discussione sul 25 aprile. Me la ricordo perchè forse era la prima volta che sentivo un'osservazione del genere. Oggi, guardando i social ancora pieni di commenti diametralmente opposti a questa festa (dopo 75 anni), mi è tornata alla mente.

In realtà di quella discussione ricordo solo il punto di partenza, la cosa più significativa secondo me. La questione era: tutta questa retorica sulla Liberazione associata al fenomeno della Resistenza andrebbe ridimensionata. La vera Liberazione ce l'hanno data gli americani, gli inglesi, insomma chi ha vinto la guerra provocata da nazisti e fascisti (noi). Il contributo all'evoluzione dei fatti della storia dato dalla Resistenza e dai suoi protagonisti è stato infimo se non proprio nullo. Quindi che festeggiamo? La Liberazione avvenuta con le nostre forze, con il contributo degli italiani, è una retorica che ci portiamo appresso, e sulla quale peraltro abbiamo costruito l'altra retorica, quella degli opposti estremismi, che ci ha fatto più male che bene nei decenni seguenti.

Questa critica era motivata dalla sincera volontà (almeno così mi sembrava) di dare la giusta prospettiva a quel periodo storico e il giusto peso ai vari fatti accaduti in quegli anni. Voleva dire: "partiamo da un'analisi razionale e obiettiva dei fatti e traiamone le conclusioni corrette, festeggiamo il nulla e ci litighiamo pure".

Però mi domando, è questo il punto? Perchè portare il discorso sul piano scientifico dello studio della storia per stabilire e quantificare il peso dei vari contributi che hanno portato a certi risultati? Andrebbe invece portato sul piano dei valori. Mi spiego, se io aiuto una persona a non morire di fame certamente il mio contributo storico all'annoso problema della fame nel mondo è nullo, ma quello che faccio ha un valore importante, e può costituire un esempio per tutti.

Allora il punto non è se e quanto la Resistenza abbia veramente inciso sulle sorti della nostra storia. Ammettiamo pure (senza accettare discussioni infinite su questo punto) che si trattasse di "quattro gatti" che "disturbavano" l'azione di nazisti e fascisti come fanno le "zanzare", quando questi erano già spacciati per l'avanzata ormai inesorabile degli anglo-americani. Ma il punto è che questi erano la dissidenza libera e attiva (per quanto si poteva) alla dittatura fascista in Italia. E molta di questa gente lo era sempre stata durante tutto il regime, sin dai suoi inizi, e molta si è unita nel corso degli anni. Si tratta di un filo rosso (il colore non ha connotazione politica) che rappresenta un valore importante su cui noi vogliamo basare la nostra vita presente e futura (speriamo), e chi lo ha incarnato, fossero pure quattro gatti che non hanno avuto peso negli eventi, è un esempio che giustamente rimane nelle targhe commemorative di tutta Italia, e nella nostra memoria storica.

Il venticinque aprile è un valore di libertà che la storia ci lascia e che và conservato e insegnato. Su questo dovremmo essere veramente tutti d'accordo. E' questo che festeggiamo.

P.S.: non sono affatto convinto che la Resistenza e tutta la dissidenza al regime fascista non abbia avuto alcun peso negli eventi della storia, ma dico che questo dibattito può anche passare in secondo piano senza scalfire il senso della festa.

P.S.: chi si ostina dopo 75 anni ad essere più o meno apertamente contro questa festa, con i più svariati argomenti, è molto probabilmente una persona che per cultura, per formazione, educazione, inclinazione, in un qualche futuro forse accetterebbe uno stato non democratico, non liberale, accetterebbe la privazione delle libertà a favore di un capo che "risolva i problemi".

domenica 19 aprile 2020

La legge della rifrazione e la natura della luce

Uno dei risultati più semplici ma anche importanti dell'ottica geometrica è la legge di rifazione della luce all'interfaccia di due mezzi di densità differente. Recentemente mi è capitato, leggendo dei testi che parlano di ottica, di capire che la descrizione quantitativa di questo fenomeno può permettere di discriminare tra l'interpretazione corpuscolare (in senso classico) e ondulatoria della luce, almeno nel passato lo ha fatto. Non mi ricordo di aver mai avuto occasione di osservare una cosa del genere. Ed è interessante anche dal punto di vista storico.

Nei primi decenni del seicento, prima Snell e in seguito, in modo probabilmente indipendente, Cartesio, definirono la forma sperimentale quantitativa della legge di rifrazione con la seguente espressione:

sin i / sin r = n

con i valore dell'angolo del raggio incidente con la normale alla superficie di separazione dei due mezzi, r valore dell'angolo del raggio rifratto con la stessa normale, e n un parametro che dipende unicamente dalla natura dei due mezzi (ad esempio aria e acqua), chiamato indice di rifrazione relativo.

Come è noto alla fine del seicento Newton formulò le leggi della dinamica e introdusse la forza gravitazionale tra i corpi con la legge di gravitazione universale. Uno schema concettuale molto potente, una chiave interpretativa del movimento e delle interazioni tra i corpi di grande successo. Contestualmente Newton si occupava anche di ottica.

Se delle idee funzionano bene per descrivere una certa classe di fenomeni naturali è abbastanza ovvio cercare di sfruttarle anche altrove, in ambiti chiaramente differenti ma in cui puoi almeno sperare di ottenere lo stesso successo. E' una questione di economia di pensiero (riciclo le idee che si sono dimostrate efficaci) ma soprattutto risponde ad una esigenza di riunire grandi classi di fenomeni anche apparentemente distanti tra loro in un'unica visione esplicativa unificante.

Quindi non è strano che Newton abbia avanzato l'ipotesi della natura corpuscolare della luce. Se la luce può essere pensata come un insieme di corpuscoli viaggianti se ne può dedurre il comportamento applicando a tali corpuscoli tutto quello che si è imparato sul moto di un punto materiale. Ad esempio si può spiegare la propagazione rettilinea di un raggio di luce (osservata sperimentalmente dallo studio delle ombre) deducendola direttamente dal principio di inerzia, supponendo evidentemente che il peso di questi corpuscoli sia trascurabile rispetto alla loro velocità (questo mi sembra già un punto debole, quantomeno da sottoporre ad esperimenti). Si può spiegare anche la legge della riflessione su una superficie di separazione tra due mezzi riconducendola semplicemente ad un fenomeno di urto elastico.

Più difficile interpretare e rendere conto, anche quantitativamente, della legge della rifrazione. Qui Newton usa l'idea (già formulata in precedenza) che nei due mezzi la velocità dei corpuscoli di luce sia differente. In particolare che si conservi la componente parallela alla superficie di separazione e che invece cambi quella ortogonale. Quest'ultima cresce nei mezzi più densi come risultato di una maggiore forza di attrazione delle masse verso l'interno del mezzo (e anche questo, almeno raccontato in questo modo, mi sembra un argomento debole, quantomeno non ben chiaro). Il risultato sarà che il raggio proveniente dal primo mezzo (meno denso, ad esempio aria) incidente sulla superficie di separazione di un angolo i con la normale si propaga all'interno del secondo mezzo (più denso, ad esempio acqua) avvincinandosi alla normale, cioè con un angolo di rifrazione r minore di i. Un calcolo fatto scomponendo le velocità v1 e v2 dei due fasci incidente e rifratto porta ad ottenere proprio l'espressione della legge di rifrazione in questa forma:

sin i / sin r = v2 / v1

Non solo questa formula riproduce il risultato sperimentale di Snell ma fornisce anche un'interpretazione dell'indice di rifrazione relativo come il rapporto tra le velocità di propagazione della luce nei due mezzi.

Fino a qui sembrerebbe un buon successo. Una legge determinata esclusivamente per via sperimentale viene ora dedotta partendo da un'ipotesi sulla natura della luce e da un semplice calcolo cinematico conseguente a questa ipotesi (e ad altre considerazioni per la verità discutibili). Ma a questo punto, se vogliamo mettere alla prova la capacità della teoria occorrerebbe trovare il modo di verificare la questione delle velocità di propagazione della luce nei diversi mezzi. Purtroppo all'epoca di Newton verifiche di questo genere erano fuori portata e la questione rimaneva aperta.

La questione rimaneva aperta ed estremamente interessante anche perchè negli stessi anni in cui Newton dava la sua interpretazione ne circolavano altre, una basata sul Principio di Fermat e l'altra basata sul Principio di Huygens. In entrambi questi casi si arrivava però ad una legge di Snell che legava anch'essa l'indice di rifrazione al rapporto delle velocità di propagazione, ma rovesciava questo rapporto, cioè metteva a denominatore la velocità del secondo mezzo. Se questo era il mezzo più denso, e se si voleva far coincidere quanto calcolato a quanto si misurava, occorreva ipotizzare che la velocità in un mezzo più denso diminuisse anzichè aumentare, in aperto disaccordo con Newton.

L'interesse di questo disaccordo risiedeva anche nei punti di partenza delle due visioni di Fermat e Huygens, in particolare di quella di quest'ultimo. Infatti se Fermat risolveva il problema imponendo al sistema un principio di minimo senza fare nessuna particolare ipotesi sulla natura della luce (ma definendo un metodo generale molto importante che in seguito verrà ripreso da Maupertuis e applicato al formalismo della meccanica lagrangiana), Huygens arrivava alla legge di Snell applicando un principio di costruzione geometrica che presupponeva la propagazione della luce come un'onda. In questo caso erano le interpretazioni della natura della luce, non proprio roba da poco, ad essere profondamente diverse in Newton e Huygens e a portare a risultati differenti.

Differenze che però purtroppo all'epoca non potevano trovare una soluzione attraverso l'unico modo scientifico per farlo, cioè misurando i valori delle velocità della luce nei diversi mezzi. In quegli anni esisteva un'unica misura della velocità della luce determinata da misure astronomiche sulle eclissi dei satelliti di Giove, decisamente insufficiente per risolvere la questione tra Newton e Huygens. Solo nel 1850 le misure fatte da Foucault hanno mostrato che la velocità della luce nei mezzi densi è minore di quella nell'atmosfera dando così ragione all'interpretazione ondulatoria di Huygens e contraddicendo la teoria corpuscolare di Newton.

Comunque la questione della natura della luce era già stata risolta cinquant'anni prima da Thomas Young, che dimostrò con esperimenti quali quello della doppia fenditura come i fenomeni della diffrazione e dell'interferenza fossero spiegabili dalla teoria ondulatoria e non da quella corpuscolare.

venerdì 10 aprile 2020

Il modello SIR spiegato a mio figlio

Qualche giorno fa, come riempitivo della quarantena da coronavirus, ho spiegato a mio figlio il modello di diffusione delle epidemie denominato SIR. E' stata una buona esperienza, che ho cercato di utilizzare un po' per spiegare quanto sta avvenendo nei vari focolai dell'infezione che piano piano si stanno creando in quasi tutto il pianeta, e un po' per riflettere sul concetto di modello matematico per la descrizione di un fenomeno. Il modello in questione consiste sostanzialmente in un problema differenziale che risulta essere anche un buon esempio nell'uso delle derivate che mio figlio a scuola ha già avuto modo di incontrare, anche se in modo non rigoroso.

Ho proceduto grosso modo con queste considerazioni.

Dal punto di vista matematico un fenomeno che evolve nel tempo, come il caso di un'epidemia, viene descritto sostanzialmente individuando delle grandezze che lo caratterizzano e scrivendo delle relazioni che ne esprimano gli andamenti temporali. Le grandezze non possono essere tante, pena la complessità delle equazioni che ne possono derivare e la loro intrattabilità, ma ovviamente devono essere in numero sufficiente (e quelle giuste) perché si riesca a tirar fuori un'analisi significativa. In tal modo si è creato un modello, ovvero uno strumento matematico in grado di rappresentare con un certo grado di accuratezza il fenomeno che ci interessa. Spesso la costruzione di un modello non è la traduzione di principi fisici generali come succede ad esempio nel problema del moto di una massa in un campo gravitazionale (i principi generali qui sarebbero la legge di gravitazione universale e la seconda legge della dinamica) bensì considerazioni meno rigorose, giustificate da osservazioni dirette sul fenomemo specifico. E' il caso appunto del modello SIR.

Il modello SIR prende il nome dalle tre variabili che vengono scelte per descrivere l'andamento nel tempo di un'epidemia in una popolazione: i Suscettibili (S), gli Infetti (I), i Rimossi (R). I Suscettibili sono gli individui sani che possono in qualsiasi momento contrarre l'infezione, gli Infetti sono i malati portatori dell'infezione e quindi contagiosi, i Rimossi sono gli individui guariti dall'infezione (o eventualmente morti). Queste tre variabili non sono indipendenti poichè dividono la popolazione in tre insiemi disgiunti, dunque la loro somma è la popolazione totale (N): S+I+R=N.

Un modello deve poter permettere di arrivare a delle relazioni matematiche trattabili in qualche modo, se non proprio esattamente risolvibili. Per questo motivo deve rimanere sufficientemente semplice (anche se non banale, questo è il rischio). Ciò significa che oltre ad introdurre un numero piccolo di variabili andranno introdotte anche delle assunzioni semplificatrici che ci permetteranno di trascurare dei dettagli e che ovviamente renderanno il modello meno generale e meno potente (con una capacità predittiva più ristretta). Nel nostro caso si assume
- che la popolazione sia in numero costante (trascurando cioè nascite e morti naturali),
- che chi è nei rimossi sia definitivamente immunizzato e non possa più riammalarsi,
- che non ci siano scambi della popolazione con l'esterno (immigrazioni ed emigrazioni),
- che il contrarre l'infezione determini contestualmente sia la malattia che lo stato di infettività.
Ovviamente dopo un primo studio del modello semplificato da tutte queste ipotesi è sempre possibile trovare il modo di rimuoverle, apportare le opportune modifiche e studiarne le conseguenze, allo scopo di tener conto di un maggior numero di elementi significativi e arrivare a delle predizioni più precise.

L'obiettivo del modello sarà quello di descrivere gli andamenti nel tempo delle tre grandezze tra di loro collegate. Le approssimazioni fatte ci permettono di scrivere un "flusso" nel tempo di elementi da un insieme all'altro, cioè nel tempo i Suscettibili diventeranno Infetti che a loro volta diventeranno Rimossi (guariti o morti). Il punto di partenza più fruttuoso è quello di cercare di scrivere le velocità con cui queste tre grandezze varieranno. La velocità con cui una grandezza varia nel tempo non è nient'altro che la sua derivata (si pensi alla "velocità" come grandezza fisica, cioè la velocità con cui varia lo spazio percorso da un corpo in movimento).

A questo punto tentiamo di scrivere le velocità di variazione delle nostre tre grandezze con considerazioni euristiche. La velocità con cui varia la S nel tempo sarà certamente negativa poichè ci aspettiamo che l'insieme S diminuirà in conseguenza della propagazione dell'infezione (vedi il flusso scritto sopra) e potrà essere scritta ragionevolmente come proporzionale al prodotto tra S e I, più è grande S e più ho persone che possono infettarsi, più è grande I e più aumenta la probabilità di infettare i rimanenti S. La velocità con cui varia R invece sarà certamente positiva poichè al passare del tempo aumenteranno i guariti o i deceduti (vedi anche in questo caso il flusso scritto sopra) e potrà essere scritta come proporzionale a I, poiché tanto più grande è l'insieme degli infetti tanto più grande sarà il numero dei guariti. La velocità con cui varia I sarà semplicemente dedotta dal fatto che se per ipotesi la somma delle tra variabili è pari alla dimensione N della popolazione assunta come costante, la somma delle loro derivate dovrà essere necessariamente pari a zero (la derivata rispetto al tempo di una grandezza costante nel tempo è nulla).

In formule si ottiene alla fine la seguente (la derivata della funzione è indicata con l'apice):

S' = -aIS = (-aI)S
I' = aSI-bI = (aS-b)I
R' = bI

Si noti che, come detto nelle ipotesi, S'+I'+R'=0.

Questo è il problema differenziale che esprime le poche e semplici considerazioni fatte nel modello. I parametri a e b introdotti sono le costanti di proporzionalità che aggiungono gradi di libertà al modello, i loro valori sono ignoti ma possono influenzare parecchio l'andamento delle soluzioni e quindi caratterizzare in modo significativo il particolare fenomeno descritto. Evidentemente su tali parametri sarà possibile fare delle ipotesi e, quando possibile, cercare di determinarli attraverso delle misure fatte sui dati empirici dell'epidemia reale che si sta studiando.

Cosa si può ricavare da un modello del genere? Si potrebbero calcolare esplicitamente le soluzioni, ammesso che si riesca a farlo. Molti problemi differenziali sono difficili da trattare e spesso le soluzioni analitiche generali non si riescono a scrivere. Ricordiamoci comunque che ormai esiste sempre la possibilità di trattare numericamente le soluzioni attraverso l'uso di calcolatori. Alternativamente si possono studiare per ricavarne considerazioni più qualitative ma spesso altrettanto importanti. Proviamo a fare le più semplici.

1. Il parametro b indica la percentuale di infetti che guarisce (o muore) nell'unità di tempo. Questo chiaramente è un fattore che dipende dall'andamento naturale della malattia in un malato e può essere chiaramente influenzata (aumentata) dall'uso di terapie efficaci, se ce ne sono.

2. Il parametro a è un termine che tiene conto della capacità (o probabilità) che ha un individuo sano (S) di contrarre la malattia quando "incontra" un individuo infetto (I). Questa capacità di infettare dipende ovviamente dalle caratteristiche intrinseche dell'infezione e chiaramente può essere influenzata (diminuita) da opportune pratiche igieniche e dalla messa in quarantena degli individui infetti (ed eventualmente dall'uso di un vaccino, se disponibile).

3. Le prime due equazioni del modello (quella per S' e per I') sono del tipo F'(t)=kF(t) che ha come soluzione una funzione esponenziale, una funzione cioè che cresce se k è positivo e decresce se k è negativo, la velocità di crescita o decrescita essendo determinata dal suo valore assoluto. Quindi:

3a. Per la variazione dell'insieme S si ha k=-aI, coefficiente chiaramente negativo (anche se non costante poichè dipende anche da I) per l'ipotesi già fatta in precedenza che S deve diminuire progressivamente all'espandersi dell'infezione.

3b. Per la variazione dell'insieme I, la grandezza che ci interessa di più, si ha k=aS-b che non ha un segno definito. Anzi, possiamo dire che se all'inizio dell'epidemia i coefficienti si combinano in modo da rendere negativo k, l'epidemia si arresta subito (esponenziale negativo). Se, al contrario, rendono k positivo l'epidemia si espanderà all'inizio con velocità esponenziale, provocando il momento più critico per la popolazione (quello che attualmente stiamo ancora vivendo in gran parte del mondo).

4. Durante la fase espansiva dell'epidemia il coefficiente k, partito con valore positivo, è destinato ad un certo punto a cambiare di segno (S diminuisce), determinando dunque un massimo di I e l'inversione di tendenza. Da questo momento in poi l'infezione è destinata ad estinguersi.

5. Spesso nei modelli conviene introdurre parametri comodi e significativi per la descrizione del fenomeno. In questo caso al posto di k si preferisce introdurre il parametro r = aS/b. L'innesco dell'epidemia è determinato da r maggiore di 1, l'inversione di tendenza da r minore di 1. Questo parametro può essere interpretato come il numero medio di suscettibili che vengono contaminati da un infetto (Basic Reproduction Ratio).

6. L'ultima cosa interessante è che attraverso misure specifiche prese sulla popolazione e sui suoi comportamenti (vedi quanto già detto sopra) è possibile controllare il parametro r e di conseguenza la forma complessiva della curva epidemica, che può passare da una campana ripidissima e velocissima ad una campana molto più appiattita e distribuita su tempi lunghi. I due comportamenti non sono certo equivalenti. Controllare la crescita della campana e il livello raggiunto dal suo massimo può consentire alle strutture sanitarie della popolazione colpita di reggere l'impatto delle inevitabili ospedalizzazioni e cure intensive indotte dalle forme più gravi dell'infezione, e diminuire il più possibile il tasso di mortalità. Che è esattamente la cosa che stanno cercando di fare più o meno tutti gli stati mondiali attualmente colpiti dalla infezione del coronavirus.

La spiegazione mi è sembrata molto istruttiva, per diversi motivi. Spero che lo sia stata anche per mio figlio.

sabato 28 marzo 2020

Indulgenza plenaria per il coronavirus

Ieri il Papa si è presentato da solo in piazza San Pietro, ha fatto un discorso ai fedeli (e a tutti), ha pregato, ha invocato l'aiuto di Dio, ha impartito la benedizione Urbi et Orbi con la possibilità di ricevere l'indulgenza plenaria (*). Tutto da solo, in una piazza San Pietro completamente vuota, senza fedeli. Una cosa mai vista, e quindi di un impatto (anche cinematografico) impressionante.

Rivedendo su youtube pezzi di questa cerimonia mi sono fatto una domanda, che per quanto non possa avere una risposta concreta in quanto immagina uno scenario del tutto ipotetico, mi stimola a qualche riflessione.

Supponiamo che il decreto del governo che obbliga per legge tutta la cittadinanza a stare a casa non fosse stato ancora emanato. Supponiamo che fossero state date solo indicazioni chiare ma non obbligatorie della convenienza a non riunirsi, a non partecipare a manifestazioni pubbliche, per evitare l'espandersi del contagio. Supponiamo che in questa situazione il Papa avesse voluto promuovere un momento di preghiera collettivo, per chiedere aiuto a Dio, impartire la benedizione alla popolazione in pericolo e l'indulgenza plenaria, soprattutto a chi presumibilmente sarebbe morto di lì a poco.

Cosa sarebbe successo? I cattolici sarebbero venuti in piazza? Mi interesserebbe sapere proprio quanti cattolici avrebbero preso la decisione di riunirsi in piazza San Pietro per pregare tutti insieme, chiedere l'aiuto di Dio e ricevere la benedizione del Papa.

Non mi pare una domanda oziosa. Forse un po' provocatoria, questo si, ma vorrei proprio sapere se e fino a che punto la maggior parte dei cattolici attuali (quelli della nostra società benestante) danno un senso concreto e reale a questi eventi o se li considerano solo simbolici. Quanti di loro sceglierebbero di assumersi un po' di rischio per testimoniare la loro fede e mostrarsi come comunità? Che cosa è più importante, in fondo? Conservare al meglio la propria vita e guardare il Papa alla televisione, o riunirsi in preghiera con lui e con tutta la comunità dei fedeli in un momento così difficile? E di che preoccuparsi in fondo, viste le parole del Vangelo? (**)

Quello che voglio dire è che riunirsi in preghiera con il proprio capo spirituale, vicario di Cristo in terra, per ottenere l'ascolto di Dio ai problemi della comunità, e per avere una sua benedizione e l'indulgenza, dovrebbe essere per il cattolico un gesto concreto, tanto quanto quello di ripararsi in casa, anzi, ancora più forte. Non so se i cattolici attuali sentono effettivamente la forza concreta di questi gesti. O se il rito rimane un fatto puramente simbolico, da fare quando non c'è nessun pericolo, quando si sta bene, quando si può uscire la domenica per una passeggiata in piazza San Pietro. Pensando che le cose concrete siano altre.

Il Papa ha detto che siamo tutti nella stessa barca, e che dobbiamo uscirne tutti insieme. Ma per non essere ipocriti e anche per dare più forza e più severità a questa frase diciamo meglio che ne dobbiamo uscire tutti a parte quelli che sono già morti o che moriranno. Questo implica che la comunità vale più del singolo, e che quest'ultimo deve anche poter rischiare per il bene suo e di tutti. Se il suo gesto è concreto. Ma torno a ripetere, per un cattolico attuale (in media ovviamente) questo gesto sarebbe stato concreto? Avrebbe mai giustificato un rischio?

Le parole del Papa hanno sicuramente confortato chiunque le abbia ascoltate, credenti e non. Ma per un cattolico c'era qualcosa di più nel rito di ieri? Qualcosa di più forte di un discorso confortante? Perché la religione come genere di conforto mi pare un po' poco.

Comunque proprio non si poteva andare in piazza a pregare con il Papa, e il problema non si è posto. E il mio dubbio me lo tengo.

(*) Per ottenere questa indulgenza plenaria ci sono delle norme ben precise da rispettare, stabilite da un decreto della Penitenzieria Apostolica pubblicato il 20 marzo, in occasione della pandemia.

(**) "Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?"

NOTA - Pochi giorno dopo aver pubblicato questo post ho avuto la sensazione che la provocazione in esso contenuta fosse stata "raccolta" da un politico italiano, che in occasione delle imminenti festività pasquali (sempre sotto emergenza coronavirus) ha tirato fuori questa frase: "Non vedo l'ora che la scienza e anche il buon Dio, perchè la scienza da sola non basta, sconfiggano questo mostro per tornare a uscire. Ci avviciniamo alla Santa Pasqua e occorre anche la protezione del Cuore Immacolato di Maria" (Matteo Salvini). Aggiungendo a questo la proposta di tenere aperte le chiese nel giorno di Pasqua.

lunedì 17 febbraio 2020

Un perchè "annidato"

Perchè la domanda "perchè la Luna mostra sempre la stessa faccia?" mostra sempre la tessa faccia?

Una domanda di astronomia molto ricorrente, diciamo "da astrofili", che viene spesso usata per stimolare il ragionamento dei ragazzi è la seguente: "perchè la Luna mostra sempre la stessa faccia?". Purtroppo in genere si dà per scontato il dato osservativo e di conseguenza non lo si enfatizza. Nel senso che credo sarebbe opportuno sottolineare che questo è un dato dell'osservazione e che per quanto sia banale andrebbe osservato, cioè è importante accorgersene. Te ne accorgi che la Luna mostra sempre la stessa faccia? E non ti suona un po' strano? O quantomeno sufficientemente insolito da attirare la tua attenzione e da meritare una riflessione e un tentativo di interpretazione? Trovi che la domanda abbia un senso? Perchè se non è così è inutile discutere la risposta. Passa a qualcos'altro.

L'aspetto osservativo viene dato per scontato e si punta a dare una spiegazione cinematica o geometrica della domanda. Così come l'osservazione viene banalizzata credo che anche la risposta venga banalizzata, e riassunta così: la luna mostra sempre la stessa faccia perchè il suo periodo di rotazione su sé stessa è uguale al suo periodo di rivoluzione attorna alla Terra.

Solo che dentro questa domanda ce ne è un'altra (l'altra faccia), normalmente disattesa, che io mi aspetterei di sentire. Se dovrebbe risultare insolito, o quantomeno curioso, che la luna mostri sempre la stessa faccia, altrettanto insolita dovrebbe risultare questa semplice spiegazione. Ma non è strano che la luna abbia dei dati orbitali che facciano coincidere i due periodi, di rotazione e rivoluzione? Tra tanti valori più o meno casuali possibili non è insolito avere proprio due valori coincidenti? Può essere un caso? Questa curiosa coincidenza non potrebbe essere la conseguenza del fatto che queste due variabili cinematiche (velocità di rotazione e velocità di rivoluzione) siano tra loro in qualche modo legate? Rotazione e rivoluzione sono in genere raccontate come due componenti indipendenti del moto di un corpo celeste. Ma è vero questo? O si tratta di un'approssimazione?

La spiegazione, che si può dare senza troppi formalismi sfruttando solo il concetto di forza e la capacità di intuito e di immaginazione delle persone è piuttosto affascinante. Ma deve pur venir fuori da una domanda perché se ne possa poi scorgere il fascino. Tra l'altro ovviamente si trovano spiegazioni un po' ovunque su internet, non è certo un problema (non lo è più).

Il sincronismo tra il periodo di rotazione e quello di rivoluzione della Luna intorno alla Terra è una conseguenza della cosiddetta forza di marea che la Terra esercita sulla Luna (e viceversa). Questa forza causa una deformazione lungo l'asse congiungente i due corpi celesti, per cui la luna assume la forma di un ellissoide (l'allungamento ovviamente è piccolissimo, circa il 2x1000, ma sufficiente a causare un effetto osservabile). E' la risultante della combinazione tra la forza di attrazione della Terra e la forza centrifuga della rotazione lunare, un disegnino rende immediatamente il concetto, se ne trovano tanti su internet.

Un ellissoide non ha più una simmetria sferica e nei confronti di una forza gravitazionale che lo attira si comporta un po' come un ago metallico in un campo magnetico, tende cioè ad orientarsi con l'asse maggiore nella direzione del campo. A questo punto è facile immaginarsi cosa succede (almeno ci si può provare, questo si che è un esercizio). La deformazione durante la rotazione lunare ha una sua inerzia e può quindi trovarsi in "ritardo" o in "anticipo" a seconda che la rotazione non sia sincronizzata con la rivoluzione "per difetto" o "per eccesso". Ma in questi casi la forza di attrazione della Terra agisce come stabilizzatore del moto sincronizzato, accelerando la rotazione lunare se la deformazione è in ritardo, decelerandola se è in anticipo. In pratica il sincronismo è ottenuto come una situazione di equilibrio tra l'azione delle forze mareali e l'inerzia della deformazione che ne deriva.

Ma se l'attrazione gravitazionale della terra deforma la Luna determinando questa conseguenza del sincronismo orbitale, non sarà che qualcosa di simile succede all'inverso? E' ragionevole immaginare anche una possibile deformazione della Terra ad opera dell'attrazione gravitazionale della Luna, sebbene con effetti minori vista la differenza tra le masse? E che tipo di conseguenze si potrebbero avere da questa deformazione?

Se ribaltiamo la situazione troviamo che anche la Luna deforma la Terra, ma prima di tutto lo farà con un'intensità molto minore (vista la differenza delle masse) e poi agirà soprattutto sulle masse oceaniche (la massa liquida offre meno resistenza e "scorre" facilmente). La Terra dunque non mostrerà alla Luna sempre la stessa faccia (il periodo di rotazione terrestre è molto minore del periodo di rivoluzione della Luna) ma i movimenti periodici delle masse oceaniche determineranno il fenomeno delle maree. La forza della Luna che trascina le masse oceaniche determina una certa perdita di energia di rotazione della Terra che effettivamente perde progressivamente velocità (la durata del giorno perde circa 1,5 millisecondi per secolo). L'asimmetria della Terra (rigonfiamento oceanico) attira la Luna nella direzione del suo moto (come una fionda), aumentando progressivamente la sua velocità orbitale e quindi allontanadola progressivamente dalla sua orbita (di circa 4 cm all'anno).

Bello eh? Comunque non era tanto la spiegazione del fenomeno che mi interessava, quanto osservare e sottolineare il valore che nella formazione scientifica hanno le domande (tutte sottolineate nel testo), soprattutto la capacità di suscitarle, e lo stimolo che danno all'immaginazione. Senza domande la scienza è solo una noiosa collezione di spiegazioni non richieste.

venerdì 31 gennaio 2020

Gianpaolo Pansa e la pseudoscienza

La recente scomparsa di Gianpaolo Pansa mi ha fatto ripensare a Oriana Fallaci. Il clima di ricordi, commemorazioni e contenstazioni è molto simile. Anche lui è stato un giornalista che nell'ultima parte della sua vita ha assunto un atteggiamento discutibile su argomenti che toccano la sensibilità dell'opinione pubblica. In particolare ha scritto negli ultimi vent'anni una serie di libri di successo denominati "il ciclo dei vinti" in cui propone una sorta di revisionismo dei fatti storici legati alla Resistenza che rivaluta chi uccise e morì per la Repubblica di Salò ("i vinti") e denuncia i crimini consumati dai partigiani nei confronti dei fascisti. E lo fa con l'autorità, la credibilità e la fama dello storico e giornalista di sinistra.

Ora io non sono particolarmente interessato a questo fatto e non ho letto, né ho intenzione di farlo, i libri di Pansa su questo argomento, così come non ho letto nulla della Fallaci, né prima né dopo la sua dura presa di posizione nei confronti della cultura islamica. C'è però un fatto nella vicenda di Pansa e nelle critiche che gli vengono rivolte che mi ha colpito, anche se non posso dire granchè sulla loro fondatezza dal momento che non ho un'esperienza diretta di quello che ha scritto (e poco anche di quello che ha detto a suo tempo in interventi su giornali e televisioni).

Se si vuole "revisionare" un certo periodo storico, cioè introdurre interpretazioni nuove dei fatti o integrare le interpretazioni comunemente accettate, occorre produrre un lavoro di ricerca storica basato su fonti nuove, non ben prese in considerazione o non sufficientemente valutate, estrapolarne un'analisi e sottoporla alla comunità degli specialisti, usando il normale circuito di comunicazione delle pubblicazioni di settore, per sollevare un dibattito tra gli storici che si occupano attivamente di quel periodo. Eventualmente poi, se la questione prende corpo è naturalmente in grado di travalicare il ristretto gruppo degli studiosi per raggiungere, attraverso articoli o dibattiti sui media, il pubblico più generico delle persone colte.

Questo è esattamente quello che ci si aspetta da un qualsiasi studio di natura scientifica. I libri di Gianpaolo Pansa invece, per quello che ho dedotto dalla lettura di vari commenti, sembrerebbero essere una via di mezzo tra un saggio e un romanzo (con anche personaggi e situazioni in parte inventate e comunque descritte in maniera romanzesca, indugiando su particolari non verificabili, elaborati in senso letterario) e soprattutto sono chiaramente destinati ad un pubblico generico (venivano e vengono tuttora venduti anche negli autogrill). Non sono studi specialistici sottoposti alla comunità scientifica, e questo secondo una scelta deliberata del loro autore che pure aveva una formazione da storico e certamente sapeva come condurre uno studio di ricerca storica (Pansa si era laureato in storia con Guido Quazza, uno dei migliori storici della Resistenza, e aveva praticato egli stesso la ricerca storica con ottimi risultati).

I suoi libri sono in pratica l'equivalente di ciò che potrebbe pubblicare un buon divulgatore scientifico su un qualche tema importante della scienza moderna, con la differenza che in quest'ultimo caso l'argomento scientifico in questione sarebbe ben acquisito dalla comunità scientifica e semplicemente raccontato in modo più o meno efficacie ad un pubblico più vasto e di buon livello culturale. Senza la pretesa (insensata) di essere un contributo originale.

Ma proprio per la sua pretesa di dare un contributo originale all'interpretazione dei fatti storici, il lavoro di Pansa sul ciclo dei vinti risulta probabilmente classificabile come un episodio di pseudoscienza. Almeno mi pare che ne abbia le caratteristiche principali. La pseudoscienza in genere consiste nel comunicare delle verità scientifiche originali (presunte) senza usare i mezzi, le modalità e il linguaggio della comunità scientifica, e soprattutto rivolgendosi non agli specialisti ma al grande pubblico, che ovviamente non ha la preparazione tecnica adeguata a recepire le novità di una disciplina e una buona parte di esso non ha neppure una preparazione culturale di base. La pseudoscienza sceglie deliberatamente di rivolgersi non alla parte razionale dell'uomo ma alla sua parte emotiva. Non è un caso che le discipline scientifiche più invase dalla pseudoscienza sono quelle che riguardano la salute, argomento che ovviamente tocca l'emotività di tutti.

Quelli di Pansa sono degli scritti che pretendono di modificare in modo significativo una conoscenza storica senza portare elementi documentati e oggettivi da sottoporre agli addetti ai lavori ma facendo leva solo sull'appeal emotivo delle storie raccontate a cui è esposto il grande pubblico largamente impreparato, ignaro della storiografia sull’argomento e senza strumenti culturali adeguati. Questo ha portato qualcuno ad affermare che i suoi libri consistono in pratica in "una continua, abile, suggestiva manipolazione dei fatti che mira a costruire, nella percezione del pubblico, un sostanziale falso storico".

Come la pseudoscienza costruisce un falso scientifico ad unico beneficio di chi lo diffonde (vedi ad esempio l'episodio del metodo Stamina di Davide Mannoni) anche in questo caso si costruisce un falso storico a beneficio di chi ci scrive sopra ben sei libri diversi e vende centinaia di migliaia di copie.

giovedì 2 gennaio 2020

Un "caso" italiano

In questo periodo di ferie un po' deprimente ho pensato di metterci il carico leggendo l'inizio di un libro di Enrico Bellone che tenevo in libreria da tempo, "La scienza negata", in particolare la sua prima parte "Cronaca di un disastro programmato". Bellone racconta in breve la storia del nostro declino culturale, specialmente di quello scientifico e tecnologico. Il declino è deliberatamente e scientemente "programmato" sin dall'indomani dell'unità d'Italia, alla fine dell'ottocento. "Tutti sapevano -scrive Bellone- in quel finire di secolo, che le grandi nazioni europee stavano potenziando le strutture materiali della ricerca e incentivando le risorse umane da inserirvi. Ma si credeva, anche, che l'Italia se ne sarebbe poi avvantaggiata, facendo proprie le acquisizioni che inglesi o tedeschi avrebbero, a proprie spese, realizzato. Un errore classico, ma tipico di una cultura arretrata e di una classe dirigente che di quella cultura era, nello stesso tempo, il risultato e lo specchio".

Già l'inizio non è incoraggiante, successivamente si legge ancora di peggio. Ad esempio il breve racconto della controversia nei primi anni del novecento tra il matematico Federigo Enriquez e Benedetto Croce sulla valenza culturale delle ricerche scientifiche, con la vittoria di quest'ultimo, che coniava in quel periodo l'espressione "ingegni minuti" riferito a chi era coinvolto in attività scientifiche, e che successivamente ritornò imperterrito sullo stesso argomento con le stesse convinzioni, "le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona grazia hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità, ed esse rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente da vedere con la meditazione del vero" (Croce, 1952).

Poi arriva il fascismo, e qui ci sarebbe ben poco da dire, basterebbe osservare quanta gente di grande valore scientifico è stata messa a tacere e costretta ad abbandonare l'Italia soprattutto in seguito alle leggi razziali (e con questo abbiamo fatto insieme ai nazisti la fortuna degli Stati Uniti per tutto il XX secolo). Bellone rileva anche più semplicemente gli obiettivi utilitaristici e miopi del regime fascista, "prevalente fu subito il punto di vista secondo cui la scienza aveva solo valori di tipo pratico. Ne seguiva la scelta di promuovere, non la ricerca libera, ma la cosiddetta 'scienza applicata'". Questa chiave utilitaristica della scienza ha avuto certamente un impatto nei criteri organizzativi dell'attività di ricerca ma forse a lungo termine anche un impatto culturale che si è protratto nei periodi successivi al fascismo.

Ma forse l'episodio peggiore, o meglio la catena di episodi peggiori riportati nel breve resoconto di Bellone, si sono verificati nel dopoguerra, durante il corso degli anni sessanta. Troppo lungo riportarli nel dettaglio ma si tratta di una serie di fatti molto gravi e poco chiari che hanno coinvolto Enrico Mattei (precipitato in aereo nel 1962, "di fatto, la morte di Mattei fu provvidenziale per tutti coloro i quali pensavano che l'Italia non dovesse affrancarsi dall'egemonia dei pertrolieri"), Felice Ippolito (rimosso dal CNEN e arrestato) e Domenico Marotta (rimosso dall'Istituto Superiore di Sanità e arrestato). "Il discredito che era stato sparso sulla comunità scientifica italiana e l'opinione, diffusa ad arte, che negli enti di ricerca il potere fosse nelle mani di truffatori, avevano avuto una fonte nel tentativo di frenare quelle modernizzazioni del paese che erano in contrasto con ben precisi interessi economici sui fronti dell'energia e dei farmaci". L'opinione di un importante scienziato come Edoardo Amaldi, uno dei pochi rimasti in patria nel dopoguerra e artefice negli anni cinquanta di una ripresa incoraggiante dell'attività scientifica a livello italiano ed europeo, era che l'Italia aveva subito una sconfitta pari a quella di Caporetto.

Qua e là nel testo vengono anche richiamati atteggiamenti culturali delle forze di sinistra di allora che probabilmente hanno contribuito anche loro, volontariamente o meno, a "declassare" la scienza. "Maccacaro riteneva che la connessione tra scienza e potere fosse basilare per il capitalismo avanzato e che non avesse più senso distinguere tra ricerca e sfruttamento. Citava a questo proposito Marcello Cini, secondo il quale 'non è più possibile separare l'oggetto del nostro atto di conoscenza dalle ragioni di questo atto': e le ragioni erano riposte nelle multinazionali".

Insomma un quadro politico e culturale disastroso. Le parole di Giulio Toraldo di Francia (pronunciate già negli anni settanta) mi suonano tanto drammatiche quanto purtroppo attuali: "Quello che si vuole allontanare dalla scuola e dal periodo formativo delle giovani generazioni sono l'indagine, la curiosità e l'esigenza rivoluzionaria che si accompagnano sempre con la scienza", "La paura della scienza è ormai un dato culturale spontaneo, insito in certe nostre classi dominanti. La scienza è nemica e deve essere emarginata", "L'Italia è un paese in via di sottosviluppo. Siamo in una situazione tragica. Qualcuno potrà dire che si può ancora correre ai ripari. Io sono molto pessimista. Credo che sia abbastanza tardi per correre ai ripari. Io vedo già una tradizione scientifica come la nostra, portata ad alto livello grazie all'impegno e al valore di pochi, che viene dispersa e finirà con lo scomparire. Vedo già l'Italia dipendere, nel campo del progresso scientifico, da ciò che avviene all'estero. Da noi si comprerà solo il prodotto finito".

Sono gli anni settanta, da qui in poi arrivo io. Nei decenni successivi ho dovuto fare i conti, come molti miei coetanei, con un settore della ricerca scientifica che definire angusto è poco, dove il precariato permanente sarebbe stata la normalità. Una situazione al limite (e forse oltre questo limite) per una società che si dica "avanzata". E il racconto di Bellone ne fornisce le ragioni principali. Ma ancora prima, negli anni precedenti a quelli dell'università, nel mio piccolo ho anche vissuto in parte lo snobismo culturale "di stampo umanista" verso la scienza e il suo valore culturale che si è nel tempo generato nelle classi medie. Anche questo è un retaggio della storia appena raccontata.

"Ah, ma la formazione che dà il liceo classico è la migliore in assoluto. La carenza nelle conoscenze scientifiche? Ma quella non è un problema, si sa che chi esce dal liceo classico può affrontare qualunque tipo di studi universitari". Eh si, però cazzo, c'è un piccolo problema: nella mia esperienza chi esce dal liceo scientifico e intraprende uno studio universitario di tipo scientifico ha comunque una buona probabilità di conservare un livello decente di cultura umanistica, costruito proprio in quei cinque anni di liceo; nella sua vita si interesserà di storia, di letteratura, di arte, di musica, di teatro, di cinema, ecc. Ne ho incontrati tantissimi (un tratto comune alla maggioranza degli studenti universitari in discipline scientifiche). Chi invece esce dal liceo classico e prosegue gli studi universitari in senso umanistico rischia di aver perso la possibilità di costruirsi negli anni più fecondi un minimo di basi culturali scientifiche, e nel tempo sarà probabilmente destinato ad una condizione di analfabetismo scientifico e tecnologico. Più che altro per un fatto di valori culturali alterati da anni di declino scientifico italiano. Il dramma è che a causa di questo non sentirà quasi mai nella sua vita il bisogno di capire la scienza, e di dedicarci tempo e riflessione. Una lacuna nella cultura media di una persona che nella nostra civiltà occidentale assume una gravità estrema. In Italia gli effetti si vedono.