sabato 31 dicembre 2016

La sesta estinzione - Seconda parte

(leggi la prima parte ...)

L'idea sarebbe questa: con il suo eccezionale progresso scientifico e tecnologico, la sua fame di materie prime e di energia, i suoi livelli incontrollati di produzione e di consumo raggiunti nell'ultimo secolo (e la conseguente produzione di inquinanti), l'uomo sta cominciando a mettere in crisi l'equilibrio biologico del pianeta, anzitutto provocando l'estinzione di un numero significativo di specie viventi, con una velocità che non ha paragone con quella che può essere definita una fisiologica estinzione di fondo, e che deve essere quindi annoverata tra le estinzioni di massa. Nel passato estinzioni di massa ce ne sono già state, determinate da varie ragioni. In particolare se ne registrano 5 di grandi dimensioni, ed è il motivo per cui quella attuale viene definita "sesta estinzione". Questa idea ha generato a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso una ricca letteratura e attualmente si presenta come un vero e proprio tormentone (sulle televisioni, sui giornali, su Internet).

Anche i due libri che ho letto alla fine arrivano ad una conclusione simile ma passando per una serie di considerazioni interessanti che danno certamente più respiro al problema e gli conferiscono una dimensione diversa. La domanda che mi è parsa più significativa e che più o meno implicitamente entrambi i libri si pongono è la seguente: quando è cominciata la sesta estinzione? In che momento della nostra storia potremmo pensare di averla cominciata a scatenare?

La risposta mi è parsa altrettanto significativa: praticamente da subito, cioè da quando l'uomo fa l'uomo. Quantomeno da quando le nostre capacità migratorie e di specie colonizzatrice si sono manifestate in modo chiaro. La migrazione massiccia di una nuova specie su un habitat generalmente ne sconvolge l'equilibrio ecologico e questo invariabilmente produce un nuovo equilibrio in cui molte specie preesistenti non trovano più posto. Gli esempi sin dalla preistoria sono diversi: l'estinzione della megafauna dell'America settentrionale, un fenomeno analogo in Australia, la scomparsa di quasi il 50% di specie (perlopiù uccelli di grandi dimensioni) in Nuova Zelanda. Il denominatore comune di queste gravi estinzioni locali sembra essere proprio la presenza umana, con la sua attitudine alla caccia e alla modifica dell'ambiente. Il libro di Leakey dice: "Durante il Pleistocene molte regioni hanno subìto la perdita di specie animali di grossa taglia; tuttavia queste estinzioni hanno avuto luogo in tempi diversi. Nel caso dell'Australia, del Nord America, della Nuova Zelanda e del Madagascar, la perdita di specie coincise con la colonizzazione degli esseri umani. Le estinzioni furono causate dalla combinazione di un'eccessiva pressione venatoria con la distruzione dell'habitat".

Le grandi capacità migratorie della specie umana hanno anche, praticamente da sempre, generato forti squilibri negli ecosistemi con cui l'uomo entrava in contatto attraverso un meccanismo che di fatto può essere visto come connaturato alla migrazione stessa. Si tratta del trasporto forzato di specie da una parte all'altra del pianeta. Questi spostamenti di lungo raggio sarebbero impossibili per la maggior parte delle specie, e certamente non con la velocità consentita dal "vettore" umano. I meccanismi evolutivi e gli equilibri di un ambiente biologico sono fortemente condizionati dalle barriere geografiche, abbatterle significa causare in modo repentino situazioni alterate a cui molte specie non sanno rispondere se non con la propria estinzione. Per dirla come il libro di Kolbert: "Una delle caratteristiche che più colpiscono dell'Antropocene è il pasticcio che si combina con i principi della distribuzione geografica. [...] un'unica nave cisterna può annullare milioni di anni di separazione geografica". La Kolbert chiama questo fenomeno "la nuova Pangea".

Di nuovo Leakey nel suo libro ci dice: "La capacità della specie umana di infliggere devastazione al mondo naturale in termini di estinzioni significative venne per lungo tempo ritenuta un fenomeno storico relativamente recente", attribuendo alle generazioni precendenti la capacità di essere in armonia con la natura, anzi, di far parte di quella armonia. "Ma [... ] molte società pre-europee provavano esattamente gli stessi sentimenti verso i propri antenati". Probabilmente in qualunque epoca della nostra storia noi abbiamo pensato sempre di stare a rovinare un paradiso terrestre che in un qualche momento ci vedeva in armonia con il resto del creato, una situazione idilliaca che evidentemente non ci siamo meritati. La storia del pianeta ci dice che questo idillio non c'è mai stato, che l'armonia del creato è al massimo un equilibrio dinamico che può essere sconvolto in qualsiasi momento da fattori esterni o interni di varia natura, e che l'uomo, in questo suo essere "infestante" per molti degli ambienti naturali che via via ha colonizzato, appare anch'esso come un elemento naturale.

Manca forse qualche considerazione sulle responsabilità che abbiamo nella gestione del nostro futuro. Alla luce di quello che siamo veramente stati fino a questo momento.

lunedì 26 dicembre 2016

Tecniche narrative di fishing

Ho una certa insofferenza per le serie televisive, che pure vanno di gran moda ultimamente. Il motivo principale credo sia la mia incapacità ad avere la continuità che serve per seguirle con soddisfazione. La sola idea di cominciare a vedere una serie televisiva che si presenta come costituita complessivamente da cinque stagioni di dodici episodi l'una mi toglie qualsiasi forza di volontà. E il fatto che qualche volta si dica "sei arrivato solo al quarto episodio? se arrivi al settimo-ottavo vedrai che comincia a piacerti" mi pare veramente allucinanate. Che cos'è? Assuefazione?

Ciononstante ultimamente, anche per seguire mio figlio, ho visto per intero la serie televisiva "Stranger Things" su Netflix. Non una serie qualunque, ma una di un certo successo, di cui si è parlato parecchio. Sinceramente molte idee erano piuttosto fesse, e soprattutto mi suonavano tutte già viste o sentite. Ad esempio quella della madre che si fa di LSD negli anni settanta e la figlia presumibilmente per questo viene fuori con poteri paranormali (!). Oppure quello di una ragazza che si infila in un buco di un albero e passa improvvisamente in un mondo parallelo (grosso modo come Alice nel Paese delle Meraviglie). Tra l'altro qualche volta mi sembra di intuire che certe "citazioni" da storie o film del passato vengano pure considerate positivamente, come elementi che danno una certa nobiltà a quello che si sta vedendo. A me sembrano solo copie di cose già viste.

Indubbiamente sono "prodotti ben fatti", in tutte le loro parti: sceneggiature, scenografie, musiche, riprese, effetti speciali. Tutto ad un livello di qualità molto alto. Però a me ricordano i "comfort" di cui sono dotati tutti i vari prodotti tecnologici, dalle automobili ai telefonini. E non mi entusiasmano, non lo hanno mai fatto. Men che meno in un lavoro di cinematografia.

La cosa che mi ha colpito di più è la struttura narrativa. I punti di forza sono gli elementi lasciati in sospeso, le soluzioni non risolte. Queste determinano il passaggio da un episodio all'altro e da una serie all'altra, in una serie di rilanci potenzialmente infiniti. Si capisce che gli autori non hanno come obiettivo quello di raccontare una storia piena, seguendo una traiettoria che non la renda prevedibile ma le dia una fisionomia e una logica comprensibile. Gli autori hanno il compito principale di portarti da un episodio all'altro, da una stagione all'altra, lasciandoti sempre parzialmente insoddisfatto e affamato di un "dopo". E' una sorta di fishing narrativo, lo scopo è quello di farti abboccare al consumo di un ennesimo episodio. Si tratta secondo me di consumismo cinematografico, di induzione al consumo di ore di televisione.

Possono prodotti del genere essere di grande qualità, se per qualità si intende qualcosa di diverso da una semplice confezione paracula di idee più o meno riciclate? Certamente si, ma l'iperproduzione non aiuta nè a fare nè a riconoscere cose belle per le quali val la pena perder tempo. E' una cosa faticosa e non mi diverte. Un po' come quando ti passi un intero centro commerciale per rivedere cento volte più o meno gli stessi quattro capi di abbigliamento. Estenuante.

Tenterò altre esperienze.

martedì 20 dicembre 2016

I prof da prendere in giro

In un prato davanti ad un laghetto, nella pausa del dopopranzo di una domenica con amici e parenti, mia nipote appena maggiorenne mi racconta episodi di scuola. Il più divertente è quello del voto basso ad un compito di matematica portato con destrezza e fortuna alla sufficienza. Il voto iniziale era scoraggiante: quattro e mezzo. Addirittura il compito era stato giudicato facile dall'insegnante che nel valutarlo anzichè partire da un massimo di 10 era partita da un massimo di 9. Un primo successo era stato quello di convincere la prof ad alzare il voto a 5, con una serie di argomenti improbabili, del tipo "volevo scrivere questo ma mi sono sbagliata", per stessa ammissione della diretta interessata che me lo raccontava divertita. Un secondo successo era invece arrivato in modo fortuito: siccome gli studenti che avevano ottenuto il massimo si erano lamentati perchè non era giusto partire da un massimo di 9 la prof si era lasciata convincere e aveva portato il loro voto a 10, dunque aveva alzato tutte le valutazioni di un punto per giustizia verso il resto della classe.

Ma le vedo solo io le assurdità di questo episodio?

Come si fa a correggere la valutazione data ad un compito scritto dopo una chiacchierata fatta più o meno di scuse con l'interessata? Come si fa a correggere tutte le valutazioni alzandole di un voto "per essere giusti" nei confronti di tutta la classe? E non capire che in questo modo chi aveva preso 9 ha un voto aumentato del 10% e con ciò non modifica la sostanza dell'esito del compito, e chi invece aveva preso 5 se lo trova aumentato del 20%, e soprattutto passa da un'insufficienza ad una sufficienza? (e sei l'insegnante di matematica).

Si, in questo episodio ci sono delle assurdità nella gestione di un compito in classe e della didattica in generale, ma certamente ad accorgermene non sono solo io (quello non sarebbe niente), sono tutti i ragazzi della classe, mia nipote compresa, che non a caso giustificava tutto l'episodio dicendo che "tanto la materia era secondaria" (secondaria? matematica?) e che queste cose con quell'insegnante "si potevano fare" (sorrisetto).

domenica 4 dicembre 2016

Stallo su un referendum

Sono davanti alla TV, sto aspettando con curiosità i primi risultati del referendum costituzionale. Non ce l'ho fatta ad andare a votare, sono rimasto a guardare, come sto facendo ora.

La campagna referendaria è stata insopportabile. La strumentalizzazione spesso ignobile, la polarizzazione estrema delle opinioni e la faziosità delle tesi è stato quanto di peggio si possa avere per un referendum del genere. Non ne usciremo fuori bene, qualunque sia il risultato.

Arrivano adesso i primi exit-poll, tutti orientati per il NO, con un buono scarto che sembrerebbe essere sufficiente anche per le prossime eventuali correzioni statistiche.

Credo che il governo attuale abbia fatto una delle sue più grandi stronzate, e questo non perchè probabilmente perderà il referendum (come sembrerebbe dai primi dati) ma comunque. Non si può fare in questo modo una riforma costituzionale e non ha senso scommetterci sopra il futuro di un governo, è del tutto improprio. Questo non ha fatto altro che scatenare le opposizioni in modo altrettanto improprio e rendere impossibile un dibattito decente che fosse esclusivamente nel merito della riforma.

Io non posso non vedere in tutto questo un segnale di degrado. Delle istituzioni, della classe politica (che è il vero problema grave e urgente dei nostri giorni, altro che regole costituzionali), dei mezzi di informazione e forse di buona parte della nostra società.

In bocca al lupo a tutti noi.
(vado a letto su una dichiarazione di Brunetta gongolante .... mio Dio!)

domenica 20 novembre 2016

La sesta estinzione - Prima parte

Recentemente ho letto uno di seguito all'altro due libri che hanno lo stesso titolo, quello del post. Ad essere precisi hanno due diversi sottotitoli. L'argomento trattato è lo stesso ma ovviamente gli autori sono diversi e anche il taglio con cui lo stesso argomento viene proposto è diverso. Dunque aveva senso leggerli entrambi. Tra l'altro la scoperta di due libri con lo stesso titolo l'ho fatta in corso d'opera, cioè mentre leggevo il primo che avevo comprato, dunque la cosa mi è anche risultata piuttosto buffa ("ma questo è il libro che sto leggendo? per caso un'edizione diversa? ma anche gli autori sono diversi, com'è possibile? ....").

Il primo che mi è capitato di comprare è il più recente ed è stato scritto da una giornalista, Elizabeth Kolbert. Il libro ha ottenuto anche il premio Pulitzer 2015. Il secondo invece risale a qualche anno prima ed è scritto a quattro mani da un famoso paleontologo, Richard Leakey, e da un divulgatore scientifico, Roger Lewin. Di fatto è farina del sacco di Leakey, esplicitamente dichiarato nella premessa, il quale per scrivere bene ha avuto bisogno della consulenza di uno che più di lui è abituato a farlo. Non mi risulta che questo secondo libro abbia ricevuto particolari premi e riconoscimenti ma certamente il suo autore ha una fama eccezionale. Si tratta di uno dei maggiori paleontologi viventi, attivo soprattutto nella ricostruzione delle origini dell'Uomo, proseguendo peraltro quello che avevano fatto i suoi altrettanto illustri genitori, Louis e Mary Leakey, autori di fondamentali ritrovamenti, quali il Ragazzo di Turkana e le Orme di Laetoli.

L'argomento è quello che emerge in maniera abbastanza ovvia dal titolo: stiamo assistendo ad un fenomeno di estinzione di massa delle specie biologiche sul pianeta Terra e quella attuale è almeno la sesta estinzione di massa che si è verificata nella storia, stando alle testimonianze geologiche e fossili. In realtà il libro di Leakey descrive una storia un pò più complessa, fatta di numerosi episodi di estinzione più o meno gravi, ma la sostanza è che effettivamente la storia biologica della Terra non è quella di un processo di evoluzione costante, bensì risulta costellata (almeno nell'ultimo mezzo miliardo di anni, che è poi quello degli organismi pluricellulari complessi) da episodi catastrofici. Il fenomeno dell'estinzione è del tutto fisiologico nella storia della nostra biosfera, tanto quanto quello della speciazione, ma lo studio delle testimonianze fossili e delle stratificazioni geologiche hanno indotto a distinguere la cosiddetta estinzione di fondo dagli episodi delle estinzioni di massa, come fatti qualitativamente (oltre che quantitativamente) differenti.

Le domande principali che ci possiamo fare di fronte a questi eventi possono essere due: appurata la loro esistenza e la loro ricorrenza nella storia della vita sulla Terra, quali sono le cause delle estinzioni di massa? E quali sono le loro conseguenze?

Le cause posso essere varie, e i due libri ovviamente si soffermano a descriverne parecchie. Ovviamente queste cause, quali che siano, determinano la modifica di una serie significativa di parametri ambientali. Ma il carattere peculiare dell'estinzione di massa è la velocità con cui avvengono tali modificazioni, perchè questa può essere tale da non consentire alle specie viventi di elaborare nei tempi necessari una risposta adattativa adeguata (si pensi come esempio più eclatante alla famosa ipotesi dell'impatto con un meteorite nell'estinzione del Cretaceo). Quindi in queste fasi si ha una vera e propria sospensione dei meccanismi evolutivi darwiniani (che sono quelli che generano il normale fenomeno dell'estinzione di fondo) sostituiti da meccanismi di selezione puramente fortuiti, del tutto contingenti. Secondo S.J.Gould è anche per questo motivo che "la storia della vita presenta una casualità irriducibile".

Le conseguenze sono interessanti per come vengono descritte nei due libri (specie in quello di Leakey). Presa nei suoi aspetti immediati un'estinzione di massa non può che essere definita una catastrofe. Perdere due terzi della diversità biologica del pianeta in tempi (geologicamente) brevi non sembra niente di buono. Ma la situazione che si viene a creare è quella di un numero consistente di nicchie ecologiche che si liberano e fanno spazio a potenziali forme di vita successive. Cioè da una situazione di "saturazione biologica", fatta da un numero elevato di specie in relativo equilibrio tra loro, si passa ad una nuova situazione molto instabile ma potenzialmente ben più feconda. Le estinzioni di massa sono cioè eventi distruttivi e creativi insieme, danno nuove possibilità al vivente, consentono l'affermarsi di nuove soluzioni. L'ultima di queste situazioni feconde ha determinato l'ambiente favorevole alla nascita di Homo Sapiens. Richard Leakey usa una metafora teatrale per descrivere questi passaggi drammatici: "Se si considera la storia della vita come un dramma messo in scena sul pianeta Terra, lo si può immaginare disturbato da ripetute interruzioni, dopo ciascuna delle quali il cast sul palcoscenico cambia: alcuni personaggi, prima importanti, scompaiono del tutto o assumono ruoli minori; altri, prima dietro le quinte, ora entrano in scena con ruoli da protagonisti [...]. Homo Sapiens è uno dei personaggi la cui presenza sulla scena fu influenzata dallo sconvolgimento causato dall'ultima estinzione di massa, quella che ebbe luogo alla fine del Cretaceo".

Ma in realtà la tesi dei due libri è che l'estinzione del Cretaceo sia la penultima, perchè nell'ultima ci siamo dentro. Dunque è questa che ci interessa di più, ed è su questa che ci vogliamo fare le stesse domande: quali sono le cause? Quali saranno le conseguenze?

(leggi la seconda parte ...)

lunedì 14 novembre 2016

Il lato perverso della beneficenza

Le attività di beneficenza sono sempre più diffuse nella nostra società, uno dei motivi è sicuramente che si sono moltiplicati i modi facili e asettici per farlo. Difficile averne un'opinione negativa, specialmente in certe situazioni. Però è evidente che quasi sempre si può ravvedere in essa un comportamento tipico di una società che accetta le disegualianze, e in certi casi addirittura un comportamento connivente con le ingiustizie sociali.

Purtroppo molto spesso si sente pronunciare la solita frase "gli extracomunitari vengono a rubare il lavoro agli italiani". Una frase dai contenuti razzisti, il cui peggior difetto però è secondo me quello di approssimare brutalmente la realtà, e quindi di falsarla. In fisica si direbbe che è un'approssimazione talmente grande da far perdere i contenuti significativi del problema che si vuole effettivamente descrivere. Frequentemente a questa frase si risponde dicendo che "in realtà gli extacomunitari vengono in Italia a fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare". Questa risposta spoglia l'argomento iniziale dai suoi contenuti razzisti, che è poi il motivo per cui fondamentalmente viene pronunciata, ma secondo me di nuovo è ancora un'approssimazione che non rappresenta così bene la realtà. Usarla come slogan per rispondere agli altrettanti slogan degli xenofobi può avere una qualche giustificazione ma non la rende più vera.

Una signora telefona alla radio sostenendo con forza che non ne può più di sentir dire che gli italiani non vogliono più fare certi lavori, trova questa affermazione anche offensiva. Racconta che questa estate lei e la figlia hanno girato invano per varie aziende agricole della loro zona nel tentativo di poter fare la raccolta della frutta. Non perchè ne avessero bisogno per campare ma perchè la madre, ricordando di averlo fatto da ragazza, voleva proporla alla figlia, per il classico gruzzoletto che a quell'età ti può rendere in parte indipendente. Il primo lavoretto, insomma. Tutte le aziende agricole rispondevano invariabilmente che non avevano bisogno, salvo poi constatare che le campagne nei dintorni erano piene di extracomunitari impegnati nella raccolta.

Perchè le aziende agricole scelgono di dare il lavoro solo agli extracomunitari? Ovvio, li pagano meno, li trattano in un modo in cui non si potrebbero permettere se fossero cittadini italiani. Le aziende agricole colpevolmente fanno margini su questo. A seguito di questa scelta colpevole gli extracomunitari non riescono a sostentarsi adeguatamente con i trattamenti economici da fame proposti e quindi attorno a loro agiscono varie organizzazioni umanitarie (onlus, boy scout, parrocchie, ecc.). Queste organizzazioni, anche se non dovessero ricevere nulla dallo Stato, ottengono finanziamenti attraverso le tante donazioni di beneficenza che arrivano in vario modo dai cittadini italiani. Purtroppo il risultato è che tali attività di beneficenza alla fine consentono alle aziende agricole di aumentare in modo significativo i loro margini di guadagno, sulle spalle degli extracomunitari, che così non riusciranno mai ad uscire da una situazione di povertà umiliante, e sulle spalle di tutta la comunità. Quest'ultima però non soffre, perchè la beneficenza è volontaria e dunque sostenibile, non intacca il benessere delle persone che la fanno. Al netto rimane l'ingiustizia sociale verso gli extracomunitari. Tutte le ingiustizie sociali rimangono immutate al passaggio delle varie azioni di beneficenza.

lunedì 31 ottobre 2016

La società vuole questo?

Mi dà sempre un certo fastidio avere a che fare con persone che tendono a parlare sempre e solo del proprio lavoro. Fortunatamente è una cosa abbastanza rara e in certi casi potrebbe anche essere falsata dalle circostanze. Qualche volta cerco anche di spiegarmela in modi che più o meno funzionano. Ad esempio sono persone che conosco e frequento solo negli ambienti di lavoro, poi magari mi ci imbatto nei vari social dove tutto sommato è legittimo circoscrivere i propri interventi solo ad argomenti di lavoro. Eppure specie per alcuni di loro mi è proprio capitato di pensare se mai riuscissero a parlare di qualcos'altro, se mai fossero capaci di passare il tempo libero (quel poco che hanno) ragionando su cose complesse ma completamente scollegate dalla loro attività produttiva, piuttosto che impiegarlo diligentemente in una qualche attività fisica (perchè si sa, lo sport fa bene, e mette a riposo il cervello, che deve servire solo nelle ore di lavoro).

Il fastidio cresce quando certe volte mi sembra di intuire che questo modo di vivere un po' aberrante è più una rappresentazione che una realtà vissuta (in un certo senso meno male). Una rappresentazione che è spesso ostentata proprio sui social o in generale su Internet. Proprio quest'ultimo aspetto mi colpisce particolarmente. Scegliere di proiettare su Internet solo la propria immagine professionale mi stranisce, io sono portato a fare esattamente l'opposto, e credo che comunque sia istintivo (almeno per me) cercare un equilibrio, come si fa nella vita di tutti i giorni. Il fatto poi che io percepisca dietro questi comportamenti un modello da rappresentare la considero una cosa ulteriormente irritante.

Il fastidio cresce ancora di più quando sono costretto ad ammettere che questa rappresentazione di specialismo estremo è utile (nel lavoro ovviamente). Mette bene in vista, consente di essere sempre ben informati, di non cadere mai dal pero, di non essere mai presi alla sprovvista. Restituisce un'immagine estremamente professionale, esattamente l'immagine che si vorrebbe da uno che lavora. E' proprio qui il punto: questa cosa è un valore. La cosa che io non posso che considerare aberrante è di fatto un valore, non solo per la società per cui lavori, ma proprio per la società tutta. Quella che io giudico una sorta di tossicodipendenza del cervello la sento anche serpeggiare nella società (in una parte della società) come una condizione rispettabile dell'individuo, prevalentemente quello di sesso maschile, perchè per quello femminile sono spesso ancora validi (e codificati) dei "diversivi" che se non ci si ostina sempre a leggerli come "intralci alla carriera" risultano invece elementi desiderabili di normalità. Tutto questo ogni tanto agita un po' le mie giornate lavorative.

Ma che vuole la società da noi? Non mi interessa l'opinione del singolo individuo, cerco proprio i messaggi che l'intera società in modo più o meno esplicito comunica ai singoli elementi che la costituiscono. Secondo me questi messaggi a ben vedere ci sono, e i modi per comunicarli sono tanti e complessi, e vanno scovati e portati alla luce in modo razionale. Quello che posso dire è che molto spesso questi messaggi proprio non mi piacciono.

domenica 23 ottobre 2016

Autodisciplina

Mio figlio faceva la prima media già da qualche mese quando ha ricevuto il suo primo smartphone, ed era impossibile procrastinare ulteriormente questo regalo. Era ormai l'unico tra i suoi coetanei a non averlo. Per un genitore questo significa principalmente aver dotato il figlio di uno strumento di reperibilità, ma secondo me questa esigenza sorgerà realisticamente solo tra qualche anno. Al momento, a meno che non lo si voglia reperibile nel tragitto tra scuola e casa o viceversa, lo smartphone non ha ancora questa funzione.

Per mio figlio lo smartphone all'inizio significava principalmente un ennesimo dispositivo elettronico con cui giocare. Nel giro di un paio d'anni, a cavallo tra elementari e medie, la sua attività di gioco e svago quotidiano si è spostata quasi integralmente su strumenti digitali. Però quasi immediatamente con il suo nuovo smartphone ha cominciato a fare la sua prima esperienza di rete sociale attraverso whatsapp. Ovviamente entrando nel gruppo della sua classe. Quasi contemporaneamente è aumentata la frequentazione di YouTube, al momento su canali legati essenzialmente ai videogiochi.

Su questo terreno sono cominciati a sorgere alcuni problemi su cui ogni tanto mi fermo a pensare. In sintesi alla fine questi problemi sono: uso eccessivo del digitale, linguaggio pesante e volgare della comunicazione, controllo del materiale fruito sulla rete. Più o meno i timori che assalgono un qualunque genitore. Qual è la strategia educativa migliore in questo caso? Creargli delle restrizioni di tempo e di manovra? Imporre degli strumenti di controllo parentale? Insomma costruirgli una disciplina dall'esterno?

Io non ci credo alla disciplina portata nella vita di una persona dall'esterno, cioè da un'altra persona. La disciplina ha veramente senso solo quando è autodisciplina. Cioè deve essere una scelta libera. Tutto nella vita di una persona deve somigliare il più possibile ad una scelta libera. Effettivamente si tratta in molti casi di avere disciplina nell'uso degli strumenti, di avere senso della misura, di capire il bello e il brutto di un mezzo di comunicazione. Ma per farlo bisogna ragionarci, e per ragionarci bisogna provarlo, e per provarlo veramente bisogna rischiare. Si deve uscire allo scoperto se si vogliono affilare gli strumenti critici. Altrimenti non si riesce mai veramente ad avere un'opinione personale in merito ad alcunché.

Il mio compito può essere solo quello di aiutarlo a ragionarci.

Nota: Anni fa mi è capitato di avere a che fare con dei militari, frequentati all'interno della loro caserma per ragioni di lavoro. La cosa che mi ha sorpreso di più del loro comportamento verso di me è stata l'incredibile indisciplinatezza, ad un livello che raramente ho riscontrato in altri ambienti. Strano per dei militari. Poi però il richiamo di un tenente colonnello ad una attività oggettivamente secondaria e la risposta pronta e appecoronata di queste persone mi ha chiarito le idee. La disciplina di un ambiente militare è in realtà l'espressione della gerarchia, la manifestazione di un potere, che ovviamente può tranquillamente esistere in varia misura in qualsiasi ambiente di lavoro che voglia essere efficiente ma che in un ambiente militare viene elevata a valore supremo. E per questo diventa ridicola. Niente di poi così strano dal momento che l'obbedienza ferrea e totalmente acritica alla gerarchia è fondamentale in regime di guerra. E niente di strano se poi quelle stesse persone al di fuori dell'ambito che gli impone anche solo formalmente certi comportamenti non manifesti la benché minima capacità di autodisciplina.

domenica 18 settembre 2016

Quale cultura manca?

Una di queste mattine alla radio sento un ragionamento tipico di questi ultimi giorni che più o meno suona così: in Italia non si mettono in sicurezza gli edifici per proteggere adeguatamente le persone dai terremoti, questo lo dobbiamo anche ad una cronica carenza di cultura scientifica nel nostro paese.

Diciamola bene, non trattare il rischio sismico in zone dove questo rischio è molto alto è una mancanza di cultura tecnologica. Benchè scienza e tecnologia siano discipline in costante comunicazione tra loro, si possono distinguere. Lo studio dei terremoti, delle loro cause, della loro prevedibilità o imprevedibilità, dei loro effetti sull'orografia, attiene alla scienza; lo studio dei rischi di sicurezza collegati agli effetti del terremoto sulle abitazioni civili e la loro mitigazione o eliminazione attiene alla tecnologia. Non è una separazione così oziosa, non serve a dire chi si occupa di cose importanti e chi no, serve a fare chiarezza sui vari ambiti di una conoscenza complessiva. Conoscere tutti gli elementi possibili di un fenomeno naturale come il terremoto aiuta a sviluppare piani tecnologici antisismici, che però coinvolgono parecchi altri saperi. La tecnologia quasi sempre fa convergere in modo necessario una serie di saperi eterogenei, questo è probabilmente il suo principale motivo di fascino e la sua intrinseca complessità.

Probabilmente siamo ormai avvezzi a chiamare sempre in causa la nostra ignoranza scientifica, lo facciamo in varie occasioni a sproposito. Forse è anche una semplificazione del linguaggio giornalistico. Magari dietro c'è il fatto che siamo convinti che la cultura tecnologica sia ormai solo quella digitale e che questa si misuri semplicemente dal numero dei dispositivi elettronici che compriamo. Banalizziamo tutto.

sabato 3 settembre 2016

Un esperimento di satira

Oggi mi è capitata l'occasione di riflettere sulla satira e sui suoi meccanismi. Ciò grazie ad un esperimento fatto in un certo senso anche su me stesso. Mi riferisco alla vignetta di Charlie Hebdo sul recente terremoto in Italia.

La vignetta (in francese) si intitola "Séisme à l'italienne" (terremoto all'italiana), e mostra tre tipi di pasta italiane con sotto le vittime del terremoto, il sugo della pasta è il sangue, le lasagne finali sono strati di morti e macerie.

Avevo già scritto (qui) sulla libertà di espressione relativamente ad altre vignette sempre della stessa testata, che avevano causato un tragico episodio di violenza. Ovviamente continuo a pensare quello che avevo scritto allora: "Non tollerare la satira (comunque venga fatta) fino a pensare di eliminare fisicamemte chi la fa è simbolico di un attacco inequivocabile alle libertà fondamentali che una società deve secondo me conservare a tutti i costi". Ma l'esercizio è stato questa volta quello di controllare razionalmente un certo sbandamento iniziale dovuto al fatto che la satira adesso colpiva me, o meglio gli italiani, di cui mi sento parte.

La prima sensazione è stata una buona dose di irritazione nel vedere una vignetta tutto sommato brutta. Tra l'altro seguita da un'altra, che avrebbe voluto spiegare meglio la prima, ancora più brutta. Sinceramente questa irritazione nel vedere a suo tempo le vignette (almeno altrettanto brutte) su Maometto non c'era stata. Quindi che la vignetta fosse brutta non c'entrava granchè. Anzi, ripensandoci, il fatto che fosse brutta forse mi risolveva un problema. Credo che proprio per questo ci ho messo anche il carico da undici mettendo in dubbio la qualità di quella satira.

Fin qui la dimensione strettamente personale dell'esperimento. Poi forse ce ne è anche una sociale. Il rilevare un po' ovunque una sequela di giudizi negativi su queste vignette ha probabilmente alimentato il mio conformismo, così come lo avrà fatto su tutti i miei concittadini.

Il risultato è che ho indubbiamente constatato che farsi troppo coinvolgere sul piano emotivo da una parte rischia di nascondere elementi importanti del messaggio satirico, analizzabili solo sul piano razionale, dall'altra però mette bene in luce la sua carica di provocazione. Nell'episodio delle vignette su Maometto il distacco emozionale aiuta a ridimensionare il problema (in fondo è solo una vignetta) e a vedere bene l'enormità delle reazioni intolleranti e censorie, ma certamente non aiuta affatto a capire la quantità di forza contenuta in quella satira (sembravano vignette abbastanza sceme e basta).

Quindi mi sono trovato esattamente all'opposto: forte emozione e fastidio perchè l'obiettivo mi coinvolgeva (era indubbiamente diretto anche a me) e qualche difficoltà a recuperare il piano razionale e ad analizzare quello che era stato scritto. La misura di questa difficoltà è data dal fatto che è stato necessario per me andare a riguardare la vignetta e ragionarci su a mente più fredda (aiutato anche da alcune considerazioni fatte e lette sui social).

E' stato anche molto interessante vedere che questo "raffreddare la mente" è un passaggio che non è detto che si riesca a fare, e per alcuni può essere giustificato (ad esempio per i parenti delle vittime, immagino) mentre per altri un po' meno (qualche giornalista, per esempio). Ovviamente ognuno deve fare i conti con le proprie sfere emozionale e razionale e alla fine, prima o poi, trovare un equilibrio.

La vignetta è tremenda ma il messaggio satirico, la critica sociale all'Italia, spietata ma purtroppo anche vera, è altrettanto chiaro e preciso. Non siamo capaci di proteggere i nostri cittadini da un terremoto che ai nostri tempi si può considerare di intensità medio-bassa, e questo non dipende da due o tre politici corrotti ma dall'intera società italiana, in varia misura, di cui anche io faccio parte. La forza di questa vignetta (e certamente anche la sua capacità di essere fastidiosa e graffiante) viene anche dal fatto di essere scritta da stranieri e probabilmente per stranieri.

Un bell'esperimento, con risultati inaspettati ma proprio per questo istruttivi e utili per il futuro.

giovedì 25 agosto 2016

Terremoti e cultura condivisa

E' un po' che mi capita di leggere e riflettere sulle conseguenze di una presunta progressiva scomparsa di una cultura condivisa. In pratica o si è specialisti di qualcosa o si è ignoranti, che poi è lo stesso; chi è estremamente specializzato in un settore particolarissimo della conoscenza è automaticamente semianalfabeta su tutto il resto. E' sempre più raro avere una buona cultura generale, forse perchè è sempre meno conveniente e sempre meno facile costruirsela. E probabilmente non è neanche un valore coltivato dalla nostra società, dove tutte le conoscenze che si acquisiscono durante la propria carriera scolastica a tutti i livelli sono sempre più giustificate da fini strettamente professionali. L'obiettivo non è quello di acquisire conoscenze ad ampio raggio per essere dei buoni cittadini ma quello di acquisire le giuste competenze per essere produttivi in una qualche professione.

Ma la cosiddetta cultura condivisa, ovvero l'insieme delle conoscenze raggiunte dalla gran parte dei cittadini, ha un'importanza cruciale per la società, più di quanto non sembri a prima vista. La concentrazione dei saperi in società sempre più complesse come le nostre è preoccupante almeno quanto la concentrazione delle ricchezze, e in una qualche misura vedo le due cose come collegate. Gli specialismi e le ignoranze, la parcellizzazione estrema delle conoscenze ha indubbiamente delle conseguenze negative a cui sto cercando di fare attenzione.

Questa mattina ad una trasmissione radiofonica sul recente terremoto in centro Italia (tra Norcia e Amatrice) un commento andava proprio in questa direzione. La tesi di chi parlava era che per mettere in sicurezza i nostri abitati vanno coinvolti (e aiutati) direttamente i privati, ovvero i proprietari, la popolazione. Ma per far questo prima ancora di erogare aiuti economici occorre soprattutto rendere il più possibile consapevole questa popolazione sia dell'entità del problema sia di come deve essere trattato. Il cittadino deve capire, perchè solo questo lo può convincere ad investire anche il proprio denaro per la propria sicurezza. Diversamente gli aiuti economici che provengono dallo Stato, e che comunque non sarebbero certo sufficienti (il problema su scala nazionale è immenso), hanno una buona probabilità di essere spesi male. A tutti i livelli della società deve essere ben comunicato e quindi ben compreso il difficile problema del rischio sismico, primo e più importante passo verso la sua (lenta) soluzione. Il problema prima di essere organizzativo è conoscitivo. Si tratta di conoscenze importanti che devono essere patrimonio di tutti, pena il fallimento di qualsiasi piano di sicurezza.

Questo mi pare un classico esempio di come il patrimonio di conoscenze condivise di una società sia di importanza decisiva per la società stessa. Altrimenti a fronte di ampie conoscenze sul rischio sismico (per pochi specialisti) ci saranno altrettanto ampie fasce della cittadinanza che non saranno in grado neanche di porsi correttamente il problema, o di analizzarlo decentemente (come purtroppo risulta dai molti commenti assurdi sui terremoti che girano allegramente sui social ad ogni triste evento di questo genere).

domenica 31 luglio 2016

La matematica di Hardy

Poco tempo fa ho visto il film L'uomo che vide l'infinito. Tratto da un libro di Robert Kanigel del 1991, il film narra della ben nota vicenda del giovane e sfortunato matematico indiano Srinivasa Ramanujan. Sarà stato anche per l'ottima interpretazione di Jeremy Irons, fatto sta che la visione di questo film mi ha indotto a rileggere il bel saggio di Godfrey H. Hardy Apologia di un matematico (1940).

Hardy nel suo libro racconta della "sua" matematica, non nel senso della matematica che ha contribuito a costruire con i suoi studi, ma nel senso di come lui concepiva questa disciplina. Lo fa con un tono complessivamente malinconico in quanto al momento in cui scrive è alla fine della sua carriera, sa che la sua produttività non potrà più essere quella di prima, e lo scrive chiaramente. E' sufficiente leggere un paio di frasi del primo capoverso del saggio per capirne il tono. La frase con cui comincia il capoverso: "Per un matematico di professione è un'esperienza melanconica mettersi a scrivere sulla matematica. La funzione del matematico è quella di fare qualcosa, di dimostrare nuovi teoremi e non di parlare di ciò che è stato fatto da altri matematici o dai lui stesso". E quella con cui lo conclude: "Non c'è disprezzo più profondo nè, tutto sommato, più giustificato di quello che gli uomini 'che fanno' provano verso gli uomini 'che spiegano'. Esposizione, critica, valutazione sono attività per cervelli mediocri". E di seguito comincia a parlare di matematica: esponendo, criticando, valutando.

Quello che ne esce fuori è una difesa (appunto un'apologia) della "sua" matematica (perchè certo si può non essere sempre d'accordo con quello che dice). Alcune sue considerazioni, sebbene in certi casi mi appaiano contraddittorie, colpiscono notevolmente. Prima di tutto la matematica è paragonata ad una attività artistica, e come tale estremamente creativa: "la vera matematica [...] si deve giustificare solo come arte". Viene accostata alla poesia e alla pittura: "Il matematico, come il pittore e il poeta, è un creatore di forme", e anche nobilitata rispetto a queste "perchè le sue forme sono fatte d'idee" e i suoi risultati sono di gran lunga più duraturi. Come per l'arte il criterio per distinguere una buona matematica è la bellezza: "La bellezza è il requisito fondamentale: al mondo non c'è un posto perenne per la matematica brutta". Anche se "E' senza dubbio molto difficile definire la bellezza matematica, ma questo è altrettanto vero per qualsiasi genere di bellezza".

Poi però parlando della realtà della matematica riflette sulla classica domanda: la matematica si inventa o si scopre? Per un'attività artistica non credo ci siano dubbi sul fatto che si tratti di una invenzione ma lui è quasi altrettanto sicuro che per la matematica non sia così: "Credo che la realtà matematica sia fuori di noi, che il nostro compito sia di scoprirla o di osservarla, e che i teoremi che noi dimostriamo, qualificandoli pomposamente come nostre 'creazioni', siano semplicemente annotazioni delle nostre osservazioni". Questa realtà della matematica è così forte che in un certo senso supera quella della fisica, cioè della conoscenza del mondo fisico: "Una sedia o una stella non sono affatto quello che sembrano essere; più ci pensiamo, più i loro contorni diventano indistinti nel groviglio di sensazioni che li circonda; ma '2' o '317' non hanno niente a che vedere con le sensazioni e le loro proprietà si rivelano tanto più chiaramente quanto più attentamente le esaminiamo. [...] 317 è un numero primo, non perchè lo pensiamo noi, o perchè la nostra mente è conformata in un modo piuttosto che in un altro, ma perchè è così, perchè la realtà matematica è fatta così".

Interessante è anche il suo argomentare sull'inutilità della matematica, almeno di quella non-banale. Il fatto che sia inutile, un prodotto del puro pensiero, un contributo al sapere senza riscontri pratici, è tanto discutibile quanto difeso con grande forza da Hardy, e presentato come elemento di nobiltà della disciplina. Ovviamente non può sostenere questa tesi tanto facilmente e buona parte del suo saggio è dedicato a costruire una distinzione (anche qui forse con qualche contraddizione) tra due matematiche: "Ci sono dunque due matematiche: la vera matematica dei veri matematici, e quella che chiamerò, in mancanza di un termine migliore, la matematica 'banale'. [...] Siamo arrivati alla conclusione che la matematica banale, nel suo complesso, è utile, e che la matematica vera, nel suo complesso, non lo è". Lui nella sua carriera si è sempre occupato di matematica inutile e questo forse lo mette pure un po' al riparo da un mondo che (soprattutto ai suoi tempi) usa i risultati della scienza in un modo non sempre nobile: "Non ho mai fatto niente di 'utile'. Nessuna mia scoperta ha aggiunto qualcosa, nè verosimilmente aggiungerà qualcosa, direttamente o indirettamente, nel bene e nel male, alle attrattive del mondo". In realtà oggi sappiamo che molta matematica dei numeri interi, che anche Hardy ha contribuito a costruire, ha applicazioni rilevanti in settori tecnologici cruciali per il mondo moderno, come per esempio l'informatica. Se i risultati della matematica sono duraturi, altrettanto non si può dire della loro inutilità, caro Hardy.

Il quadro generale è complesso (forse anche perchè contraddittorio), grandioso ed estremamente stimolante. L'opinione che Hardy ha della matematica e dell'attività del matematico è forse alla base del suo fecondo rapporto umano e di lavoro con il genio di Ramanujan, ben descritto nel film. E' vero, quando Ramanujan confessa il modo in cui arriva ad avere le sue folgoranti idee matematiche ad un Hardy curioso che su questo lo aveva stimolato più volte, e gli racconta che la fonte delle sue ispirazioni è la dea della sua famiglia, Namagiri, Hardy non lo può accettare, ateo com'è. Ma forse il mistero con cui il giovane Ramanujan arriva a "toccare la realtà della matematica" è un po' anche nelle sue corde, e certamente lo affascina.

Anche a me questa storia ha affascinato non poco, tanto che in uno slancio di entusiasmo e di affetto ho regalato il libro ad una mia amica che non conosce la matematica ma che certamente può arrivare a "toccarla", come chiunque.

giovedì 30 giugno 2016

Brexit

Ho delle idee ambivalenti e non del tutto risolte nei confronti della Brexit, sia per il referendum in sé sia per il suo esito.

Del referendum mi ha molto colpito il fatto che i cittadini britannici si siano potuti esprimere su una questione così importante di politica internazionale in un modo che a noi cittadini italiani non sarebbe consentito, visti i limiti imposti dalla nostra costituzione. Sotto c'è una questione per me piuttosto difficile da valutare correttamente riguardo la gestione della democrazia, o l'idea stessa di democrazia. E' molto affascinante che la cittadinanza si possa esprimere direttamente su una questione che sarà pure complessa ma che certamente ha un impatto diretto sulla vita dei singoli. Una domanda difficile da valutare ma almeno molto semplice da scrivere, se si vuole che sia così: il testo riportato sulla scheda è di una immediatezza che impressiona favorevolmente se confrontata con i testi incomprensibili dei nostri referendum.

Ma tutto questo è ambivalente, tutto quello che appare come intuitivamente positivo ha un significativo (e ben triste) rovescio della medaglia. Questo referendum mostra inesorabilmente i problemi che sorgono con gli strumenti di democrazia diretta. E' indubbio che una decisione sulla politica internazionale come quella fatta dalla Gran Bretagna richieda un'analisi razionale e attenta del problema, supportata da adeguate competenze. E' quello che ci si può aspettare (o pretendere) ragionevolmente dalla cittadinanza nel suo complesso? Il dibattito nazionale precedente al referendum si è in buona parte polarizzato su alcune paure (ad esempio quella dell'immigrazione e quella dei mercati), ovvero da atteggiamenti irrazionali, facilmente sfruttabili e strumentalizzabili dalle parti politiche, come effettivamente sembra essere successo. E' la dinamica chiave che definisce il populismo.

Si sa che questi rischi si mitigano con i classici strumenti della democrazia rappresentativa, che si basa sulla delega di decisioni importanti per il paese ad una ridotta classe di rappresentanti politici, specializzati e competenti, risultante da elezioni a suffragio universale. Ma se questo meccanismo di costruzione democratica di una valida rappresentanza politica non funzionasse? Perchè non è mica scontato che funzioni, o che funzioni bene. Se per qualche difetto del processo democratico questa rappresentanza rappresentasse bene solo una parte della società o addirittura solo se stessa (o poco più)? Per un cittadino medio che abbia degli strumenti culturali adeguati e la volontà di informarsi è più difficile esprimere un'opinione consapevole su un preciso problema anche complesso o scegliere consapevolmente dei rappresentanti politici che lo facciano per lui (pensando a lui quando lo fanno)? Il referendum della Gran Bretagna esprime una manipolazione populista o una reale volontà popolare? E la classe dirigente inglese cosa esprime?

E poi c'è la questione del risultato, certamente inaspettato, uscito fuori dalle urne. La domanda più significativa secondo me in questo caso sarebbe: ma per i cittadini, sia inglesi che europei, è un bene o un male il risultato di questo referendum? L'Europa in generale credo sia un bene, perchè lo è secondo me qualunque politica che integra i popoli, in quanto soluzione di convivenza pacifica (l'idea di Europa così come è uscita dalla seconda guerra mondiale era proprio questo). Ma c'è modo e modo di costruire una convivenza. L'Europa come funziona adesso è un bene? L'impressione è che una sempre più larga fetta della cittadinanza europea non sia più così d'accordo nel giudicarla un bene (e probabilmente questo referendum lo dimostra, se non lo si vuole giudicare come il risultato di un voto di una massa di ignoranti eterodiretti). E questa cittadinanza dovrà pure farsi sentire in qualche modo. Probabilmente rientrare sempre nei ranghi di questo mantra dell'Europa unita non fa bene a nessuno, quantomeno non aiuta a cambiare le cose. Perchè qualcosa deve cambiare per forza.

lunedì 30 maggio 2016

Confirmation bias

La notizia era quella di un aumento significativo della mortalità in Italia registrato nell'ultimo anno. L'articolo che avevo sotto mano ne discuteva le possibili cause. Pur essendo un'analisi provvisoria partiva con l'individuare (attraverso varie fonti) la mortalità anomala come sostanzialmente localizzata tra la popolazione anziana e metteva in luce varie possibili cause concomitanti. Una delle più plausibili e che può aver determinato l'incidenza maggiore nella statistica di mortalità è quella della mancata vaccinazione di una buona fetta della popolazione anziana dovuta all'episodio del "caso Fluad" (il Fluad è un vaccino anti-influenzale normalmente in uso), risalente all'inizio dell'inverno 2014-2015, cominciato con una segnalazione di presunti decessi legati all'assunzione di Fluad e proseguito con il ritiro cautelativo di due lotti del vaccino ed un conseguente calo significativo delle vaccinazioni (complessivamente intorno al 30%). In seguito l'emergenza è completamente rientrata, il Fluad scagionato senza riserve ma la risonanza mediatica dell'evento aveva ormai fatto il suo effetto.

L'articolo inizialmente mi ha impressionato molto. La mia reazione (psicologica più che razionale) è stata quella di dire tra me e me: "urca! vedi quanto conta la vaccinazione anche su un'affezione di cui abbiamo solitamente una percezione di semplice malanno stagionale?". E' sicuro però che in questa mia prima reazione c'era un certo desiderio di trovare una conferma dell'importanza delle vaccinazioni in un momento in cui secondo me sono irrazionalmente attaccate da certe "correnti di pensiero" facilmente reperibili in Internet. Devo dire che in seguito sono stato in grado di analizzare con un po' più di razionalità questo episodio e di ridimensionarlo anche in conseguenza del fatto che oggettivamente l'articolo da cui sono partito faceva onestamente solo una serie di ipotesi e come tali le riportava. Tra l'altro ne faceva più d'una e alcune di esse riguardavano più che altro una corretta interpretazione dei dati e individuazione di cause, interessanti ma di varia natura, che amplificavano significativamente la fluttuazione di mortalità registrata. Insomma solo una frazione dei dati poteva essere attribuita all'episodio delle vaccinazioni e tutto sommato non c'era ancora niente di certo.

Ciò che mi ha fatto ulteriormente riflettere è che ho avuto il sospetto che su di me, almeno per un po', abbia agito quello che viene chiamato confirmation bias o pregiudizio di conferma, che mi era capitato di leggere poco tempo prima in un articolo de "Le Scienze" a proposito di come viaggiano le informazioni su Internet. L'articolo segnalava come i social media (e Internet in generale) nonostante si possano considerare una straordinaria opportunità di informazione sono spesso veicoli di una diffusione incontrollata di tesi complottiste e pseudoscientifiche. Gli studi riportati ne individuavano la causa nella tendenza (misurabile) a selezionare i contenuti per pregiudizio di conferma, che in pratica significa andare a leggere tutto e solo quello che non fa altro che confermare un qualche tuo pregiudizio o, più sottilmente, a leggere tutto reinterpretandolo attraverso questo tuo pregiudizio. Se sono in parte convinto di una certa tesi tenderò a trovare in rete informazioni che me la confermano e a trascurare le informazioni di segno opposto, agganciandomi progressivamente ad una rete di amicizie che coltiva le stesse convinzioni e che rinforza automaticamente le mie. Si crea così una dinamica il cui principale motore per la diffusione dei contenuti sembra essere proprio l'omofilia, che ha come effetto la polarizzazione degli utenti della rete e approda ad una sostanziale incomunicabilità tra i gruppi polarizzati. Questo significa che le famose attività di debunking ormai molto diffuse in rete nella maggior parte dei casi finiscono per essere quasi totalmente inutili, lavoreranno cioè solo a favore del gruppo già polarizzato dalla parte giusta.

E' vero, il mio personale episodio di confirmation bias è "dalla parte giusta", ma questo non mi pare poi tanto significativo, lo è più il fatto che in parte sia riuscito razionalmente a controllarlo. E gli strumenti di questo controllo sono tutti culturali, educativi. Cercare e saper riconoscere le fonti autorevoli, esercitare il senso critico e le capacità analitiche e razionali e farle prevalere su quelle emotive e psicologiche. Ed avere la capacità di rimettere in discussione qualunque tesi quando si riconosce una ragione per farlo.

venerdì 29 aprile 2016

La definizione di probabilità

Ho già avuto modo di riflettere sul concetto di probabilità in un post precedente in relazione ai suoi aspetti poco intuitivi o addirittura controintuitivi che possono essere messi in evidenza in esempi concreti. Questi però non sono gli unici aspetti difficoltosi. La probabilità ad esempio rivela una certa complessità sin dal suo tentativo di definizione. In questo post prendo in considerazione proprio le definizioni di probabilità e le osservazioni che mi sono appuntato a seguito di letture interessanti sull'argomento, in particolare quella del libro di Paolo Agnoli e Francesco Piccolo "Probabilità e scelte razionali".

Parto da quella che spesso viene chiamata Definizione Classica: La probabilità P(A) di un evento A è il rapporto tra il numero N di casi "favorevoli" (cioè il manifestarsi di A) e il numero totale M di risultati ugualmente possibili e mutuamente escludentesi. La principale critica che si fa a questa definizione, che per certi versi sembra molto semplice e diretta e per questo si usa spessissimo, è che si tratta di una definizione in parte circolare in quanto assume il concetto di equiprobabilità per definire la probabilità. In genere la situazione di equiprobabilità viene desunta dalla simmetria del problema. Questa caratteristica del sistema è dunque fondamentale per applicare tale definizione. Un esempio classico è quello del dado da gioco, un cubo perfetto fatto di una sostanza omogenea che rende le sei facce indistinguibili (a parte il numero che c'è scritto sopra) e quindi equiprobabili. Vale lo stesso discorso anche per il "testa o croce" fatto con una moneta.

Un'altra definizione, di tipo più sperimentale, è la Definizione Frequentista: La probabilità di un evento è il limite cui tende la frequenza relativa di successo all'aumentare del numero di prove. Qui le critiche possono essere più d'una. Intanto si tratta di un'attribuzione di probabilità "a posteriori". La probabilità di un evento, stando a questa definizione, non è calcolabile a priori in nessun modo. Si può solo misurare a posteriori attraverso un esperimento (ma tale misura per sua natura sarà sempre imprecisa). Inoltre è applicabile solamente quando sia possibile ripetere numerose volte l'esperimento, anche se, trattandosi di un processo al limite, non è mai chiaro quante volte sia necessario ripeterlo. Tra l'altro non è neanche chiaro se questo limite esista sempre, e non c'è nessun argomento che lo garantisca. E' una definizione operativa che comporta la possibilità di applicarla concretamente al problema (quando il problema si presta a questo tipo di analisi). Gli esempi del dado e della moneta utilizzati per la definizione precedente si prestano altrettanto bene per questa.

Ovviamente proprio perchè in molti casi pratici si possono utilizzare indipendentemente entrambe le definizioni queste, almeno in tali casi pratici, dovranno necessariamente convergere. A garanzia di questa convergenza sta un principio generale chiamato legge dei grandi numeri: dato un evento che accade con probabilità p, la frequenza f(N) con cui questo evento accade in N prove indipendenti, nel limite di grandi N, tende a p. La legge dei grandi numeri è un risultato fondamentale, perchè in qualche modo fonda lo stesso concetto di probabilità (sebbene non la definisca), chiarendo il nesso tra la teoria matematica e la realtà empirica.

Quello che un po' disturba in tutto questo discorso è la limitatezza delle definizioni che sono state date a fronte dei tanti casi in cui queste definizioni non sono affatto applicabili e in cui però ha certamente senso parlare ancora di probabilità. Ad esempio in molti scenari di valutazione dei rischi parlare di probabilità ed attribuirne un valore in qualche modo agli eventi è ragionevole e pure molto importante ma certamente la definizione classica o quella frequentista non ci aiutano molto. In pratica stando alle due definizioni sopra sarà possibile parlare di probabilità solo in due casi, molto particolari e riduttivi, rispetto alla complessità del mondo reale.

Un'ulteriore definizione che si può introdurre è quella detta Definizione Assiomatica: La probabilità P(A) di un evento A è un numero compreso tra zero e uno. Con uno si intende la certezza dell'evento, con zero la sua impossibilità. Come si vede subito questa definizione non è legata a nessun procedimento operativo e non antepone ad essa nessun "concetto primitivo" di equiprobabilità. Ovviamente non dà neppure nessuna indicazione su come calcolare o misurare la probabilità così definita. Però questa definizione è un punto di partenza molto fecondo in quanto da essa si possono far seguire una serie di proprietà importanti della probabilità, come ad esempio la probabilità dell'evento complementare ad A (1-P(A)), cioè dell'evento "qualcosa di diverso da A", oppure la probabilità di A_and_B, o la probabilità di A_or_B, inoltre si possono introdurre i concetti di eventi mutuamente incompatibili, cioè eventi che non possono accadere entrambi, per cui si ha P(A_and_B)=0 e P(A_or_B)=P(A)+P(B), ed eventi mutuamente indipendenti (l'accadere dell'uno non influisce sull'accadere dell'altro) per cui si ha che P(A_and_B)=P(A)*P(B). A seguire ancora la definizione di probabilità condizionata, il teorema di Bayes, e così via.

Quindi una definizione così "asettica", cioè non legata ad aspetti pratici, puramente matematica, che coglie l'unico aspetto matematicamente importante della probabilità, quella cioè di essere semplicemente un numero compreso tra zero e uno (certezza e impossibilità) da affibbiare in qualche modo (non interessa come) a degli "eventi", è l'ideale per sviluppare tutte le proprietà formali importanti. C'è da notare che le due definizioni date precedentemente "rientrano" in quest'ultima, cioè entrambe possono fornire come risultati (del calcolo nella prima definizione o della misura nella seconda definizione) numeri compresi tra zero e uno con i rispettivi significati di impossibilità e certezza. Più precisamente la definizione assiomatica prescindendo dalla questione di come si calcola o come si misura la probabilità "include" virtualmente qualunque ulteriore definizione. In altre parole qualunque sia il modo in cui operativamente associo probabilità ad eventi la teoria delle probabilità funziona comunque.

Quest'ultima definizione ci ha proiettato in un mondo formale dove si può sviluppare indisturbati una teoria rigorosa e completa della probabilità. Rimane il fatto che uno può continare a domandarsi effettivamente di che cosa stiamo parlando, cioè di quale grandezza fisica stiamo parlando, che poi significa poter dire come misurarla con certezza e in modo univoco per qualunque evento reale.

Se però, come detto nel post già citato in precedenza, si ammette che la probabilità è una proprietà connessa alla quantità di informazioni che il soggetto ha sull'evento, o più in generale su tutto l'ambiente che concorre a determinare l'evento, allora può aver senso (ed essere anche interessante) introdurre un'ultima definizione di probabilità, chiamata Definizione Soggettiva: La probabilità di un evento A è la misura del grado di fiducia che un individuo coerente attribuisce, secondo le sue informazioni e opinioni, all'avverarsi di A. Qui ovviamente appaiono immediatamente almeno due punti molto delicati che possono essere difficili da digerire. Uno riguarda il sospetto che dentro il concetto di soggettività ci sia nascosto quello di arbitrarietà. L'altro è che occorre comunque accettare il fatto che la soggettività implica inevitabilmente che si possa arrivare a valutare probabilità soggettive diverse (ma ugualmente "corrette") rispetto ad uno stesso evento.

Riguardo alla prima questione (soggettività/arbitrarietà) viene in aiuto il concetto di individuo coerente, come citato dalla definizione. Per coerenza si intende una corretta applicazione delle norme di calcolo, cioè fondamentalmente la valutazione del soggetto deve essere fatta nel rispetto della regola che le probabilità associate agli eventi non devono essere modificate di volta in volta se le informazioni in possesso non mutano. Questa regola viene detta assioma di coerenza e serve a far sì che una persona non cambi la propria probabilità soggettiva per tornaconto personale. Di fatto la quantificazione della probabilità soggettiva è basata essenzialmente sul concetto di scommessa. Una volta fissate le quote di scommessa pro e contro l'evento, deve essere indifferente allo scommettitore il verso della scommessa. Il rapporto delle quote, in condizione di indifferenza sul verso da scegliere, è una valutazione del rapporto delle probabilità. Il termine soggettiva sta ad indicare che la valutazione di probabilità dipende dallo stato di informazione del soggetto che la esegue e, anche se basata su una credenza specifica, non è affatto arbitraria: il ruolo normativo della scommessa coerente obbliga a tenere conto di tutte le informazioni a disposizione.

Riguardo invece alla seconda questione (soggettività, dunque tante probabilità diverse per i diversi soggetti in relazione allo stesso evento) non si può fare molto altro che ingoiare il rospo. Se il punto è che il concetto di probabilità soggettiva dipende, in ultima analisi, dallo stato di informazione del soggetto che effettua la valutazione, non è possibile pretendere che ci sia concordanza tra soggetti indipendenti che valutano. Tra l'altro nulla viene specificato sul criterio di valutazione seguito dal soggetto. D'altra parte è pur vero che la definizione data parte dall'idea che il concetto di probabilità soggettiva dipende, in ultima analisi, dallo stato di informazione del soggetto che effettua la valutazione. L'oggettività è in un certo senso un fatto "accidentale" e si ottiene semplicemente quando tutti i soggetti sono d'accordo su di essa (cioè arrivano a valutarla allo stesso modo). Non potrebbe essere altrimenti visto che la principale caratteristica della definizione soggettiva è quella di presupporre che la probabilità non sia una caratteristica intrinseca di un evento.

Sicuramente la definizione soggettiva ha un significativo vantaggio: non soppianta le definizioni convenzionali (anzi le recupera e include come specifiche e legittime regole di valutazione della probabilità) e consente di ricercare un concetto di probabilità che si possa applicare a tutte le situazioni dell'agire umano. Il suo punto di forza sta proprio nella possibilità di fare affermazioni probabilistiche su qualsiasi evento. Il concetto di probabilità soggettiva è, in ultima analisi, basata unicamente sull'idea che la probabilità è legata allo stato di incertezza.

In sintesi, concludendo questo lungo (e faticoso) post, si può dire che la definizione assiomatica ci svincola dalla delicata questione di cosa sia fisicamente la probabilità consentendoci però di svilupparne tutte le proprietà puramente matematiche, su cui tutti sono d'accordo. Le altre definizioni (e tutte le controversie ad esse associate) si riducono alle questioni di interpretazione del concetto assiomatico, ovvero di determinare le proprietà, potremmo dire, "extramatematiche" di probabilità. Alla fine il problema del rapporto tra la teoria delle probabilità e il mondo reale non è altro che un caso particolare di quello, molto generale, tra la matematica e la fisica.

giovedì 21 aprile 2016

Il referendum del 17 aprile

Già sapevo di un referendum imminente sulla questione delle trivellazioni nell'Adriatico. Comincio a trovare nella mia home page di Facebook i richiami a questo referendum, sono tutte esortazioni ad andare a votare a favore dell'abolizione di queste trivellazioni e tutte hanno immancabilmente il tono seguente: "nessuno ti parla di questo referendum perchè non vogliono che passi, vogliono che non se ne sappia niente affinchè non si raggiunga il quorum, vota per l'abolizione delle trivellazioni".

Al terzo o quarto post di questa natura ho cominciato a provare un certo fastidio. Addirittura uno di questi mostrava le immagini di un punto di trivellazione che andava a fuoco, con l'idea di far vedere cosa può succedere se non si andrà a votare per l'abolizione. Mi ha richiamato alla memoria il vecchio referendum sul nucleare e tutti quei muri pieni di manifesti antinuclearisti con le foto del fungo atomico.

Le cose che cominciavano a girarmi in testa erano un paio:
1. una qualunque tecnologia ha sempre un impatto ambientale, diretto o indiretto, e la soluzione non può essere quella di eliminare quella tecnologia tout court; anche perchè le tecnologie servono, non stanno li' solo per fare danni. Il punto non è quello di individuare ed eliminare le tecnologie cattive, casomai è quello di elaborare strategie efficaci e globali per ridurre l'impatto ambientale di tutte le tecnologie.
2. E' vero che chi non parla di questo referendum lo fa perchè è interessato a non raggiungere il quorum e quindi a vanificarlo, però è anche vero che chi esorta alla partecipazione e al voto abrogativo comunque non parla della questione referendaria. L'oggetto della discussione sul referendum è il referendum stesso. Sempre lo scontro e mai il dibattito.

Poi mi sono imbattuto in un articolo di Marco Cattaneo, una specie di sfogo, con alcune considerazioni sull'ambientalismo, o meglio su un certo tipo di ambientalismo, che sono in linea con quello che spesso penso anche io. La sua tesi in breve, abbastanza ovvia dal mio punto di vista, era che non ha senso ridurre il complesso problema energetico e il suo impatto sull'ambiente ad una decisione tecnica così particolare come quella di decidere quanto tempo far rimanere operative alcune piattaforme marittime (una minima parte) vicine alle coste di alcune regioni italiane. Perchè poi il pericolo è quello di trasformare tutto in una decisione del tipo "fuori da casa mia", che non solo non risolve niente ma può addirittura peggiorare la situazione, perchè divide il mondo in chi ce la fa a portare i problemi ambientali abbastanza lontano da casa propria e chi non ha la forza di farlo. L'articolo ad un certo punto recita così: "In parole povere, votare sì a questo referendum SENZA RIDURRE IMMEDIATAMENTE I NOSTRI CONSUMI DI COMBUSTIBILI FOSSILI significa continuare a godere dei benefici del gas e del petrolio, scaricando tutti i rischi su altri, molto più poveri di noi. I quali trarranno a loro volta qualche beneficio, molto più piccolo del nostro, ma si assumeranno tutti i rischi." [Marco Cattaneo, Le Scienze]. Allude anche ad una certa ipocrisia con cui certe "battaglie ambientaliste" vengono condotte, quella che poi non modifica di una virgola il tenore di vita di nessuno.

Mi sono sempre rapportato piuttosto male con i movimenti ambientalisti, a cui ho sempre rimproverato due caratteristiche per me proprio difficili da accettare: l'approssimazione delle argomentazioni, quasi sempre ridotte a sensazionalismi e a questioni di pancia più che di testa (non usare bene la testa in problemi così complessi è intollerabile); e l'integralismo degli atteggiamenti, che sarà pure tanto bello ma non porta da nessuna parte (a me poi gli integralismi provocano sempre un sentimento di diffidenza).

A questo stato della mia informazione sull'argomento difficilmente mi sarei alzato dalla sedia per andare a votare.

Passano un po' di giorni e la situazione ai miei occhi cambia in modo significativo. Entrano in scena fattori nuovi che modificano il mio modo di vedere questo referendum. Il presidente del consiglio e il suo staff entrano in campagna referendaria incoraggiando l'elettorato a non andare a votare in quanto il quesito referendario è sostanzialmente inutile. A parte tutta la questione del meccanismo referendario che ogni volta rispunta nel dibattito generale (è un buon atteggiamento non andare a votare? è un comportamento civile? è una legittima scelta che esprime indifferenza relativamente alla questione posta? è una possibile strategia per invalidare il referendum? è legittimo incoraggiare l'astensione? è il caso di mantenere il meccanismo del quorum? ecc.) e che qui non voglio discutere (ne ho già scritto qui), se un referendum punta all'abolizione di un pezzo di articolo di legge e chi questa legge l'ha fatta ritiene ciò irrilevante, per quale motivo esiste quel pezzo di articolo che è stato a suo tempo certamente proposto, discusso e approvato? Posso essere d'accordo sul fatto che ai fini del problema ambientale la questione è di fatto irrilevante (e considerarlo un referendum "simbolico" è un po' ridicolo) ma a maggior ragione torno a rifarmi la domanda: perchè esiste quel pezzo di articolo?

Continuando a leggere su internet focalizzo l'attenzione proprio su questo ultimo punto e alla fine escono un paio di articoli interessanti. Uno riporta il seguente commento: "In effetti è insolito che una risorsa dello stato, cioè pubblica, sia data in concessione senza limiti di tempo prestabiliti (ed è per questo che la corte costituzionale ha giudicato ammissibile il quesito)" [Marina Forti, Internazionale]. L'altro è ancora più esplicito: "Non è, come alcuni sostengono, un referendum sui rischi ambientali, [...] il 17 aprile si vota per chiudere gli impianti alla scadenza delle concessioni com’è normale che avvenga. Infatti, prolungare per legge un contratto tra pubblico e privato è un favore immotivato (alle società petrolifere) poiché si crea un monopolio senza scadenza, falsando il mercato, e perché sarà il concessionario a decidere di fatto quando finirà la “vita utile” del giacimento." [Francesco Sylos Labini, Il Fatto Quotidiano].

Quindi il vero argomento è un altro. Il referendum era sulle concessioni, sull'inopportunità di regalare un patrimonio comune alle società petrolifere, di favorirle oltre limiti ragionevoli nello sfruttamento di un bene pubblico (potranno sfruttare i giacimenti a livelli bassissimi per rientrare nelle franchigie e non pagare royalties allo Stato Italiano, potranno gestire come vogliono e nei tempi che fanno comodo a loro lo smaltimento delle piattaforme). Perchè questo regalo? Perchè questo favore? Qual'è il guadagno? E chi ci guadagna?

Mi pare la solita storia di favoritismi a vantaggio di pochi e a svantaggio della comunità, che mi piacerebbe contestare, avendone nel mio piccolo la possibilità. Dunque alla fine ho deciso di andare a votare.

mercoledì 30 marzo 2016

E' poi così difficile?

Mi dà fastidio leggere certe descrizioni altisonanti, sensazionaliste e al limite della fantascienza che si scrivono su parecchia stampa e si vedono in tv ogni volta che viene annunciata un'importante scoperta scientifica. Hanno l'effetto di creare distacco, sembra quasi ormai che certe cose della scienza (di un certo tipo di scienza almeno, tutta la fisica fondamentale) debbano essere incomprensibili per essere importanti, e che sia scontato non capirci un tubo. Forse internet ha un po' cambiato le cose, in meglio. Ad esempio riguardo all'episodio della prima rilevazione delle onde gravitazionali con un po' di pazienza e cercando di evitare le solite fonti giornalistiche (le più diffuse spesso coincidono purtroppo con le più scadenti) si riescono a leggere articoli chiari e divertenti, che contemporaneamente spiegano e comunicano l'importanza della notizia.

C'è da dire che anche l'argomento specifico si presta di più ad una spiegazione sufficientemente chiara. E' certamente più difficile comunicare risultati di fisica delle particelle (c'è la fisica quantistica sotto). In questo caso è stato "semplicemente" misurato il passaggio di un'onda. Il moto ondoso è uno dei più diffusi in natura e su questo credo che basti un po' di intuito e l'esperienza che ciascuno ha di questo tipo di fenomeno. C'è solo forse da sottolineare che un'onda, essendo una perturbazione originata da un qualche evento e che da questo si propaga ad una certa velocità in tutte le direzioni, porta a chi la misura informazioni sull'evento stesso, sulla sua evoluzione. In fin dei conti vedere (percepire le onde luminose) e sentire (percepire le onde acustiche) è proprio questo.

Un po' più complicato è intuire la natura di questa onda. Una perturbazione solitamente ha un mezzo in cui si propaga: l'acqua per le increspature create da un sassolino che cade in uno stagno, l'aria per lo schiocchio delle dita che si può sentire a metri di distanza, il terreno per una scossa di terremoto. Nel caso delle onde gravitazionali il mezzo di propagazione è lo spazio stesso, o meglio lo spazio-tempo. Per capire quest'ultima cosa non c'è molto da raccontare, se non la solita analogia con il tappeto elastico su cui è "poggiato" un pianeta, che però funziona piuttosto bene. La massa del pianeta deforma il tappeto (cioè lo spazio) e se sta fermo la deformazione è statica mentre se accelera può provocare deformazioni che si propagano sul tappeto come onde. Si può immaginare il pianeta che rotola sul tappeto e improvvisamente si ferma, la brusca frenata genera un impulso sul tappeto che quindi propaga una perturbazione sotto forma di onda.

Questa analogia però viene sempre presentata come quella di un tappeto bidimensionale che si deforma su uno spazio tridimensionale ad opera del "peso" di un pianeta ovviamente anche lui tridimensionale. Insomma, si gioca un po' sporco sul numero delle dimensioni con cui si ha a che fare. Forse funzionerebbe un po' meglio se si facesse lo sforzo di pensare ad un universo bidimensionale (il tappeto appunto), dove anche le masse sono bidimensionali e ovviamente anche l'osservatore, cioè noi. E dove il peso non esiste più. La deformazione può continuare ad essere rappresentata in tre dimensioni ma sempre tenendo presente che quelle utili (le dimensioni "vere") sono solo due, quelle del tappeto. Oppure si può provare a pensare che il tappeto deformato sia solo "una fettina" di quello che succede allo spazio completo attorno al pianeta. Ci si può divertire con l'immaginazione, in assenza di strumenti matematici più sofisticati (in fondo Einstein fece lo stesso).

La natura della deformazione la si può intuire pensando alla trama del tappeto elastico, la deformazione aumenta le distanze dei nodi da una parte e le diminuisce dall'altra, esattamente come farebbe un'onda elastica sulle particelle dell'aria. Tutto sommato per semplificare si può trascurare la natura temporale della deformazione (i tempi non sono più uguali nei vari punti), anche se questo è un altro aspetto di grande fascino su cui esercitare l'immaginazione.

Quella che è stata misurata dunque è proprio questa deformazione, rilevata come la differenza di lunghezza che il passaggio dell'onda ha determinato in due bracci ortogonali di un interferometro, tralasciando il principio di funzionamento di questo strumento, che non sarebbe poi così difficile da capire visto che si basa sul fenomeno dell'interferenza. Verrebbe da pensare che è impossibile misurare la deformazione di uno spazio se ci stai dentro, perchè cambia esattamente allo stesso modo anche la tua unità di misura. E questo è vero, infatti l'unica misura possibile può essere fatta con la luce, la cui velocità di propagazione è una costante universale (secondo la Teoria della Relatività, da cui prendono le mosse tutte queste considerazioni).

Quali sono le cose più affascinanti di questo esperimento, che lo rendono un evento così importante? (e che si possono raccontare in modo relativamente semplice).

1. La precisione impressionante della misura e quindi la tecnologia incredibilmente sofisticata che c'è dietro. La differenza di lunghezza rilevata è dell'ordine di 10E-18 metri, cioè otto ordini di grandezza più piccola delle tipiche dimensioni atomiche (10E-10). Qualunque rumore, di qualunque natura se non fosse correttamente attenuato e filtrato sarebbe molto ma molto più evidente dell'onda gravitazionale.

2. Come dicevo prima l'onda gravitazionale come altri tipi di onde è un segnale che fornisce informazioni su un evento. In questo caso è stato importante avere due strumenti di misura che hanno rilevato il segnale allo stesso momento, sia per confermare la misura tra due laboratori indipendenti sia per poter localizzare la regione di spazio da cui l'onda proveniva (come avere due orecchie). Si tratta però di un segnale nuovo, diverso da quello elettromagnetico utilizzato quasi esclusivamente da quando esiste l'astronomia. Certo gli eventi che possono mandarci onde gravitazionali sono sensazionali ma è pur vero che stiamo guardando l'universo. E questo sguardo è totalmente nuovo. Si tratta di una capacità osservativa che non avevamo mai avuto prima e che da oggi abbiamo guadagnato. E' emblematico che questa misura ci abbia dato informazioni sulla dinamica (catastrofica) di due buchi neri, oggetti assolutamente invisibili alla radiazione elettromagnetica.

Non è sufficientemente chiaro tutto ciò? (Preciso e dettagliato certamente no, per quello ci sono i tecnici e gli specialisti, cioè gli scienziati). Non se ne può parlare normalmente così come si fa in genere per tutti gli altri settori della conoscenza? Possibilmente senza citare viaggi indietro nel tempo, tunnel spaziotemporali, dimensioni extra (boh!) e senza citare i soliti film di fantascienza? E non se ne capisce comunque bene la grande importanza soprattutto per quello che promette nel futuro?

domenica 6 marzo 2016

Un inaspettato Piero della Francesca

Mi ha fatto un certo effetto leggere qualche tempo fa, in un libro di storia della scienza italiana, che Piero della Francesca è stato probabilmente il più grande matematico del quattrocento. Immagino che non ci sia nulla di strano e che non sia un'affermazione particolarmente originale visto che anche la voce di Wikipedia lo presenta come pittore e matematico del Rinascimento.

E' evidente che la mia perplessità nel leggere una cosa del genere deriva da due semplici condizioni:

1. sono una persona di media cultura che molte delle sue conoscenze di base le ha costruite durante la scuola secondaria; attraverso di essa ho incontrato il Rinascimento studiando la storia generale, la storia della letteratura e la storia dell'arte (cioè delle arti figurative); per passione personale anche interessandomi alla storia della musica. Ma il Rinascimento è stato tale anche nella scienza, molti sono i protagonisti in questo campo, e in certi casi questi coincidono con alcuni che conosciamo per meriti in tutt'altre discipline, come ad esempio succede per Piero della Francesca. D'altra parte stiamo parlando dell'uomo del Rinascimento e dei suoi mille interessi in tutte le direzioni del sapere, di persone come Leonardo, che a cinquant'anni aveva l'umiltà e la curiosità di farsi spiegare la matematica dall'amico Luca Pacioli. Però tutto questo, sebbene sia certamente un aspetto interessante e importante, non è normalmente coperto dagli studi "normali", quelli che costruiscono la nostra base comune di conoscenze condivise. La "normalità" dice che la scienza moderna (o addirittura la scienza tout court) nasce con Galileo.

2. I miei studi scientifici specialistici (quelli universitari) non hanno contemplato lo studio di storia della scienza. Infatti la recupero leggendo bei libri per conto mio.

Manco male tutto sommato. L'ignoranza, quando uno non ci si rotola sopra, crea delle condizioni di stupore e di meraviglia anche ad una certa età. Beata ignoranza.

domenica 21 febbraio 2016

"Non ho tempo" (di perdere tempo)

Mio figlio sta facendo i compiti di matematica. Mi chiama per essere aiutato. Deve trasformare un numero decimale illimitato periodico in una frazione. Non ricorda la regola mnemonica che ha imparato a scuola. Io non la conosco proprio, dunque devo ragionarci sopra. Provo a coinvolgerlo nel ragionamento ma niente, vuole la regola. Trovo un modo per farlo ma non è la regola. Ad un certo punto, mentre parlo di questo con mia moglie (anche lei chiamata a rapporto e incuriosita dall'argomento), lui improvvisamente se la ricorda e comincia ad applicarla. Non ha più bisogno di noi. Io, lasciato in disparte, ho la curiosità di vedere come il mio metodo è equivalente al suo e rimango nei paraggi a ragionare con mia moglie. Lui, disinteressato e infastidito dalla discussione, stimolato dalla mamma (che come al solito non molla) risponde che "lui non ha tempo per ragionarci", deve fare troppi compiti.

Io penso che forse ha ragione, ha sempre troppe cose da fare e sempre meno tempo per pensare. Spesso mi sono rimproverato di essere un "teorico", cioè di aver pensato troppo e fatto poco. Però che cazzo, pure fare senza avere il tempo necessario per pensare a quello che si sta facendo non va bene. Più che altro ci vedo due pericoli. Il primo è quello di non avere il gusto di fare le cose, un gusto e una passione che secondo me si costruiscono solo "perdendo tempo". Il secondo è quello di imparare solo a gallaggiare costantemente in superficie, su qualunque argomento, qualunque questione, parlando e basta su tutto, spesso praticamente a vanvera.

Tutto ciò mi ricorda un po' quei giornalisti che scrivono sugli argomenti più disparati, inventando interpretazioni senza basi, senza verifiche, senza analisi. Giornalisti che poi cadono vittime dei pregiudizi più scemi e delle tante pseudo-notizie che girano in rete. Forse anche loro hanno sempre avuto troppe cose da fare e poco tempo per esercitarsi a pensare.

domenica 14 febbraio 2016

Una scienza povera

Premessa: all'indomani dell'importante notizia della prima misura di un'onda gravitazionale, prevista dalla Relatività Generale e cercata per circa 70 anni, rilanciata da tutti i media e credo in buona parte subita perchè largamente non compresa dalla stragrande maggioranza delle persone, decido di pubblicare questo post che per vari motivi tenevo parcheggiato. Una buona occasione.

L'unica ricerca in fisica che esce dai laboratori e viene raccontata al grande pubblico è quella delle particelle elementari, delle interazioni fondamentali e dei grandi acceleratori di particelle. A seguire giusto un po' di astronomia, soprattutto quella fettina collegata alle imprese spaziali. Questo, sebbene comunichi il grande fascino degli argomenti (spesso incomprensibili), non comunica quasi mai secondo me l'importanza della ricerca scientifica come attività culturale direttamente collegata all'applicabilità delle conoscenze che essa produce e che spesso trasformano in modo profondo la società.

Il tema dell'unificazione delle forze dà un'immagine della scienza come quell'impresa della conoscenza, fuori da ogni contesto meramente pratico, volta a "capire il mondo", a costruire la famosa "teoria del tutto" che ci porterà a formulare i "principi ultimi" della natura. Ma chi li capisce questi principi ultimi? E come potranno essere utilizzati?

Sicuramente a quest'ultima domanda si può rispondere con le parole usate da Faraday quando William Gladstone, ministro della Finanze inglese, gli chiese quale utilizzo avrebbero potuto avere i suoi studi sull'elettricità: "One day, Sir, you may tax it!".

Però l'immagine di una scienza estrema che ci sovrasta con i suoi risultati incomprensibili e che al contempo per sua natura non può produrre nell'immediato nessuna tecnologia collegata è un'immagine un po' monca. L'utilizzo pratico delle conoscenze costruite con l'attività di ricerca scientifica è un fatto essenziale sia per l'effettivo progresso della società sia perchè contribuisce ad accendere un vero interesse nelle persone colte.

Ad essere onesti (e non troppo miopi) non è vero che la fisica degli acceleratori di particelle non produca conoscenze pratiche. Piuttosto lo fa come "effetto collaterale", come si capisce bene dalle parole del Prof. Luciano Maiani che nel passato è stato direttore del CERN: "Se è difficile ipotizzare applicazioni pratiche degli oggetti di questa ricerca [LHC], l'indagine dell'infinitamente piccolo è un obiettivo talmente complesso da richiedere lo sviluppo di tecnologie al limite delle conoscenze, e proprio queste tecnologie potranno essere utili alla società". Lo stesso discorso è altrettanto valido per la questione delle imprese spaziali, in barba a tutta quella tradizionale scia di critiche un po' fesse che vorrebbero dirottare i finanziamenti delle imprese spaziali a ricerche "più utili".

Ma si può anche rispondere dicendo semplicemente che l'attività di ricerca in fisica non si esaurisce con quello che passa sui principali media. Sarebbe bene evidenziare ogni tanto anche tutta quell'attività che non può per sua natura fare i titoli sui giornali ma la cui importanza è fondamentale soprattutto in relazione alla produzione di conoscenze subito utilizzabili. In un suo libro, dove racconta la sua carriera di fisico della materia, il Prof. Andrea Frova sottolinea questo fatto più volte, in particolare in questa frase: "Ma credo di aver indugiato anche troppo sui contenuti delle nostre ricerche romane, benché ne abbia ricordate solo una piccola parte: si tratta di una scienza, quella dei materiali, che non presenta l'altisonanza né dei grandi acceleratori di particelle, né delle esplorazioni spaziali proprie della astrofisica. Una scienza povera, una scienza in piccolo, che tuttavia in mezzo secolo ha rivoluzionato il mondo e, grazie alle sue poderose innovazioni tecnologiche, ha avuto ripercussioni in ogni altro campo del sapere"

La dialettica tra scienza e tecnologia, il loro feedback positivo come ben descritto nella frase di Andrea Frova, è un tutt'uno nel progresso della società. Le conoscenze sul mondo e la loro capacità di cambiare il nostro rapporto con esso vanno insieme e giustificano probabilmente tutta l'avventura della conoscenza.

sabato 30 gennaio 2016

Familiae Naturalis Principia Mathematica

Non riesco neppure ad essere serio nel dire qualcosa sulla questione della legge Cirinnà, quella che dovrebbe finalmente anche in Italia garantire alle cosiddette unioni civili almeno un po' dei diritti di cui godono i matrimoni di derivazione cattolica definiti nella costituzione. E' sufficiente guardare il titolo del post per capirlo.

Eppure il titolo nella sua cretinaggine vuole sottolineare un punto per me importante: mi sembra che in questa questione dei matrimoni e dell'idea di famiglia ci sia sotto anche qualcosa che riguarda la scienza. Capisco che torno sempre sulle stesse cose ma sono sicuro che se nella nostra società fosse un po' più presente e diffusa la cultura scientifica questa roba da ridere non sarebbe per giorni e giorni su tutti i giornali, tv, social, ecc.

La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società. Qui il termine naturale è usato dagli oppositori della legge Cirinnà per indicare la famiglia composta da un papà (maschio) e da una mamma (femmina). La cosa più buffa è che suona come un grande principio della natura, e le intenzioni che suoni proprio così mi sembrano evidenti.

Un principio però, almeno nella sua accezione di termine scientifico (ma non fa mai male circoscrivere il significato dei termini anzichè renderli indeterminati spalmandoli su più significati) è un'ipotesi sul mondo ampiamente verificata in tutti i casi che l'esperienza (sempre limitata) ha consentito fino a questo momento. Si parte dall'osservazione di una nutrita schiera di fatti che per se stessi sono naturali, e se ne deduce un'affermazione generale, che successivamente continua a dover essere riscontrata ovunque le previsioni (e nuove esperienze) ci suggeriscano. E' vero, normalmente l'affermazione generale più che dedotta è immaginata (secondo i percorsi più strani, spesso ben lontani da una pura logica deduttiva) ma la sua importanza risiede sempre nella capacità di descrivere la natura. E se non lo fa bene può sempre essere corretta.

Il principio della famiglia naturale (chiamiamolo brevemente così) cade miseramente nel confronto con la realtà, e nella sua pretesa di descrivere la natura delle cose. La natura complessa della socialità umana è ben difficile da descrivere interamente attraverso il principio della famiglia naturale. Come ipotesi scientifica fa schifo, diciamocelo.

Il punto è evidentemente che chi parla del principio della famiglia naturale parte dal principio e non dall'osservazione della natura. Non è importante guardare la natura e provare a capirla, è importante stabilire a priori che cosa è "naturale". Questo si chiama pensiero dogmatico. Ovviamente si può pure impostare la propria vita sulla base di dogmi (che vengano da dottrine religiose o da qualcos'altro) ma non chiamarli esplicitamente con il loro nome e far passare l'idea (mai troppo esplicitata anche quella) che si stia parlando di principi della natura, e per questo evidenti non solo all'uomo di fede ma anche all'uomo razionale, rivela la volontà di mascherare i dogmi in maniera subdola con qualcosa di più morbido e digeribile, e universale. E' bene smascherare questo comportamento intellettualmente scorretto.

martedì 26 gennaio 2016

Scoperte

Mi pare di capire che verso i dodici anni si scoprono le volgarità, almeno quelle delle parolacce, dei gestacci e dei termini scurrili. Ad un genitore fa effetto. Il cambiamento è difficilmente digeribile, anche perché spesso queste volgarità sono ostentate. Niente di nuovo, abbiamo fatto lo stesso, più o meno alla stessa età e negli stessi modi. Però da fastidio. Ho la sensazione che un genitore non può far altro che accettare questa novità, magari cercando di contrastarla ogni volta che se ne presenta l'occasione, ma senza fare troppe battaglie di principio sulla buona educazione. Credo che sia una scoperta, e che in tal senso vada sperimentata. Devono sperimentare il linguaggio volgare per imparare a controllarlo. Spero.

mercoledì 6 gennaio 2016

Probabilità e intuito

La probabilità è un concetto che sembra scaturire dal buonsenso. In molti casi sembra un fatto quasi istintivo, che renderebbe superflua sia una sua precisa definizione sia una sua valutazione quantitativa. Spesso può sembrare sufficiente affermare con ragionevolezza che una certa cosa è più probabile di un'altra. Laplace, che contribuì molto alla formalizzazione del concetto di probabilità, diceva che "La teoria della probabilità non è in fondo che il buon senso ridotto a calcolo: essa fa apprezzare con precisione ciò che gli spiriti giusti sentono per una sorta di istinto, senza che essi possano, sovente, rendersene conto".

Poi però la probabilità ha degli aspetti che possono essere piuttosto controintuitivi. Un esempio classico che mostra quanto il concetto di probabilità possa essere scivoloso quando lo si maneggia è il cosiddetto Problema di Monty Hall. Si può formulare alla maniera seguente. E' un gioco a premi che consiste in tre scatole identiche. Il premio è contenuto in una sola scatola. Il concorrente è invitato a sceglierne una. Ad esempio sceglie la numero 1. Il conduttore del gioco (che sa qual è la scatola con il premio) apre una delle due scatole rimanenti (la numero 2 o la numero 3) e mostra che è vuota. A questo punto il conduttore dà al concorrente la possibilità di cambiare la scatola scelta (la 2 se il conduttore ha aperto la 3). La domanda è: cambiare la scatola scelta a questo punto del gioco conviene oppure è indifferente?

La risposta, non ovvia, è che conviene farlo in quanto raddoppia le probabilità di vincita (che passano da 1/3 a 2/3). La soluzione si ottiene costruendo l'albero di gioco che è strettamente legato alla sua dinamica, cioè al susseguirsi degli eventi. Infatti, se si fa intervenire un secondo giocatore mostrando la situazione al punto in cui il conduttore del gioco ha aperto una delle tre scatole questo giocatore avrà la possibilità di scegliere tra le due sole scatole rimanenti e la sua probabilità di vincita sarà comunque pari a 1/2. Questo succede perchè, come dice Marilyn vos Savant (la prima a risolvere il problema di Monty Hall) il secondo concorrente non gode del vantaggio che ha invece il primo concorrente: l'aiuto del conduttore. Se il premio è dentro la seconda scatola, il conduttore ti fa vedere la terza, se è dentro la terza, ti fa vedere la seconda. Quindi se cambi scatola vinci se il premio è dentro la seconda o la terza. Vinci in un caso o nell'altro! Se invece non cambi scatola, vinci soltanto se il premio è dentro la prima scatola. Un modo escogitato dalla Savant per recuperare un po' di intuito nel problema è quello di proporne una variante con un numero spropositato di scatole. Immaginate un milione di scatole. Voi scegliete la scatola numero 1 e a questo punto il conduttore, che sa cosa c'è dentro ogni scatola e non vuole farvi vincere, apre tutte le altre tranne la numero 777.777. Non esitereste un attimo a cambiare la scatola, vero?

Il nocciolo della questione messa in luce da questo problema è che la probabilità non va mai considerata come una proprietà connessa alle cose bensì alla quantità di informazioni che abbiamo su quelle cose. Se durante l'evolversi di un sistema vengono aggiunte informazioni su di esso le probabilità possono cambiare e con loro le decisioni da prendere. Da qualche parte ho letto che "La probabilità non si riferisce al sistema in sé, bensì alla conoscenza che si ha di questo sistema. La probabilità è la gestione oculata e razionale di questa ignoranza. Fra certezza e totale incertezza vi è un prezioso spazio intermedio".

Un altro esempio interessante è il Paradosso di Ellsberg. Si tratta di un test fatto ad un campione di persone. Queste vengono messe di fronte a due urne identiche. La prima contiene 100 palline di cui 50 rosse e 50 bianche. La seconda contiene sempre 100 palline ma la loro distribuzione in bianche e rosse non è nota e quindi potrebbe essere qualunque. Se si estrae una pallina rossa da una delle due urne a scelta si ottiene un premio. Si deve decidere tra 3 alternative:
1. scegliere di estrarre una pallina dalla prima urna;
2. scegliere di estrarre una pallina dalla seconda urna;
3. essere indifferenti alla scelta tra le due urne.
La maggior parte delle persone sottoposte al gioco sceglie l'alternativa 1. Il bello è che le stesse persone, sottoposte subito dopo allo stesso gioco in cui si ha esattamente la stessa cosa ma il premio viene dato se si estrae una pallina bianca, scelgono anche questa volta l'alternativa 1. La risposta corretta in termini di probabilità sarebbe in entrambi i casi la 3.

In questo test il punto messo in luce è che a livello psicologico si ha la sensazione di avere una maggiore informazione sulla prima urna. Di fatto è così, ma questa informazione non è rilevante ai fini della probabilità di estrarre una pallina rossa o bianca, o meglio non sbilancia la probabilità a favore dell'una o dell'altra, rendendo da questo punto di vista le due urne esattamente identiche. La sensazione psicologica è talmente forte che il partecipante fa un doppio errore, cioè sceglie di nuovo la prima urna quando si scambia la pallina rossa con la bianca. Questa cosa dovrebbe proprio suggerire che in realtà il problema è simmetrico e che quindi la scelta delle urne è indifferente, ma il partecipante non se ne accorge.

In entrambi questi esempi il concetto di probabilità non appare così intuitivo come sembrerebbe e va analizzato con attenzione se si vuole giungere alla corretta soluzione.