venerdì 30 dicembre 2011

Lorenz e il problema della predizione

Uno dei contributi più importanti dati da Newton alla cultura moderna è stato quello di mostrare concretamente tutta la potenza di un'indagine razionale sul mondo, che porta ad individuare una serie di principi generali e da questi ricavare schemi di calcolo deduttivi con i quali possiamo fare previsioni molto accurate. Naturalmente il contributo non è solo di Newton ma certamente con lui le capacità previsionali dell'Uomo su alcuni aspetti della Natura hanno per la prima volta fatto un balzo in avanti decisamente spettacolare. I principi sono pochi e relativamente semplici (le leggi della meccanica e la legge di gravitazione universale), gli schemi di calcolo certamente più complessi ma in buona parte affrontabili se applicati ad esempio al moto dei pianeti, i risultati sono quelli che si possono constatare utilizzando un qualunque software tra i tanti attualmente disponibili in grado di dirci ad esempio in che punto del cielo sarà la luna tra una settimana o tra un anno.

Come sempre succede nella scienza quando un approccio o un'idea funzionano in un qualche ambito si cerca di riutilizzarli ovunque sia possibile, ma ovviamente il successo non è mai garantito apriori. Semplicemente si prova e si vede come va, potrà sembrare pure banale ma la scienza alla fine funziona così. La dinamica dell'atmosfera terrestre, il cui studio porta alla questione delle previsioni del tempo, è uno di quegli ambiti in cui l'approccio descritto sopra fatica a funzionare, e per un motivo piuttosto semplice da capire: le variabili che servono per descrivere il sistema e la sua evoluzione (i suoi "gradi di libertà") sono in numero incredibilmente grande, e questo porta a delle complessità di calcolo insormontabili. Non è l'unica difficoltà, forse neanche la più interessante, ma è certamente la prima che si incontra.

E' chiaro che non ha senso continuare a sbattere in un vicolo cieco e l'abilità di uno scienziato sta anche nella capacità di inventarsi strade alternative, facendo leva su osservazioni e conoscenze di natura diversa. Ad esempio si può partire da qualcosa di più "alla buona", di più euristico, magari perchè è più facile da trattare. Purchè la cosa risulti funzionante in un qualche ambito ed entro qualche approssimazione ragionevole.

Questo è quello che voleva fare Lorenz in un suo lavoro degli anni sessanta. Non sto parlando di Hendrik Lorentz (1853 - 1928), quello delle trasformazioni di coordinate utilizzate da Einstein nella sua Teoria della Relatività Ristretta, bensì di Edward Lorenz (1917 - 2008), il metereologo pioniere della teoria del caos deterministico. Il problema che poneva era formulato in modo molto semplice: data una successione temporale di N vettori di stato determinare (prevedere) il vettore di stato N+1 senza utilizzare la regola di evoluzione, magari perchè non la si conosce o non la si sa usare nei conti (le difficoltà di cui abbiamo appena parlato). In altre parole si vuole cercare di prevedere il tempo di domani conoscendo semplicemente il tempo nei vari giorni precedenti. Per vettore di stato si intende tutti i valori delle variabili termodinamiche dell'atmosfera a disposizione in un dato momento, misurate dalle varie stazioni metereologiche funzionanti in un dato territorio. La soluzione pensata, detta "degli analoghi", poteva sembrare forse troppo semplice ma aveva il merito di poter essere utilizzata e verificata. Si trattava di andare a trovare tra tutti i vettori di stato a disposizione un vettore J il più possibile identico al vettore N. La previsione sarà quella di porre il vettore N+1 uguale al vettore J+1. Se nel passato c'è stata una situazione metereologica identica a quella che ho adesso la previsione che faccio è quella di avere un'evoluzione successiva identica a quella che si è già verificata!

Lorenz non era uno sprovveduto, sapeva che la soluzione doveva essere almeno in linea di principio praticabile, poichè aveva alle spalle un risultato teorico generale della dinamica chiamato "Teorema di Ricorrenza di Poincarè" o "Teorema del Ritorno". Secondo questo teorema l'evoluzione del nostro sistema, rappresentato sperimentalmente dalla successione dei vettori di stato, ha la caratteristica (se lo spazio in cui avviene è limitato) di "tornare" vicino quanto si vuole ad un qualsiasi vettore di stato preso come riferimento, purchè si attenda un tempo sufficiente. Questo significa proprio che se scelgo come riferimento il vettore di stato attuale andando indietro nel passato (la sua evoluzione all'indietro) troverò certamente un altro vettore di stato simile quanto voglio, basta andare indietro nel tempo quanto basta.

Il metodo però si rivelò impraticabile, soprattutto perchè contrariamente a quanto garantiva il teorema di ricorrenza era molto difficile trovare nei dati del passato dei vettori di stato sufficientemente simili a quello attuale. Perchè il metodo nella pratica non funzionava?

Quando si vuole utilizzare un teorema a fini pratici occorre sempre fare attenzione a cosa dice effettivamente. In questo caso il teorema assicura il "ritorno" della traiettoria vicino quanto si vuole ad una certa condizione di partenza ma non dice nulla sul tempo che occorre affinchè questo si verifichi. La stima di questo tempo si trova in un risultato collegato al teorema di Poincarè dovuto al matematico polacco Mark Kac (si pronuncia caz, :-)). Tale risultato è noto come "Lemma di Kac", pubblicato nel 1957. Se consideriamo un intorno grande a piacere del punto di partenza, da cui la traiettoria uscirà in conseguenza della sua evoluzione, il tempo necessario per ottenere uno stato futuro del sistema di nuovo compreso nell'intorno scelto è inversamente proporzionale alla percentuale del volume occupato dall'intorno rispetto al volume totale concesso al sistema.

La prima ovvia deduzione che si può fare è che se così stanno le cose più si vuole essere precisi nella previsione secondo il metodo di Lorenz più il tempo di ricorrenza è lungo, cioè più devo risalire indietro nel tempo per trovare uno stato sufficientemente simile a quello attuale. Ma in realtà la cosa peggiore è un'altra: in questa stima le dimensioni del sistema, cioè il numero dei suoi gradi di libertà, giocano un ruolo disastroso. Se ho un quadrato di lato 10 e l'intorno del mio punto è un quadratino di lato 1, il loro rapporto è 1/100, e il tempo di ricorrenza stimato è 100. Se però aggiungo una dimensione ho un cubo di lato 10, l'intorno del mio punto è un cubettino di lato 1 (voglio mantenere la stessa precisione), il loro rapporto diventa 1/1000 e il tempo di ricorrenza stimato diventa 1000. Le dimensioni dello spazio in cui evolve il sistema metereologico che interessava Lorenz sono di fatto tantissime in quanto dipendono dal numero di componenti del vettore di stato, cioè da tutti i valori termodinamici misurati nei vari punti di una certa regione geografica (e più sono e meglio è). Se la dimensione è molto grande il tempo di ricorrenza diventa subito molto grande, anche per valori dell'intorno non troppo piccoli. Purtroppo come è facile capire la dimensione è un parametro caratteristico del sistema, su cui non possiamo fare niente. Siamo tornati al punto di partenza, il metodo di previsione di Lorenz fallisce.

Come si sa Lorenz cambiò di nuovo strategia, si inventò un sistema dinamico semplice, matematicamente trattabile, ottenuto con varie approssimazioni, e con esso fece scoperte decisamente interessanti ...

domenica 25 dicembre 2011

Cold reading

Qualche giorno fa gli insegnanti di mio figlio (terza elementare) notificano a noi genitori un problema in classe. Hanno osservato comportamenti di carattere discriminatorio, alcuni legati all'etnia (bambini di origine non italiana o mista, chiaramente visibile), un altro legato all'origine ebrea. Le insegnanti sembravano dare molto peso a questi episodi e ci tenevano ad informarne i genitori. Credo che dietro ci fosse anche un messaggio del tipo: "cosa raccontate ai vostri figli?".

Onestamente mi rimane molto difficile pensare che i genitori della classe di mio figlio, per quanto non li conosca bene tutti, trasferiscano consapevolmente comportamenti discriminatori ai propri figli. Ma siccome oggettivamente questi comportamenti si sono manifestati, e in modo certamente molto spontaneo, la questione assume un certo interesse.

Nell'ipotesi ovvia che questi bambini non abbiano subito un vero e proprio indottrinamento su questi temi (una cosa del genere non la posso proprio pensare, da parte di nessun genitore tra tutti quelli che conosco) l'episodio mostra due aspetti: che gli atteggiamenti discriminatori hanno una radice istintiva molto forte, e che la cultura (perchè di un aspetto culturale si tratta, e anche importante) ha canali di comunicazione potenti che con la razionalità hanno ben poco a che fare e che spesso sono del tutto inconsapevoli ai soggetti che se la comunicano.

Il primo aspetto ha una spiegazione credo abbastanza ovvia, la paura del diverso è strettamente legata alla sopravvivenza dell'individuo, saper cogliere le diversità e diffidarne è una cosa che riesce immediata a tutti. Sapersi identificare nel proprio gruppo e riconoscerne immediatamente gli elementi caratterizzanti è fondamentale. Questo aspetto comunque non basterebbe a spiegare i comportamenti osservati dalle insegnanti (ad esempio per un bambino è ben difficile distinguere un ebreo e chiamarlo tale se non lo si è "imparato" in qualche modo).

Il secondo aspetto è certamente più affascinante. Credo che quell'insegnamento ricevuto dai bambini sia stato (o comunque potrebbe benissimo essere stato) interamente inconsapevole da parte di tutti quegli adulti che in varia misura vi hanno contribuito. E forse proprio per questo l'insegnamento può risultare estremamente potente, probabilmente più di un qualunque tentativo di correggerlo successivamente sul piano razionale, specialmente se al piano razionale si affianca (anche qui inconsapevolmente ma molto efficacemente) una certa dose di ipocrisia, come purtroppo può succedere.

Questo modo inconsapevole di comunicare, fatto spesso di elementi sfuggenti, non strutturati, non verbali, apparentemente del tutto secondari, incontra menti giovani non mature ma altamente ricettive. Mi ricorda molto la cosiddetta tecnica del cold reading, quella utilizzata dai presunti medium per dimostrare di sapere molte cose su un individuo mai visto prima (da Wikipedia: "Without prior knowledge of a person, a practiced cold reader can still quickly obtain a great deal of information about the subject by analyzing the person's body language, age, clothing or fashion, hairstyle, gender, sexual orientation, religion, race or ethnicity, level of education, manner of speech, place of origin, etc."). Spesso si legge che queste tecniche non solo sfruttano il soggetto inconsapevole di comunicare cose che non vorrebbe comunicare ma che addirittura sono applicate inconsapevolmente dal medium, che è convinto dei suoi poteri sovrannaturali.

Se così stanno le cose molti aspetti culturali significativi passano per buona parte attraverso questo tipo di comunicazione, spontanea (perchè inconsapevole), immediata, efficacie. L'educazione non è tanto il risultato di "tecniche educative" (che credo abbiano alla fine sempre effetti trascurabili), quanto un fatto "ambientale".

L'altro giorno hanno rappresentato il "Don Giovanni" di Mozart al Teatro alla Scala di Milano e io sono andato a leggere alcune vecchie cose scritte da Massimo Mila su quest'opera. Una sua frase si incastra perfettamente con queste mie considerazioni e le trasporta addirittura sul piano dell'arte: "Il Don Giovanni mozartiano è la più monumentale e formidabile prova della natura inconsapevole dell'espressione artistica: quel fenomeno per cui l'artista altro crede di dire, e davvero lo dice, con il significato usuale delle parole e dei segni, ma altro dice poi, senza avvedersene, con il potere espressivo dell'arte, nel quale si manifesta la sua personalità profonda, inconsapevole di se stessa, sciolta dal controllo logico della volontà".

giovedì 8 dicembre 2011

Pensioni e lavoro

Solo questa mattina sento alla radio un commento di un ascoltatore che pone il problema che mi pongo anche io riguardo alla riforma delle pensioni. Si tratta per me di una paura, per l'ascoltatore di un fatto concreto.

Tanto per riassumere: l'inps è la voce di spesa pubblica di gran lunga più pesante per lo Stato, un modo per farla pesare di meno è quello di aumentare l'età pensionabile (progressivamente o meno, dipende dall'urgenza del provvedimento, purtroppo); questo anche in relazione all'aumento dell'età media della popolazione, cioè all'aumento del numero di anni di godibilità della pensione e quindi del peso sulla spesa pubblica, e in conformità a quanto sta succedendo o è già successo più o meno in tutta Europa.

L'ascoltatore di questa mattina è in una situazione che io ho la sensazione che potrà essere sempre più frequente nel prossimo futuro. E' stato un dirigente di un azienda che un paio di anni fa lo ha licenziato (con due anni di stipendio) a causa della crisi, o meglio usando a pretesto la crisi per "svecchiare" il personale. Questo signore si trova oggi su un mercato del lavoro che non lo fa lavorare perchè lo ritiene troppo "anziano" per essere pienamente produttivo e con uno Stato che siccome lo ritiene ancora troppo "giovane" gli sposta la pensione cinque anni più in là del previsto.

Un mio amico, dirigente in una multinazionale, fa un discorso del genere ormai da un po'. E' convinto che la sua società non lo farà arrivare alla pensione perchè non si vuole tenere i sessantenni in azienda. Io non mi trovo nella stessa situazione in quanto non sono dirigente ma il problema mi sembra più generale. Ho già visto non-dirigenti trattati più o meno allo stesso modo (anzi, certamente peggio, sul versante contrattuale) sempre con lo spettro della crisi dell'azienda. La capacità di mandar via un non-dirigente è ovviamente molto minore, ma alla fine si fa anche quello, in un modo o nell'altro.

Il problema vero dunque, oltre alla crisi di sviluppo, è il mercato del lavoro, almeno in Italia. Io sono sicuro che se perdo il lavoro (magari per la chiusura definitiva della mia azienda, o attraverso una drastica riduzione del personale per far fronte alle perdite, ipotesi costantemente dietro l'angolo per molte piccole aziende) non avrò grandi possibilità, nella situazione attuale, di trovarne un altro, intendo di trovarne un altro con un regolare (e sacrosanto) contratto a tempo indeterminato, con annessi e connessi, e con la ragionevole garanzia di uno stipendio decente. Questo genera un senso di malessere e di impotenza che penso di condividere ormai con una larga fascia di lavoratori. E siamo ancora quelli che hanno un lavoro, dunque la "generazione fortunata".

giovedì 1 dicembre 2011

Paul Motian, batterista

Ieri mattina sento alla radio la notizia della recente morte di Paul Motian. Non è un musicista che conosco molto, sebbene sia famosissimo e abbia suonato al fianco dei più grandi musicisti jazz e con le più grandi formazioni per oltre cinquant'anni di carriera. Mi viene però subito in mente un brano che molti anni fa mi aveva particolarmente colpito. Si tratta di "Israel", una registrazione del 1961, con Bill Evans al piano e Scott LaFaro al basso, oggi reperibile su YouTube.

La cosa che mi colpiva e mi colpisce tuttora risentendolo dopo tanto tempo è la grande capacità di dialogo che ha Motian con Evans, pur non facendo cose particolarmente complesse (non è richiesto in un pezzo del genere). Nei vari anni in cui ho maldestramente cercato di suonare la batteria in un laboratorio jazzistico di musica d'assieme credo di aver più o meno inconsciamente tenuto questo pezzo (e vari altri pezzi del genere) a modello.

Accompagnare un solista significa nè più nè meno che "cercare di capire cosa sta dicendo", e dialogare con lui, usando analogie, imitazioni, contrasti. E forse il termine accompagnamento non è adeguato, neppure quando si parla di batteria. Il grande pezzo di jazz si costruisce tutto attraverso questo "gioco" tra i musicisti, che sottindende necessariamente l'improvvisazione, anzi, nasce proprio da questa. In questo senso il batterista è un "player" come gli altri. Non un forzato del 4/4, ma un musicista, come Paul Motian.