mercoledì 8 dicembre 2010

Sechs Kleine Klavierstucke

Arnold Shoenberg scrisse questi pezzi (op. 19) nel 1919. Io li conosco da un bel po' di tempo e anni fa provai anche a suonarne un paio (il secondo e il sesto). Sono brani interessanti da sentire almeno per due motivi (ammesso che uno riesca a fare lo sforzo di ascoltarli, ma durano pochissimo, meno di sei minuti in tutto):

1. innanzitutto ti viene in mente che per ascoltarli dovresti far riferimento a categorie di ascolto affatto diverse da quelle abituali. Non ci sono i classici "appigli" che caratterizzano praticamente qualsiasi altro brano musicale. Non c'è un disegno melodico chiaro e percepibile (una linea di canto), almeno non ce ne è uno che duri più di tre o quattro note, decisamente troppo poco. Non si riconosce una tonalità di riferimento, in quanto viene volutamente evitata dall'autore (per capirci non è possibile immaginare nessuna "logica" progressione di accordi, come quella che potremmo sentire in una normalissima canzone). Non c'è praticamente nessun elemento ripetuto, almeno non a sufficienza per poter essere ben apprezzato dall'orecchio (forse con un'eccezione che riguarda il secondo brano). La sensazione che ne deriva è di un generale disorientamento. A me questa caratteristica è sempre sembrata molto istruttiva, in quanto ti obbliga a riflettere sulla musica, su come è fatta, su quali sono i suoi ingredienti, se sia o meno indispensabile che questi ingredienti effettivamente ci siano. Un pregio di questi pezzi (probabilmente il loro grande fascino) è che indubbiamente sono "liberi" da qualsiasi struttura precostituita. Non a caso sono stati classificati come lo stile musicale della libertà.
"Lo stile musicale della libertà, raggiunto con l'op. 19, ha come caratteristiche essenziali: libertà tonale, struttura atematica e amorfismo" (H. H. Stuckenschmidt, "La musica moderna", 1951).

2. L'altro aspetto interessante è la loro collocazione storica, o meglio, il loro posto nella parabola artistica dell'autore. Precedentemente Shoenberg aveva scritto sempre musica tonale, inserita nel solco della tradizione occidentale. E' vero che quest'ultima andava progressivamente ampliando, sfaldando, scardinando le regole del linguaggio, probabilmente però l'op. 19 ha "rotto" qualcosa, almeno nel modo di scrivere dell'autore, e sicuramente, vista la sua grande influenza, anche nel modo di scrivere delle generazioni future. Questi pezzi hanno forse un carattere di manifesto di una nuova musica. Sono brevissimi, di carattere aforistico, probabilmente con le prerogative poc'anzi accennate non era proprio possibile scrivere più di così. E soprattutto Shoenberg non scriverà più cose simili. Addirittura Glenn Gould sostiene che "[...] l'op. 19 [...] non fu per lui un'esperienza fruttuosa. Di lì a poco egli si sarebbe rinchiuso per dieci anni nella meditazone e nel ripensamento".

Ed effettivamente gli anni successivi sono piuttosto infruttuosi, come se avesse toccato un fondo da cui doveva col tempo poter riemergere in qualche modo. Il bello è che riemerge "dandosi delle nuove regole", che gli permetteranno di scrivere in una forma disciplinata almeno tanto quanto quella che aveva lasciata, ma nuova. Nasce la dodecafonia.

Arnold Shoenberg scrive l'op. 25 nel 1925. Il brano è dodecafonico. Anche questo è arduo da ascoltare (anche di più dei 6 piccoli pezzi, in quanto è decisamente più lungo) ma vale la pena perchè si capisce bene che qui è tutto molto meno problematico, più tranquillo, le idee musicali per quanto "strane", lontane dalla comune sensibilità, fluiscono con naturalezza. Glenn Gould lo descrive così: "Schoenberg, il profeta murato nel silenzio, aveva ritrovato la voce: da motivazioni arbitrarie fatte di nozioni matematiche elementari e di discutibili convinzioni storiche scaturiva una straordinaria gioia di vivere, un entusiasmo per il fare musica. [...]. In questo brano l'inventiva di Shoenberg nasce in realtà proprio dall'autodisciplina. Egli non si limita ad applicare con rigore il metodo dodecafonico da lui elaborato, ma sceglie di proposito un materiale seriale che restringe ulteriormente le sue scelte in fatto di intervalli". (Glenn Gould, "L'ala del turbine intelligente", 1988)

C'è da dire che la dodecafonia è stata inventata di sana pianta da Arnold Shoenberg e (giustamente) mai da lui proposta come metodo compositivo da seguire in generale. La dodecafonia era un buon metodo compositivo per lui, non per tutti. Ma da quel momento in poi sono stati parecchi i "sistemi" musicali introdotti ad hoc, e, ovviamente, mai praticati a sufficienza per poter essere minimamente recepiti dalla maggior parte del pubblico. Tutto un certo tipo di musica ha acquisito un eccessivo carattere sperimentale, contro qualunque sedimentazione.

Dall'ascolto dei Sechs Kleine Klavierstucke e dallo sviluppo storico di molta musica successiva viene in mente che forse nell'arte è importante l'equilibrio tra libertà di espressione e vincolo formale. Si tratta di un aspetto fondamentale sia per farla che per fruirla come spettatore consapevole. I vincoli formali possono ridurre l'attività artistica quasi ad un procedimento meccanico, fatto esclusivamente di mestiere e di tecnica. L'emancipazione assoluta da qualsiasi forma fa letteralmente mancare la terra sotto ai piedi. Più esattamente quello che viene a mancare è un "linguaggio", condiviso, sedimentato e lentamente trasformato nel tempo, terreno di comunicazione attraverso il quale esprimersi e tramite il quale condividere stati d'animo con altri (il pubblico).

Ritrovo in parte questa mia osservazione in un famoso scritto di Igor Stravinsky: "Per quel che mi riguarda, io provo una specie di terrore quando, al momento di mettermi al lavoro e innanzi alle infinite possibilità che mi si offrono, ho la sensazione che tutto mi sia permesso. Se tutto mi è permesso, il meglio e il peggio, se nulla mi oppone resistenza, ogni sforzo è inconcepibile, io non posso appoggiarmi a nulla per costruire e quindi ogni impresa sarebbe vana. [...] La mia libertà consiste dunque nel muovermi nel piano limitato che mi son prefisso per ciascuna delle mie imprese. Dirò di più: la mia libertà sarà tanto più grande e profonda quanto più strettamente limiterò il mio campo di azione e quanto più numerosi saranno gli ostacoli di cui mi circonderò. Ciò che mi toglie un ostacolo, mi toglie una forza. Più ci si impongono delle costrizioni, e più ci si libera di queste catene che impastoiano lo spirito" (Igor Stravinsky, "Poetica della Musica", 1942).

venerdì 3 dicembre 2010

Meno per meno fa più

Un giorno un mio amico mi chiese: "perchè meno per meno fa più?". Alludeva ovviamente alla nota regoletta algebrica che si impara credo alle scuole medie quando si definiscono gli interi relativi (..., -2, -1, 0, 1, 2, ...). Ammetto che sul momento non mi arrivò la provocazione della domanda. Però nei giorni seguenti ci ripensai più volte.

Il punto evidentemente è che si tratta di una regola stranota e strautilizzata che però non è così intuitiva. Dà fastidio usare una cosa così spesso senza manco darsi una spiegazione (è sicuramente quello che pensava il mio amico).

All'epoca una spiegazione me l'ero data, poi m'è passata. Il motivo per cui scrivo questo post è che mi è capitato di leggere la stessa domanda in un divertente libro di Ian Stewart, "La piccola bottega delle curiosità matematiche del professor Stewart", una tipica lettura da toilette (non so se mi spiego...).

Intanto si tratta di una definizione. Questo è importante. In matematica è consentito introdurre qualunque oggetto o regola, purchè tutto sia ben definito. Però la domanda "da dove salta fuori una regola del genere?" è legittima. Il libro fa un primo esempio, a cui all'epoca non avevo pensato, traendolo come al solito dalla contabilità. Se il mio conto in banca è di -3 euro, significa che devo alla banca 3 euro. Se il mio debito si raddoppia significa che devo alla banca 6 euro. Cioè 2 x (-3) = -6. Se la banca mi elimina gentilmente 2 debiti da 3 euro ciascuno io ho automaticamente un conto aumentato di 6 euro (come se le avessi depositate). Cioè (-2) x (-3) = 6. Quindi la regola "meno per meno fa più" nella contabilità si traduce in "cancellare dei debiti equivale a guadagnare".

Ma forse una regola algebrica deve trovare una giustificazione "interna all'algebra". La considerazione successiva che si legge nel libro è molto simile a quella che mi ero data all'epoca. Nell'insieme dei numeri relativi per ogni elemento b esiste il corrispondente elemento opposto (- b) per cui si ha b + (- b) = b - b = 0, dove lo zero è l'elemento neutro rispetto alla somma (b + 0 = b, qualunque b). L'operazione di moltiplicazione nei numeri relativi è definita in modo tale che ogni elemento, positivo o negativo, moltiplicato per zero è zero (0 x a = 0, qualunque a). Dunque (b - b) x (- a) = 0. Ma per la proprietà distributiva della moltiplicazione si ha che b x (- a) + (- b) x (- a) = 0, da cui discende che i due addendi sono l'uno l'emento opposto dell'altro. Se allora è ovvio accettare il fatto che 2 x (- 3) = -6 dovrò anche accettare che (- 2) x (- 3) = 6 in quanto questo "rende coerente" la struttura algebrica.

La matematica definisce oggetti astratti e regole di composizione su questi oggetti, e a tutto ciò si chiede semplicemente la coerenza interna. Sotto questa luce i particolari oggetti e le particolari regole non sono neanche così importanti. David Hilbert diceva: "I teoremi della geometria euclidea devono rimanere validi anche se parlano non di punti, linee e piani ma di 'tavoli, sedie e boccali di birra', sempre che questi oggetti obbediscano agli assiomi".