lunedì 21 gennaio 2013

Lavorare meno, lavorare tutti?


"Lavorare meno, lavorare tutti" è uno slogan che nel passato mi ha affascinato ma credo che oggi non lo posso più accettare come qualcosa che abbia dietro un'idea di società funzionante. Rimane uno slogan vuoto da tirar fuori ogni tanto per rimarcare un difetto reale del nostro mercato del lavoro, quello che costringe al superlavoro una percentuale minoritaria di persone competenti. Nel passato (e forse un po' ancora oggi) il superlavoro qualificato è stato alimentato (e celebrato) da modelli culturali discutibili. Ma lo slogan di cui sopra non ha speranza di risolvere il problema.

Lavorare bene, giustificare il proprio stipendio all'interno del sistema produttivo in cui si opera, a qualunque livello, dal negozietto alla grande azienda, dare al proprio lavoro la qualità che merita. E ricevere il giusto compenso per quello che si fa. Anche questi sono valori importanti, per l'individuo e per la società di cui fa parte. Il lavoro è uno di quei valori fondanti di una società (non a caso ce lo abbiamo nella Costituzione) per cui andrebbe sempre usato il doppio termine "diritto/dovere". Se chiunque ha il diritto di lavorare ha anche il dovere di farlo al meglio delle sue possibilità. E la società glielo deve riconoscere. Questo è il meccanismo su cui la società dovrebbe puntare.

Troppo spesso mi è capitato di verificare a vari livelli che la qualità del lavoro non venga sufficientemente riconosciuta, non solo economicamente ma neanche come fatto moralmente e culturalmente importante. Credo che in Italia purtroppo le competenze tecniche elevate risultino troppo spesso perlopiù inutili dal punto di vista professionale. Nel senso che troppo spesso se sei mediocre, bravo o bravissimo può non fare una grossa differenza ai fini della collocazione professionale, della soddisfazione, del riconoscimento e, ovviamente, dello stipendio. Questo significa non solo aver costruito un sistema produttivo e un mercato del lavoro dove il merito non viene considerato come dovrebbe ma che addirittura il sistema può ragionevolmente essere definito "de-meritocratico", in cui il merito risulta essere addirittura un fatto sconveniente.

Il nostro sistema produttivo è adatto a figure mediocri che occupano un posto, svolgono mansioni di routine, di tipo burocratico, dove la responsabilità di quello che si fa è sistematicamente mascherata o mascherabile, insomma non in evidenza. Le persone che attualmente hanno meno problemi sono queste, sebbene la crisi stia probabilmente cambiando in parte le cose, e questo è forse il suo unico aspetto positivo. Effettivamente si tratta di un aspetto culturale profondo che probabilmente solo una crisi profonda del sistema potrebbe cambiare. Ed è un aspetto che viene colto bene solo da chi tenta di lavorare con un alto livello di qualità e professionalità.

Non so se il concetto di "mercato" sia criticabile e se è possibile una società diversa, ma sta di fatto che almeno in Italia probabilmente il problema peggiore è che questo concetto è stato applicato troppo raramente. Una buona parte di "professionisti" e "imprenditori" per anni hanno lavorato, e continuano a farlo, non con le regole del mercato ma attraverso una rete di "amicizie" e di rapporti (ruffiani) di potere che hanno l'effetto di mettere in un piano di assoluta trascurabilità la qualità delle vere e proprie prestazioni professionali. Questa cosa è talmente diffusa che forse risulta anche impossibile per molti evitarla.

Lo slogan "lavorare meno, lavorare tutti" non contiene un elemento che per me è diventato essenziale: la qualità del nostro lavoro. Dunque non lo posso accettare. Anzi, il valore di uguaglianza a cui questo slogan punta (e che lo rende affascinante) gli dà purtroppo un contenuto di irrealtà evidente (che me lo rende fastidioso). Non si può distribuire il lavoro in egual misura, indistintamente, perchè non si può tradurre il lavoro in "ore lavorative". Forse tutto questo conserva un senso ben preciso solo nelle grandi fabbriche, e solo per le figure professionali di minor qualifica. Ma di questi ambienti non ho esperienza.

domenica 13 gennaio 2013

Caso e superstizione


Il caso è un concetto che ha due caratteristiche interessanti: si è inserito in maniera sempre più pervasiva nello sviluppo della scienza moderna ed è estremamente ostico da digerire.

Il caso è entrato nella descrizione di tantissimi fenomeni fisici, il concetto di probabilità si è dimostrato un concetto estremamente fecondo e il calcolo delle probabilità è oggi presente in quasi tutti i campi della fisica. L'approccio probabilistico ha dato frutti notevoli ogni volta che la descrizione deterministica non era più praticabile, soprattutto nell'affrontare la modellizzazione di fenomeni complessi, quelli con un elevato numero di gradi di libertà. Il caso entra non solo nella trattazione statistica dei fenomeni complessi ma anche in quella di tutti i fenomeni quantistici, quindi nella chimica come nella biologia.

Tuttavia il caso è anche un concetto che ci appare infecondo, privo di significato, poco interessante, e questo probabilmente perché non si lega ai meccanismi di causa-effetto che hanno da sempre giocato un ruolo principale nella nostra comprensione del mondo. Noi tendiamo ad associare qualunque evento ad una qualche causa. E' un istinto molto forte e antico che probabilmente genera in noi il concetto di destino e ispira le concezioni finalistiche del mondo.

Molto probabilmente questo istinto oltre a renderci inaccettabile il concetto di caso è anche alla base di molti atteggiamenti superstiziosi, dove per superstizione si intende la tendenza ad associare coppie di eventi attraverso relazioni di causa-effetto che non hanno nessun fondamento razionale.

E' molto interessante constatare che questa cosa è probabilmente una caratteristica non solo umana, bensì condivisa anche da altre specie (dunque un istinto ancestrale). Tempo fa un mio amico mi ha raccontato di un esperimento fatto con i piccioni, facilmente reperibile su Internet, che rende esplicito proprio questo fatto. L'esperimento mostra il seguente risultato, curioso e istruttivo: se si apre un varco per il cibo in conseguenza di un preciso comportamento (tipo "sbattere le ali") il piccione impara e lo ripete ogni volta che vuole ottenere cibo. Se invece gli si apre il varco a caso il piccione tende a ripetere il primo comportamento avuto casualmente all'apertura del varco (tipo "sbattere le ali") e ogni volta che riottiene casualmente questa coincidenza rafforza questo suo comportamento "superstizioso".

giovedì 3 gennaio 2013

I logaritmi del sor Pompilio


Era un periodo in cui passeggiavamo spesso sotto casa. A volte incontravamo il sor Pompilio, un nostro vicino, un anziano signore che conosceva i nostri genitori. Lo salutavamo e qualche volta facevamo due chiacchiere di circostanza. Una di queste volte ci fa una domanda strana: "Ma voi che studiate, mi sapreste dire che cosa sono i logaritmi? E a che cosa servono?". Noi effettivamente all'epoca studiavamo, eravamo due liceali, avevamo già avuto a che fare con i logaritmi, ma francamente non sapevamo come rispondergli, e a dir la verità la cosa ci appariva piuttosto comica. Il bello è che questa situazione se non ricordo male si ripropose più di una volta e noi ovviamente, sebbene ci divertissimo, non abbiamo mai soddisfatto questa sua curiosità.

Adesso provo a spiegare al sor Pompilio cosa sono i logaritmi e a cosa servono, sebbene per lui questa mia spiegazione arrivi in netto ritardo ...

Supponiamo che si debba moltiplicare 100 per 1000. Come si impara già dalle scuole elementari questa cosa si può fare molto facilmente contando gli zeri dei due numeri e sommandoli, il risultato sarà 100000. Supponiamo invece di dover dividere 100000 per 100. Anche in questo caso trovare il risultato è semplice, basta fare la differenza degli zeri. Si può esprimere questa cosa più efficacemente attraverso le potenze: 10^2*10^3=10^5 per la moltiplicazione e 10^5/10^2=10^3 per la divisione. In altre parole per moltiplicare si sommano gli esponenti, per dividere si sottraggono; in tal modo si riduce una moltiplicazione in una somma e una divisione in una differenza. Gli esponenti che stiamo sommando o sottraendo si dicono "logaritmi" dei numeri che moltiplichiamo o dividiamo.

Si può provare a generalizzare in questo modo: supponiamo di dover moltiplicare due fattori qualsiasi A e B. Possiamo pensare di rappresentarli attraverso due opportune potenze di 10 e scrivere: A*B=10^a*10^b=10^(a+b). Analogamente per la loro divisione. Abbiamo così ridotto il calcolo di una moltiplicazione/divisione di una qualunque coppia di numeri in quello di una addizione/sottrazione dei loro logaritmi. Se riuscissimo a scrivere tutti i numeri (o quasi tutti i numeri) come potenze di una base scelta (ad esempio il 10) avremmo un vero e proprio strumento di calcolo. Questo strumento è esistito e si chiamava "tavola dei logaritmi" (e consentiva di calcolare facilmente anche potenze e radici). Se poi addirittura riuscissimo a costruire delle aste scorrevoli con scale graduade in cui ogni numero è espresso con un segmento proporzionale al suo logaritmo avremmo una calcolatrice che moltiplica e divide semplicemente sommando o sottraendo segmenti. Questa calcolatrice è esistita e si chiamava "regolo calcolatore" (e permetteva di calcolare anche quadrati, cubi, radici, potenze, funzioni trigonometriche, ecc.).

I logaritmi, sebbene abbiano attualmente innumerevoli applicazioni in tutte le discipline scientifiche, come strumento di calcolo sono stati completamente superati dal calcolo automatico digitale odierno. Ma hanno assistito le capacità di calcolo manuali dell'uomo dal momento della  loro prima introduzione nel 1614 ad opera di John Neper (Giovanni Nepero) fino agli anni in cui il sor Pompilio era un ragazzo come lo eravamo noi all'epoca della sua curiosa domanda.