mercoledì 31 dicembre 2014

Una trasmissione su G. M. Volontè

Siamo sul divano, io e Simonetta. Abbiamo appena finito di vedere un film, lei prende in mano il telecomando e comincia a fare zapping veloce. Come sempre per me è troppo veloce ma evidentemente per lei no perché si ferma su una trasmissione interessante che racconta la carriera di Gian Maria Volonté, certamente uno degli attori più importanti del cinema italiano.

La trasmissione è fatta attraverso il racconto di un regista italiano (intervistato da non si capisce chi) che non conosco e di cui non ricordo il nome. La formula è quella del documentario: interviste, spezzoni di film, immagini dell'epoca. Il regista che racconta passa in rassegna i film più importanti girati dall'attore e anche le sue scelte insolite e in un certo senso suicide (rifiuta di fare "Il padrino" con Coppola e "Novecento" con Bertolucci, accettando invece film con registi molto meno noti) ma seguendo evidentemente un suo percorso artistico molto personale.

Il documentario è iniziato da tempo e noi ne vediamo solo la sua parte finale. Una cosa però mi colpisce parecchio, proprio alla chiusura dell'intervista allo sconosciuto regista. Quest'ultimo, sottolineando la complessità della figura di Volonté, dice terminando il suo discorso: "Volonté non va commemorato, va studiato".

Ecco, è questo il punto. A che servono tutte le commemorazioni di personaggi più o meno famosi (spesso purtroppo neanche così interessanti) che la televisione ci propina continuamente? A che servono quelle innumerevoli interviste di uno come Fazio ad esempio, che partono sempre dal presupposto che ha davanti un mostro sacro e proprio per questo non "scopre" mai niente di interessante su di lui e sul suo lavoro, essendo l'obiettivo finale semplicemente la celebrazione? Chiunque abbia dato un contributo significativo alla cultura e alla conoscenza non viene mai veramente valorizzato dalle celebrazioni che si fanno su di lui.

Proprio non mi interessano le commemorazioni. E tutte quelle trasmissioni televisive che in un modo o nell'altro le fanno (ci sono infiniti modi per farlo) mi annoiano terribilmente. E non aggiungono niente alle mie conoscenze.

mercoledì 24 dicembre 2014

Illusioni evolutive

Le illusioni ottiche oltre ad essere divertentissime sono anche molto istruttive. Ce ne è una ad esempio che nella sua semplicità è veramente impressionante. Si chiama Scacchiera di Adelson, è reperibile ovunque su Internet, ad esempio andando semplicemente a consultare la voce di Wikipedia "Illusione Ottica". Si tratta di una scacchiera a quadrati grigi chiari e grigi scuri su cui è poggiato un cilindro che proietta su di essa la sua ombra. Due quadrati di questa scacchiera hanno esattamente la stessa tonalità di grigio (li si vede bene isolandoli dal contesto) eppure messi nella figura vengono percepiti come quadrati opposti (grigio chiaro e grigio scuro). Proprio non c'è verso di vederli come effettivamente sono, cioè esattamente uguali.

Quindi le nostre percezioni visive sono ingannevoli, non possiamo fidarcene ciecamente, sarebbe un errore grossolano. Non è difficile generalizzare ad altre percezioni. I nostri sensi non sono così affidabili, e l'esempio visto ci dice anche che è estremamente difficile accorgersene, tenerne conto o addirittura correggerle, nonostante tutta la razionalità che ci possiamo mettere.

E' abbastanza curioso che un senso così importante come la vista (intesa ovviamente come sistema occhio-cervello) abbia questi "bugs". In fondo è normale pensare che l'evoluzione avrebbe potuto fare di meglio. Ma non so se questa considerazione ha senso. Prima di tutto l'evoluzione non porta mai a risultati perfetti, anzi, nel contesto dell'evoluzione, così come la comprendiamo oggi, il concetto di perfezione non ha proprio senso. Poi abbiamo imparato che le funzioni biologiche si sviluppano secondo certe spinte evolutive che nel tempo in cui agiscono hanno l'effetto di raffinare alcuni aspetti di una specie vivente ma in certi casi determinare allo stesso tempo "effetti collaterali" (su quella stessa specie) che di vantaggioso hanno ben poco. E che questi effetti ad un certo punto potrebbero anche tornare utili per tutt'altro, al momento in cui l'ambiente cambia significativamente (da leggere a questo proposito "Il pollice del panda", di Stephen J. Gould). Insomma la cosa è piuttosto complessa.

Un'altra illusione ottica più semplice ma forse ancora più istruttiva è quella chiamata Triangolo di Kanizsa (anche questa documentata da Wikipedia). In questo semplice disegno si percepisce chiaramente la forma di un triangolo, ma di fatto il triangolo non c'è. Viene solo suggerito da elementi grafici che presi singolarmente non ci suggerirebbero alcunchè. I contorni di questo triangolo percepito dall'osservatore non sono disegnati, ragion per cui il sistema visivo deve trarre delle inferenze. Il soggetto "vede" una cosa che di fatto non c'è.

Questo "bug" può essere effettivamente spiegato come un effetto collaterale di capacità evolutivamente vantaggiose. Vedere delle forme conosciute anche dove effettivamente non ci stanno significa pure riuscire ad anticipare efficacemente la presenza di un pericolo. Ovviamente così c'è il rischio di prendere delle cantonate, ma è certamente un prezzo ragionevole da pagare.

Ma anche questa cosa può essere generalizzabile? E fino a che punto? La capacità di vedere o percepire cose che non esistono, di dare facilmente corpo ad una realtà più immaginata che oggettiva è un vantaggio? Un effetto collaterale interessante (e magari utile) di qualche altro aspetto, come quello di immaginare pericoli per poterli adeguatamente prevenire?

Pericoli o intenzionalità di entità coscienti. Il comportamento degli oggetti animati viene interpretato precocissimamente in termini di scopi e obiettivi da raggiungere. La mente umana ha la capacità (e le tendenza spontanea) ad attribuire stati mentali ad altre entità (quelle animate, ma non solo). I bambini hanno al massimo grado la capacità di vedere cose che non esistono e di costruirsi facilmente credenze di ogni tipo. Per mio figlio erano sufficienti quei pochi miseri indizi che il papà imbranato gli riusciva ad offrire per costruirsi il mito di Babbo Natale. La credenza veniva da sé, come "spinta" da qualche elemento ancestrale. Un qualsiasi elemento anche banale suggeriva la presenza di un'entità a cui mio figlio credeva subito incondizionatamente, come se l'avesse vista.

Questo ad occhio e croce lo si può chiamare animismo. Una potente illusione costruita dall'evoluzione? Quanto della storia e della cultura dell'uomo dipende da essa?

sabato 20 dicembre 2014

L'importanza dell'interpretazione nella musica scritta

La musica scritta per la maggior parte delle persone, anche amanti della musica, purtroppo non ha senso alcuno (dico purtroppo perchè qualunque appassionato farebbe bene a studiarla, almeno un po'). Il senso l'acquista solamente nel momento in cui questa viene suonata da un professionista che sia in grado di farlo. Nasce però contemporaneamente il problema dell'interpretazione legato essenzialmente al fatto che la notazione musicale, per quanto precisa e arricchita di indicazioni, lascia inevitabilmente spazi di autonomia all'esecutore. Non sto parlando di tutta la musica, sto parlando di quella di tradizione occidentale, che da un certo punto in poi della sua storia è diventata, nella prassi esecutiva colta (non quella popolare), l'esecuzione di un testo scritto in precedenza.

Normalmente ci si avvicina a questo problema in maniera un po' forzata e artificiosa, soprattutto perchè occorre una grande pratica di ascolto per acquisire la sensibilità necessaria a distinguere un'esecuzione dall'altra. Sorge normalmente il dubbio abbastanza ovvio e comprensibile: visto che le differenze sono così difficili da cogliere perchè dovrei preoccuparmene? E' veramente un problema importante? Le esecuzioni di un brano possono veramente essere diverse in un modo significativo? Compro un disco e ascolto il brano. C'è bisogno di ascoltare altre registrazioni? C'è bisogno di andare ad un concerto per risentire il pezzo fatto dal vivo da qualcun'altro? Ha senso andare ad un concerto di musica scritta?

C'è un aspetto che mi ha sempre colpito, che ha il vantaggio di essere un dato dell'esperienza di molti ascoltatori di musica (almeno per me lo è stato parecchie volte) e quindi facilmente comprensibile, e che gioca a favore della risposta "si" a tutte le domande fatte sopra. Se si conosce un brano attraverso l'ascolto ripetuto dell'esecuzione del musicista tal dei tali si tende più o meno consapevolmente ad affezionarsi non solo a quel brano ma proprio a quella esecuzione. Non è molto difficile farci caso, e ovviamente è tanto più facile quanto più si ama quel brano e lo si è ascoltato infinite volte attraverso quella registrazione (perchè quella ci è capitato di comprare). Questa secondo me è la prova più evidente che esiste l'elemento "interpretazione" e che questo gioca un ruolo importante nella musica scritta.

Il disco è (o forse ormai è stato) un supporto fondamentale per veicolare la conoscenza della musica ma finisce per cristallizzare in modo irreale la musica stessa, che alla fine è una forma d'arte che si articola in ripetizioni con piccole variazioni. La registrazone (o meglio l'ascolto esclusivo di una particolare registrazione) toglie in parte quel contenuto di variazione che è importante e costitutivo del fenomeno musicale.

mercoledì 3 dicembre 2014

La conservazione dei dati digitali

Nello studio delle tecnologie di Internet è abbastanza probabile imbattersi in documenti chiamati "Request for Comments" o più brevemente RFC, numerati con un numero progressivo. In essi gli informatici descrivono protocolli, tecnologie, metodologie, sotto forma di proposte che la comunità di esperti è chiamata a vagliare. Alcuni di questi documenti, dopo un lungo processo, possono diventare degli "Standard Internet".

Quello che colpisce di questi documenti è il fatto che siano scritti tutti rigorosamente in codifica ASCII, un codice per lo scambio di informazioni accettato come standard prima da ANSI e successivamente da ISO a cavallo degli anni sessanta e settanta. Colpisce perché un documento scritto in questo modo risulta estremamente rozzo dal punto di vista tipografico, soprattutto confrontato con i caratteri raffinati introdotti dai moderni word processors. E colpisce altrettanto il motivo per cui questi documenti vengono pubblicati così: essendo fondamentale la garanzia di una loro diffusione certa e illimitata alla totalità della comunità di Internet l'uso di codifiche magari più potenti ed efficaci ma inevitabilmente legate a programmi che le interpretano non è consigliabile in quanto non assicura la loro universalità di accesso.

Quello che non avevo valutato a sufficienza è che questa cosa va vista anche e soprattutto nel tempo. E' necessario assicurarsi che questi documenti possano essere letti facilmente anche dopo molti anni dalla loro pubblicazione, in quanto in essi sono descritti in dettaglio i protocolli costitutivi di Internet e le prescrizioni con cui vanno implementati per assicurare l'interoperabilità di tutti gli host della rete. Perdere un bel giorno l'accesso a queste conoscenze fondamentali perché magari non risultano più disponibili i programmi che sappiano leggere i testi che le documentano è una minaccia molto concreta.

Questo concetto è generalizzabile a tutti i dati digitali, qualunque cosa rappresentino, dal momento in cui si è cominciati a conservarli fino ad oggi. Un qualsiasi dato digitale è di fatto un numero, ovvero una stringa più o meno lunga di bit, che però non ha alcun senso se non si è in possesso del programma giusto per leggerlo (presumibilmente lo stesso utilizzato per produrlo a suo tempo). Può sfuggire l'importanza di questo fatto ma su tempi molto lunghi (molto più lunghi dell'attuale periodo di sviluppo dell'era digitale) può costituire un gravissimo problema di corretta conservazione delle conoscenze dell'umanità. E' in un certo senso un tema un po' controcorrente visto che oggi si parla esclusivamente del fatto che tutto quello che mettiamo in rete diventa automaticamente eterno, sempre disponibile e di fatto incancellabile..... Oppure quest'ultimo aspetto è semplicemente l'altra faccia della stessa cosa.

Vinton Cerf, uno dei padri delle tecnologie di Internet e pioniere dell'era digitale sintetizza questo doppio problema con il seguente commento: "Internet ricorda cose che vorremmo che non ricordasse, e dimentica cose che vorremmo che ricordasse".