mercoledì 8 dicembre 2010

Sechs Kleine Klavierstucke

Arnold Shoenberg scrisse questi pezzi (op. 19) nel 1919. Io li conosco da un bel po' di tempo e anni fa provai anche a suonarne un paio (il secondo e il sesto). Sono brani interessanti da sentire almeno per due motivi (ammesso che uno riesca a fare lo sforzo di ascoltarli, ma durano pochissimo, meno di sei minuti in tutto):

1. innanzitutto ti viene in mente che per ascoltarli dovresti far riferimento a categorie di ascolto affatto diverse da quelle abituali. Non ci sono i classici "appigli" che caratterizzano praticamente qualsiasi altro brano musicale. Non c'è un disegno melodico chiaro e percepibile (una linea di canto), almeno non ce ne è uno che duri più di tre o quattro note, decisamente troppo poco. Non si riconosce una tonalità di riferimento, in quanto viene volutamente evitata dall'autore (per capirci non è possibile immaginare nessuna "logica" progressione di accordi, come quella che potremmo sentire in una normalissima canzone). Non c'è praticamente nessun elemento ripetuto, almeno non a sufficienza per poter essere ben apprezzato dall'orecchio (forse con un'eccezione che riguarda il secondo brano). La sensazione che ne deriva è di un generale disorientamento. A me questa caratteristica è sempre sembrata molto istruttiva, in quanto ti obbliga a riflettere sulla musica, su come è fatta, su quali sono i suoi ingredienti, se sia o meno indispensabile che questi ingredienti effettivamente ci siano. Un pregio di questi pezzi (probabilmente il loro grande fascino) è che indubbiamente sono "liberi" da qualsiasi struttura precostituita. Non a caso sono stati classificati come lo stile musicale della libertà.
"Lo stile musicale della libertà, raggiunto con l'op. 19, ha come caratteristiche essenziali: libertà tonale, struttura atematica e amorfismo" (H. H. Stuckenschmidt, "La musica moderna", 1951).

2. L'altro aspetto interessante è la loro collocazione storica, o meglio, il loro posto nella parabola artistica dell'autore. Precedentemente Shoenberg aveva scritto sempre musica tonale, inserita nel solco della tradizione occidentale. E' vero che quest'ultima andava progressivamente ampliando, sfaldando, scardinando le regole del linguaggio, probabilmente però l'op. 19 ha "rotto" qualcosa, almeno nel modo di scrivere dell'autore, e sicuramente, vista la sua grande influenza, anche nel modo di scrivere delle generazioni future. Questi pezzi hanno forse un carattere di manifesto di una nuova musica. Sono brevissimi, di carattere aforistico, probabilmente con le prerogative poc'anzi accennate non era proprio possibile scrivere più di così. E soprattutto Shoenberg non scriverà più cose simili. Addirittura Glenn Gould sostiene che "[...] l'op. 19 [...] non fu per lui un'esperienza fruttuosa. Di lì a poco egli si sarebbe rinchiuso per dieci anni nella meditazone e nel ripensamento".

Ed effettivamente gli anni successivi sono piuttosto infruttuosi, come se avesse toccato un fondo da cui doveva col tempo poter riemergere in qualche modo. Il bello è che riemerge "dandosi delle nuove regole", che gli permetteranno di scrivere in una forma disciplinata almeno tanto quanto quella che aveva lasciata, ma nuova. Nasce la dodecafonia.

Arnold Shoenberg scrive l'op. 25 nel 1925. Il brano è dodecafonico. Anche questo è arduo da ascoltare (anche di più dei 6 piccoli pezzi, in quanto è decisamente più lungo) ma vale la pena perchè si capisce bene che qui è tutto molto meno problematico, più tranquillo, le idee musicali per quanto "strane", lontane dalla comune sensibilità, fluiscono con naturalezza. Glenn Gould lo descrive così: "Schoenberg, il profeta murato nel silenzio, aveva ritrovato la voce: da motivazioni arbitrarie fatte di nozioni matematiche elementari e di discutibili convinzioni storiche scaturiva una straordinaria gioia di vivere, un entusiasmo per il fare musica. [...]. In questo brano l'inventiva di Shoenberg nasce in realtà proprio dall'autodisciplina. Egli non si limita ad applicare con rigore il metodo dodecafonico da lui elaborato, ma sceglie di proposito un materiale seriale che restringe ulteriormente le sue scelte in fatto di intervalli". (Glenn Gould, "L'ala del turbine intelligente", 1988)

C'è da dire che la dodecafonia è stata inventata di sana pianta da Arnold Shoenberg e (giustamente) mai da lui proposta come metodo compositivo da seguire in generale. La dodecafonia era un buon metodo compositivo per lui, non per tutti. Ma da quel momento in poi sono stati parecchi i "sistemi" musicali introdotti ad hoc, e, ovviamente, mai praticati a sufficienza per poter essere minimamente recepiti dalla maggior parte del pubblico. Tutto un certo tipo di musica ha acquisito un eccessivo carattere sperimentale, contro qualunque sedimentazione.

Dall'ascolto dei Sechs Kleine Klavierstucke e dallo sviluppo storico di molta musica successiva viene in mente che forse nell'arte è importante l'equilibrio tra libertà di espressione e vincolo formale. Si tratta di un aspetto fondamentale sia per farla che per fruirla come spettatore consapevole. I vincoli formali possono ridurre l'attività artistica quasi ad un procedimento meccanico, fatto esclusivamente di mestiere e di tecnica. L'emancipazione assoluta da qualsiasi forma fa letteralmente mancare la terra sotto ai piedi. Più esattamente quello che viene a mancare è un "linguaggio", condiviso, sedimentato e lentamente trasformato nel tempo, terreno di comunicazione attraverso il quale esprimersi e tramite il quale condividere stati d'animo con altri (il pubblico).

Ritrovo in parte questa mia osservazione in un famoso scritto di Igor Stravinsky: "Per quel che mi riguarda, io provo una specie di terrore quando, al momento di mettermi al lavoro e innanzi alle infinite possibilità che mi si offrono, ho la sensazione che tutto mi sia permesso. Se tutto mi è permesso, il meglio e il peggio, se nulla mi oppone resistenza, ogni sforzo è inconcepibile, io non posso appoggiarmi a nulla per costruire e quindi ogni impresa sarebbe vana. [...] La mia libertà consiste dunque nel muovermi nel piano limitato che mi son prefisso per ciascuna delle mie imprese. Dirò di più: la mia libertà sarà tanto più grande e profonda quanto più strettamente limiterò il mio campo di azione e quanto più numerosi saranno gli ostacoli di cui mi circonderò. Ciò che mi toglie un ostacolo, mi toglie una forza. Più ci si impongono delle costrizioni, e più ci si libera di queste catene che impastoiano lo spirito" (Igor Stravinsky, "Poetica della Musica", 1942).

venerdì 3 dicembre 2010

Meno per meno fa più

Un giorno un mio amico mi chiese: "perchè meno per meno fa più?". Alludeva ovviamente alla nota regoletta algebrica che si impara credo alle scuole medie quando si definiscono gli interi relativi (..., -2, -1, 0, 1, 2, ...). Ammetto che sul momento non mi arrivò la provocazione della domanda. Però nei giorni seguenti ci ripensai più volte.

Il punto evidentemente è che si tratta di una regola stranota e strautilizzata che però non è così intuitiva. Dà fastidio usare una cosa così spesso senza manco darsi una spiegazione (è sicuramente quello che pensava il mio amico).

All'epoca una spiegazione me l'ero data, poi m'è passata. Il motivo per cui scrivo questo post è che mi è capitato di leggere la stessa domanda in un divertente libro di Ian Stewart, "La piccola bottega delle curiosità matematiche del professor Stewart", una tipica lettura da toilette (non so se mi spiego...).

Intanto si tratta di una definizione. Questo è importante. In matematica è consentito introdurre qualunque oggetto o regola, purchè tutto sia ben definito. Però la domanda "da dove salta fuori una regola del genere?" è legittima. Il libro fa un primo esempio, a cui all'epoca non avevo pensato, traendolo come al solito dalla contabilità. Se il mio conto in banca è di -3 euro, significa che devo alla banca 3 euro. Se il mio debito si raddoppia significa che devo alla banca 6 euro. Cioè 2 x (-3) = -6. Se la banca mi elimina gentilmente 2 debiti da 3 euro ciascuno io ho automaticamente un conto aumentato di 6 euro (come se le avessi depositate). Cioè (-2) x (-3) = 6. Quindi la regola "meno per meno fa più" nella contabilità si traduce in "cancellare dei debiti equivale a guadagnare".

Ma forse una regola algebrica deve trovare una giustificazione "interna all'algebra". La considerazione successiva che si legge nel libro è molto simile a quella che mi ero data all'epoca. Nell'insieme dei numeri relativi per ogni elemento b esiste il corrispondente elemento opposto (- b) per cui si ha b + (- b) = b - b = 0, dove lo zero è l'elemento neutro rispetto alla somma (b + 0 = b, qualunque b). L'operazione di moltiplicazione nei numeri relativi è definita in modo tale che ogni elemento, positivo o negativo, moltiplicato per zero è zero (0 x a = 0, qualunque a). Dunque (b - b) x (- a) = 0. Ma per la proprietà distributiva della moltiplicazione si ha che b x (- a) + (- b) x (- a) = 0, da cui discende che i due addendi sono l'uno l'emento opposto dell'altro. Se allora è ovvio accettare il fatto che 2 x (- 3) = -6 dovrò anche accettare che (- 2) x (- 3) = 6 in quanto questo "rende coerente" la struttura algebrica.

La matematica definisce oggetti astratti e regole di composizione su questi oggetti, e a tutto ciò si chiede semplicemente la coerenza interna. Sotto questa luce i particolari oggetti e le particolari regole non sono neanche così importanti. David Hilbert diceva: "I teoremi della geometria euclidea devono rimanere validi anche se parlano non di punti, linee e piani ma di 'tavoli, sedie e boccali di birra', sempre che questi oggetti obbediscano agli assiomi".

sabato 27 novembre 2010

Precetti del catechismo

Attraverso il web mi imbatto nella storia di Lisa, Delia e Flavio. C'è talmente tanta umanità in questa vicenda che mi stupisce sempre pensare all'atteggiamento così contrario che la Chiesa Cattolica ha nei confronti di cose del genere. Si tratta probabilmente di una forte questione di principio che manda in secondo piano tutto il resto. Allora faccio il tentativo di andarmi a scovare questi principi dentro il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica.

Dalla lettura delle domande 498 e 499 (il compendio è scritto in forma dialogica) viene fuori che la chiesa è contraria alle forme di fecondazione assistita principalmente perchè le ritiene pratiche immorali in quanto "dissociano la procreazione dell'atto con cui gli sposi si donano intimamente, instaurando così un dominio della tecnica sull'origine e sul destino della persona umana".

Perchè la tecnica dovrebbe essere immorale? O meglio, perchè procreare con l'aiuto di una tecnica ottenuta dall'uomo attraverso le sue conoscenze sul mondo dovrebbe essere giudicato un fatto immorale? Nella domanda successiva, la 500, viene detto esplicitamente che un figlio è un "dono di Dio" e che non esiste un diritto ad avere figli.

La chiesa nel caso della fecondazione assistita non condanna le conoscenze, non condanna la tecnica che da esse deriva, non condanna neppure la conseguenza a breve termine di questa tecnica, quella principale, la procreazione di un figlio. Condanna invece una qualche conseguenza secondaria, a lungo termine, giudicata immorale: il "dominio della tecnica sull'origine e sul destino della persona umana".

A questo punto mi serve di precisare il concetto di moralità secondo la chiesa e la relazione che l'uso della tecnica ha con essa. Torno a leggere il Compendio.

Alcune domande (372, 415 e 416) precisano il concetto di moralità, cioè la capacità dell'uomo di distinguere il bene dal male. La morale è ispirata da Dio: "Quando ascolta la coscienza morale, l'uomo prudente può sentire la voce di Dio che gli parla". Risulta immorale tutto ciò che allontana da Dio: "La legge morale è opera della sapienza divina. Prescrive all'uomo le vie, le norme di condotta che conducono alla beatitudine promessa e vietano le strade che allontanano da Dio". Infine la legge morale diventa "legge morale naturale" in quanto "iscritta dal creatore nel cuore di ogni uomo", "esprime il senso morale originario" ed è "universale e immutabile". "A causa del peccato, la legge naturale non sempre e non da tutti viene percepita con uguale chiarezza e immediatezza".

La morale è dunque un elemento che viene da Dio e ha al tempo stesso a che fare con la natura trascendente dell'uomo. L'uomo è l'unico essere vivente che partecipa della trascendenza divina, cioè in lui c'è qualcosa che lo accomuna a Dio e lo porta al di fuori della pura logica della natura. L'uomo è dotato di libero arbitrio e può fare delle scelte, il suo comportamento può essere quindi giudicato moralmente. Il male si riduce all'allontanamento da Dio, ovvero all'allontanamento dal progetto che Dio ha per l'uomo.

Alcune tecniche sull'uomo, come ad esempio la fecondazione assistita, vengono considerate dalla chiesa come scelte di libero arbitrio che si pongono al di fuori del progetto divino. Sembra quindi che certi precetti del Catechismo della Chiesa Cattolica abbiano dietro il principio generale che l'uomo non può modificare o controllare la propria natura datagli da Dio, anche se potrebbe farlo proprio perchè ha in se la possibilità di trascenderla.

Rimane forse il fatto che bisognerebbe conoscere il progetto divino in tutti i suoi dettagli per capire bene se e in che modo l'uomo se ne allontana usando male quel suo libero arbitrio che è segno di trascendenza donataci da Dio.

Uffa, c'ho provato ... Torno a leggermi la bella storia di Lisa, Delia e Flavio.

domenica 21 novembre 2010

Conoscenze "fossili"

Mia nipote, che frequenta la prima media, ha appena studiato Cristoforo Colombo e la sua "scoperta" dell'America. Partendo dalla convinzione che la terra ha forma sferica Colombo si fa finanziare un lungo viaggio che dovrebbe portarlo alle Indie navigando nella direzione opposta a quella fino ad allora praticata. E sbarca in un nuovo continente. Non ne posso parlare con lei ma mi viene in mente il solito dubbio in merito a questa vicenda: ma è stato Cristoforo Colombo ad introdurre il concetto di sfericità della terra? Non mi quadra. Le mie conoscenze di storia mi suggeriscono che probabilmente Colombo "reintroduce" un concetto in qualche modo già noto, ma mi rendo conto che le circostanze non mi sono affatto chiare.

A distanza di una settimana mi capita di ascoltare una lezione di storia della scienza, tenuta dal prof. Lucio Russo (disponibile in rete), che tra le altre cose affronta guarda caso proprio questa questione, dandone un'interessantissima spiegazione.

La sfericità della terra è una conoscenza del mondo antico, in particolare sviluppata in dettaglio nel periodo ellenistico. Eratostene ne riesce a misurare persino il raggio, e quindi il meridiano, con una precisione impressionante per l'epoca. Archimede nel suo trattato sui galleggianti fornisce addirittura una "dimostrazione" della sfericità della terra utilizzando il suo famoso principio unitamente al concetto di peso come forza che attira tutti i corpi verso un centro (il centro della terra). Tolomeo considera acquisita questa conoscenza e la usa sia nel suo testo più importante, l'Almagesto, sia nell'opera La Geografia, dove vengono introdotte per la prima volta le coordinate sferiche, latitudine e longitudine, per descrivere le posizioni sulla terra.

Ma che succede dopo? In particolare nel medioevo? Lucio Russo osserva che questa idea non scompare ma in un certo senso si "fossilizza". Ovvero si perde la profondità delle conoscenze acquisite nei secoli precedenti e sopravvive solamente una nozione acritica, di fatto inutilizzata. Mentre Dante Alighieri nella sua Divina Commedia parla tranquillamente di terra sferica la cartografia della sua epoca non fa uso di questa nozione, e si limita ad una rappresentazione "piatta" del mondo, senza nessun riferimento alla sua possibilità di essere circumnavigato. A ben vedere anche l'uso che Dante fa di questa nozione di sfericità è del tutto fuori dalla realtà: sopra il mondo degli uomini centrato in Gerusalemme, sotto un emisfero inaccessibile, interamente coperto dalle acque, al centro del quale si erge il monte del purgatorio. Insomma Dante usa la sfericità della terra come una nozione "esterna" alla sua vera cultura. E molto probabilmente questo è l'uso che ne fa la civiltà sua contemporanea. Si deve dire che la terra è sferica perchè questa nozione è presente in tutti i testi antichi, ma la conoscenza che c'è intorno a questo fatto è andata perduta, e la nozione di fatto non viene utilizzata.

E come succede che Colombo recupera la "concretezza" di questa conoscenza? Anche qui Russo suggerisce una spiegazione semplice e interessante: nel 1475, appena 17 anni prima l'impresa organizzata da Colombo, esce in Italia la prima edizione a stampa de La Geografia di Tolomeo. Il recupero di una antica disciplina cartografica (conoscenze tecniche, metodi di misura, metodi di calcolo, ecc.) e le sempre più pressanti esigenze commerciali dell'epoca hanno fatto la differenza.

Come si può dimenticare una conoscenza? O meglio, come si può fossilizzare una cosa così importante nel corpus di conoscenze di una civilità? L'analogia che fa Russo per far capire che questo fatto non è poi così strano è al tempo stesso inquietante e istruttiva: provate a chiedere a una qualunque persona che passa per la strada se è il sole a girare intorno alla terra o la terra a girare intorno al sole. Risponderà certamente la seconda, senza nemmeno pensarci troppo. Provate ora a chiedergli perchè lo sa. Tutto quello che osserva gli indica che è il sole a girare intorno alla terra ma lui "sa" che deve dire esattamente il contrario ....

La questione della fossilizzazione e rivitalizzazione delle conoscenze non si applica solo a periodi storici remoti, ma è un fatto che riguarda probabilmente qualunque civiltà.

domenica 14 novembre 2010

Il Web è morto?

Prima o poi te la fai la domanda del perchè l'iPhone si è diffuso così tanto e in tempi così brevi. Una prima risposta, immediata, è che si tratta di un bell'oggetto, decisamente appetibile per un consumatore di tecnologia. Poi c'è l'innovazione tecnologica in senso stretto, anche quello è sicuramente un fattore di successo importante. Da questo punto di vista l'introduzione di un touch-screen così avanzato al momento della sua uscita sul mercato (tuttora probabilmente ineguagliato) m'è sempre sembrato l'elemento più significativo.

Ma ultimamente la lettura di un doppio articolo di Chris Anderson e Michael Wolff, che ha avuto una certa risonanza sul Web, mi ha portato un'ulteriore e significativa ragione del successo di questo smartphone. Questa starebbe nel cambiamento di paradigma nell'uso della rete Internet.

Internet è nata per collegare istituti di ricerca, università o ambienti militari. Comunque per veicolare informazioni inizialmente in ambienti molto ristretti e specialistici. La prima importante applicazione su Internet è stata probabilmente la posta elettronica e a me è capitato di vederla usare regolarmente in ambienti di ricerca scientifica quando la sua diffusione capillare in ambienti domestici era ancora lontana (almeno in Italia). Poi è arrivato il Web, e in poco tempo le cose sono cominciate a cambiare. Il Web è stato il veicolo principale dell'uso commerciale della rete Internet e quindi anche la spinta decisiva al suo enorme sviluppo.

La visione delle rate attraverso il Web è quella di uno spazio logico in cui si può "navigare" in maniera sostanzialmente libera attraverso un unico programma (il browser), avendo come orientamento un unico importante servizio: il motore di ricerca. Questa visione negli anni si è imposta come un vero e proprio paradigma, fino a far coincidere l'idea di Internet con quella del Web. Credo che tuttora molte persone non abbiano chiarissima la differenza, e soprattutto non sono interessati ad averla. Sta di fatto che la più grande azienda presente su Internet è proprio una di quelle che gestisce la ricerca di informazioni sul Web (Google).

Ma pare che qualcosa stia cambiando, e il principale veicolo di questo cambiamento sembra essere proprio quel genere di dispositivo di cui l'iPhone è al momento la massima espressione.

L'iPhone è stato introdotto sul mercato con una quantità considerevole di piccoli applicativi a lui dedicati, in parte gratuiti e in parte a pagamento, che in breve tempo sono diventati un giro di affari enorme (la cosa si è replicata su un dispositivo per certi versi analogo, l'iPad). Molti di questi applicativi sfruttano "risorse locali", ma molti altri sfruttano invece la "risorsa Internet", ovvero si collegano alla rete per attingere contenuti e servizi, spesso anche loro a pagamento. Questo sta di fatto cambiando l'utilizzo della rete da parte dell'utenza, sta introducendo un nuovo paradigma: Internet non attraverso il browser, in modo libero ma generico, bensì attraverso l'azione mirata di tanti applicativi specifici.

L'inizio dell'articolo di Anderson è estremamente efficacie: "Ti svegli e controlli la posta elettronica sull'iPad che tieni sul comodino. Ecco un'app. Mentre fai colazione dai un'occhiata a Facebook, a Twitter, e al New York Times. E sono altre tre app. Sulla strada verso l'ufficio, ascolti un podcast sul tuo smartphone. Un'altra app. Mentre lavori, guardi i feed Rss su un lettore e chiacchieri via Skype o via IM. Sono altre app. Al termine della giornata te ne torni a casa, prepari la cena ascoltando Pandora, giochi un po' con Xbox Live e guardi un film grazie al servizio in streaming Netflix. Hai passato la giornata su Internet, ma non sul Web. E non sei il solo. Non è una distinzione da poco".

La tesi interessante sostenuta dai due articolisti è che su questo nuovo paradigma sembra essersi realizzata una convergenza tra produttori e consumatori. I consumatori preferiscono sempre di più la strada facile delle piattaforme dedicate, spesso molto efficienti e ben funzionanti, che ne giustificano il costo, e i produttori hanno trovato un modo probabilmente più concreto per fare soldi. Tanto per fare un esempio la Apple si sta creando un business del tutto alternativo a quello che ha costruito in quest'ultimo decennio il dominio incontrastato di Google.

Sullo sfondo rimane Internet, la vera tecnologia rivoluzionaria dei nostri tempi. Cito un'ultima volta l'articolo di Anderson: "Il Web in fondo è solo una delle tante applicazioni che esistono su Internet, e utilizza i protocolli IP e TCP per muovere pacchetti. La rivoluzione è questa architettura, e non sono le applicazioni specifiche che ci sono costruite sopra".

venerdì 5 novembre 2010

Stiamo male o no?

Un rapido scambio di battute oggi mi ha portato a riflettere su questa domanda.

Oscillo spesso tra questi due stati d'animo opposti: da una parte mi sembra che viviamo tutti quanti male, in un paese che sta male, che ha mille problemi non risolti, con una immoralità diffusa, con personaggi abietti che infestano la nostra vita sociale. Dall'altra ogni tanto penso che in fondo molti di noi (praticamente tutti quelli che mi circondano) hanno un buon tenore di vita, una famiglia, delle buone abitudini, una buona moralità, spesso una buona o un'ottima cultura. Insomma i fondamentali ci stanno, anche di più forse.

Quando è che ho ragione? E' una questione soltanto di ottimismo del momento?

Probabilmente funziona come nel caso del lavoro (uno dei gravi problemi attuali, oggettivamente): se non ti senti sicuro nel tuo lavoro, perchè é precario, perchè hai la sensazione che manchi di stabilità e durevolezza, perchè in virtù di questo non puoi pretendere granchè e rimani un po' al palo, sia come carriera che come retribuzione, tendi a prendertela spesso con tutti quelli che hanno un lavoro molto più sicuro, stabile, duraturo, perchè magari sono impiegati in una qualche azienda-baraccone, e forti di questa copertura fanno il minimo indispensabile, anche meno se possibile, con una rilassatezza che tu non ti puoi neanche sognare. Queste persone ti stanno sul cazzo e non riesci ad ignorarle. Ma il punto è che le ignoreresti tranquillamente se avessi la sensazione che a te viene riconosciuto il dovuto.

Questo discorso può essere generalizzato. Praticamente tutti i giorni ci passa davanti agli occhi una parata di personaggi incredibili: politici corrotti, moralmente riprovevoli, addirittura insani di mente; calciatori tatuati che non parlano italiano (e non perchè sono stranieri); ballerine (chiamiamole così) senza nessun tipo di talento; ragazzi scemi che fanno cose sceme in trasmissioni televisive sceme; industriali o bancari con liquidazioni da superenalotto che nessun posto di responsabilità, dico nessuno, potrebbe giustificare in alcun modo; ... tutte persone di successo! Queste persone ti stanno sul cazzo e non riesci ad ignorarle. Ma il punto anche qui secondo me è lo stesso: le ignoreresti tranquillamente se avessi la sensazione che a te viene riconosciuto il dovuto.

E allora stiamo male o no? Stiamo bene perchè in cuor nostro sappiamo che bene o male nella nostra vita abbiamo fatto delle scelte che ci sembrano ancora quelle giuste. Stiamo male perchè abbiamo il sospetto che proprio quelle scelte ci hanno portato ad essere delle persone che non contano un cazzo. Stiamo bene perchè abbiamo costruito un nostro solido sistema di valori, sappiamo cosa conta nella vita e cosa no. Stiamo male perchè vediamo questi stessi valori quotidianamente spernacchiati (o trattati in modo ipocrita) proprio da chi ha maggior successo, tanto da domandarci se non abbiamo per caso sbagliato qualcosa.

Noi abbiamo fatto e facciamo delle cose, spesso anche buone cose (e per questo stiamo bene), ma il problema è che non ci vengono (o non ci sono state) adeguatamente riconosciute (e per questo stiamo male). Altrimenti tutti 'sti stronzi che sfilano davanti a noi non li degneremmo neppure di uno sguardo.

giovedì 7 ottobre 2010

Anniversario

Quarant'anni fa moriva mio padre.
In un modo un po' sfortunato. Come succede a tanti, ma era mio padre.

Pochi i ricordi, e vaghi. Quattro anni e mezzo non sono molti.

A passeggio con lui, in qualche strada vicino casa. Mi dà il dito indice, anzichè la mano.

In camera da letto, a giocare a tirarsi la palla, io e mio fratello in piedi sul letto e lui davanti a noi ad evitare che la palla faccia troppi danni. La voce di mia madre preoccupata dalla cucina.

Lui sul letto sdraiato supino, il solito pigiama, io a cavalcioni sulla sua pancia, a saltellare.

In un prato, non so dove, un grosso tubo di cemento abbandonato. Lui mi dice di passarci attraverso. Io ci provo, mi trovo faccia a faccia con una lucertola e lancio un urlo. Ride.

Papà che arriva con la macchina nuova (una Fiat 128, bianca), sorridente. Parcheggia davanti casa, io lo guardo dal balcone.

Le mie urla sulla tromba delle scale trattenuto dalla mamma mentre mio padre e mio fratello più grande scendono per andare al cinema, la prima volta al cinema. Sala: Royal. Film: "Per un pugno di dollari".

Di nuovo papà che scende le scale e mi saluta per andare ad una delle gite aziendali (Parigi, Tunisi). I souvenir che ci riportava: la Torre Eiffel su un piedistallo di marmo, cammelli di finta pelle.

Al paese dei miei nonni materni, sul piazzaletto davanti casa. Lui mi prende in giro perchè ho paura dei cani e mi tengo alla larga da Morina, il cane nero della cugina di mia madre. L'accarezza e ci parla, gli parla di me che ho una paura insensata.

Papà torna a casa e porta un registratore a bobine, nuovo nuovo, nero e argento, un Grundig. C'è anche il microfono per registrare la nostra voce (lo faremo dopo, senza di lui, tante volte). Lui ci registra il festival di San Remo, edizione 1970. Io non posso toccarlo.

Il rientro a casa con il nuovo fratellino appena nato. La mamma con un giacchettino celeste che mi pareva bellissimo. Tutti sorridenti.

Papà che sta male, non riesce ad alzarsi ma non vuole farsi aiutare dal fratello, non so perchè. La mamma mi chiede di andare a richiamare lo zio, scappato nell'appartamento della nonna. Ci vado, lo trovo piangente. Non capisco. Mi dice che tra un minuto viene.

Il bacetto a papà, prima che lo chiudano.

Il rientro dal funerale, sdraiato sul letto di mio zio, stanchissimo. Incredibilmente stanco.

Anni e anni quasi tutte le domeniche al cimitero monumentale del Verano. La preghiera davanti alla tomba, alla sua foto. La foto di mio padre, fatta da giovane, ai tempi del suo matrimonio. Non come me lo ricordavo io: un po' più maturo, più appesantito, con meno capelli. Un ricordo sempre più vago, settimana dopo settimana.

Sforzi di memoria (e di immaginazione), per questo anniversario.

domenica 12 settembre 2010

Primo giorno di scuola

Domani ricomincia la scuola. Mio figlio frequenterà la seconda elementare. Ha delle buone insegnanti per quello che ho potuto constatare fino ad ora. Sono contento per lui.

Non mi va di impelagarmi in un lungo discorso sui mali della scuola pubblica italiana. Mi viene solo da pensare (banalmente) che il nocciolo della questione sono gli insegnanti e su di loro andrebbe fatto l'investimento più importante. Il punto è che l'insegnamento, a qualunque livello lo si faccia, in qualunque tipo di struttura formativa privata o pubblica si eserciti, è un'attività di prestigio, in quanto essenziale per una società. E andrebbe sempre considerata come tale. Anzi, questo dovrebbe essere sicuramente il punto fermo di un qualunque dibattito serio sulla scuola.

E' tuttora largamente diffusa la considerazione che l'insegnamento scolastico è una delle migliori attività per madri di famiglia, perchè si lavora poco e si ha più tempo per i figli. E' tuttora diffusa l'opinione che l'insegnamento, a meno che non sia di livello universitario (che ancora conserva un po' di prestigio, anche se ultimamente mi sembra anch'esso sensibilmente diminuito), è una professione di ripiego, svolta in mancanza di possibilità di lavoro di maggior successo. Da sempre l'insegnamento è pagato poco (adeguato a persone che lavorano poco), svolto in strutture didattiche mai adeguatamente finanziate, mai incentivato. E dunque inevitabilmente pieno di persone che non fanno bene il loro lavoro.

Gli unici a considerare importante il lavoro dell'insegnante sono i genitori. Sono giustamente preoccupati per i loro figli. Poi però per i loro figli vedono un futuro da dirigente di non si sa cosa in una importante azienda che produce non si sa che. E spesso mostrano ben poco rispetto per il lavoro degli insegnanti, intrufolandosi senza competenze nelle questioni didattiche.

Eppure credo che specialmente gli insegnanti elementari abbiano avuto (consapevolmente o no) un ruolo importante nella nostra formazione culturale. Gli insegnamenti a quell'età possono avere una forza impressionante. Non credo di dire un'imprecisione se sottolineo che nella costruzione della mia personalità, come di quella di tutti gli ex-bambini, hanno contato molto le mie maestre (e i miei rari maestri). Più in generale si può dire che gli insegnanti, di qualsiasi ordine e grado, costruiscono le generazioni future, se non altro perchè nel bene e nel male contribuiscono a determinare le scelte di vita dei loro studenti. Non mi sembra una cosa da poco. Quale manager d'azienda potrebbe vantare un contributo alla società migliore di questo?

Il problema della scuola, e degli insegnanti che la incarnano, è un problema di sempre nella nostra società. Riporto in proposito due bellissime frasi di Piero Calamandrei, tratte da un famoso intervento in un dibattito sulla scuola pubblica che risale addirittura al 1950:

"La scuola, come la vedo io, è un organo 'costituzionale'. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione."

"La scuola, organo centrale della democrazia, perchè serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente." [Piero Calamandrei, III Congresso dell'Associazione a difesa della scuola nazionale, Roma, 11 febbraio 1950]

Domani ricomincia la scuola. Spero che mio figlio possa sempre incontrare validi insegnanti.

martedì 7 settembre 2010

Nicola Cabibbo

Il mese di Agosto l'ho passato sempre in giro, in piacevole compagnia di persone e in totale assenza di notizie. Solo oggi quindi sono venuto a sapere della morte di Nicola Cabibbo, che risale al 16 Agosto. L'ho letto in un articolo scritto da un mio vecchio amico in un giornale online.

Mi è capitato di incrociare Cabibbo varie volte durante i miei studi di fisica a Roma. L'ho incrociato anche sui libri, dove si citava spesso il suo risultato più importante (addirittura il più citato nella storia della fisica, secondo uno studio del 2006), conosciuto come l'angolo di Cabibbo, un lavoro del 1963 che ispirò successivamente l'ipotesi dei quark e che alcuni anni più tardi consentì di definire la matrice CKM (matrice Cabibbo-Kobayashi-Maskawa), per quanto ne so uno strumento molto importante nella fisica delle particelle elementari. Peccato che questo strumento è valso poi il premio Nobel solo a Kobayashi e Maskawa. Negli anni del mio transito in facoltà Cabibbo era presidente dell'INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e il suo nome era legato al progetto APE (Array Processor Experiment), una famiglia di supercomputer con il compito principale di permettere simulazioni scientifiche, in particolare quelle legate alla cromodinamica quantistica.

Cabibbo era un cattolico, è stato per molti anni presidente della Pontificia Accademia delle Scienze. Una rarità nella comunità degli scienziati. Questo aspetto è particolarmente interessante poichè come scienziato ha accettato senza riserve la teoria dell'evoluzione ("[...]. Dire il contrario è come sostenere che la Terra è piatta o il Sole si muove perché così diceva la Bibbia."), ma l'essere anche cattolico lo ha forse aiutato, almeno in questo caso, a tenere ben separata la teoria scientifica dai suoi possibili aspetti ideologici, una cosa che secondo me uno scienziato dovrebbe sempre riuscire a fare, e che probabilmente, proprio nel caso dell'evoluzionismo, riesce difficile a molti.

"La teoria dell'evoluzione può essere fastidiosa per i cristiani perché sembra entrare in conflitto con l'idea della creazione divina. Questa paura è, tuttavia, infondata. Ciò che entra in contrasto con la creazione divina è la possibile estensione della teoria dell'evoluzione in una direzione materialistica, il cosiddetto evoluzionismo. Ciò che l'evoluzionismo sembra dire, e sto pensando ad autori come Dawkins, è che non c'è necessità di Dio. Ma questa estensione della teoria di Darwin non è parte di ciò che è stato scoperto dalla scienza" (Nicola Cabibbo).

Nota: non è esatto che in Agosto io non sia stato raggiunto da nessuna notizia; l'unica eccezione è stata la scomparsa di Francesco Cossiga, appena il giorno dopo Cabibbo. Questa cosa un po' mi dà fastidio. Tanto che sono andato sul sito satirico spinoza.it e sul forum mi sono letto un po' di battute sulla morte di Cossiga, la più bella delle quali recita così: "Ci lascia un uomo straordinario che ha dato grande lustro a tutta l'Italia: addio Nicola Cabibbo".

lunedì 30 agosto 2010

Cura del patrimonio italiano

Il patrimonio artistico e anche naturalistico dell'Italia è spesso oggettivamente ben superiore a quello di molti altri paesi europei. Spesso però, viaggiando per l'Europa si nota una maggiore capacità di curare e valorizzare tale patrimonio in altri paesi piuttosto che in Italia. Quale può esserne la causa?

La prima che viene in mente molto semplicemente è: "beh, avere quattro cose da curare è certamente più facile che averne un numero sterminato", e questa effettivamente in alcuni casi può essere una ragione plausibile.

Volendo essere un po' più pessimisti si potrebbe forse notare che una causa può essere ricondotta alle maggiori capacità dell'industria turistica all'estero, specialmente se paragonata alla disorganizzazione sconcertante che spesso si riscontra nel sud Italia.

Ma volendo essere ancora più pessimisti si può azzardare una ragione più profonda. Valorizzare il proprio patrimonio artistico e naturalistico significa letteralmente dare valore agli elementi che costituiscono la cultura di un popolo. Sentire il valore di questi elementi e comportarsi di conseguenza significa avere una cultura, sentirsi cioè parte di una storia culturale. Credo che proprio in questo noi italiani siamo in media molto carenti, e questo lo si vede anche osservando il poco senso civico che ci caratterizza, al contrario di quello che si nota uscendo fuori dal nostro paese. Secondo me un'altra faccia della stessa medaglia.

venerdì 30 luglio 2010

Scaricare senza pagare

Mio figlio ormai da qualche tempo si diverte con una piccola console di giochi, la Nintendo DS. In alcune circostanze mi ha abbozzato un discorso ancora un po' fumoso per lui ma molto chiaro per me: "lo sai papà che i giochi della DS si possono scaricare da Internet? Lo facciamo anche noi?"

Avrei qualche obiezione. Non c'è niente da fare, scaricare da Internet software o altro materiale senza pagarlo è una forma di inciviltà, ancorchè di carattere blando (c'è sicuramente di molto peggio), e forse in qualche caso parzialmente giustificato, o almeno comprensibile. Il punto non è tanto quello di scaricare un film, della musica o un qualche programma o un gioco (per quanto bisognerebbe sempre avere il valore delle cose, e questo lo si ha anche pagandole). Il punto è quello di farlo sistematicamente, come normale uso della rete Internet e, da un certo punto in poi, senza che questo venga più percepito come un'attività illecita. Somiglia molto ad altre attività spesso altrettanto abituali: non pagare le tasse, non pagare le multe, non pagare il biglietto dell'autobus, .... la cosa aberrante anche in tutti questi altri casi è l'abitudine a farlo, il suo carattere di "cosa normale". Qualche volta poi le "giustificazioni" a questi comportamenti sono vere e proprie paraculate, servono solo per fare in santa pace quello che più conviene.

Un bambino ovviamente non ha neppure modo di rendersi conto di una cosa del genere. E se lo vede fare regolarmente lo considererà fin dall'inizio una cosa del tutto normale (e succederebbe esattamente la stessa cosa se vedesse i suoi genitori rubare regolarmente al supermercato). C'è sempre tempo per rendersene conto è vero, ma ce n'è altrettanto per abituarsi male ...

Dunque che faccio? Al momento decido di comprargli i giochi che più gli piacciono, senza esagerare. Scopro che me lo posso permettere tranquillamente e che i soldi non sono poi così buttati via come sembra visto che ciascun gioco viene utilizzato per mesi (è meno efficiente comprare dei vestiti). Mi piacerebbe fargli percepire l'importanza di un corretto e civile utilizzo di Internet, un patrimonio così importante! Non mi piace Internet come una zinna da cui ciucciare tutto il possibile (lecito e illecito), per poi avere bisogno di sistemi di archiviazione casalinghi da far invidia ad una azienda.

E poi c'è un'ultima cosa. Scaricare abitualmente tonnellate di bit da Internet significa quasi sempre avere un patrimonio di informazioni (sotto forma di film, libri, musica, giochi, programmi, ecc.) enormemente superiore a quello che si può effettivamente fruire (io rischio spesso di farlo con i libri, perlopiù pagandoli). Questa cosa a me è sempre apparsa come una forma estrema di consumismo. Stiamo in un mondo in cui comprare cose è probabilmente l'unica vera attività che sappiamo fare, e a cui dedichiamo tutto il nostro tempo libero. Ora abbiamo scoperto Internet come inesauribile fonte di roba da comprare e spesso da "scaricare senza pagare" e ci abbiamo riversato tutta la nostra depravazione di consumatori. E pensiamo come al solito di essere dei furbi ...

giovedì 22 luglio 2010

Segmenti e bastoncini

Tempo fa avevo scritto in un post che la meccanica quantistica è una di quelle cose che andrebbe studiata già nella scuola secondaria, magari rischiando anche di sacrificare qualche argomento della fisica classica (altrimenti non si arriva mai a fare qualcosa di moderno). Il motivo principale che mi aveva portato a questa considerazione era l'importanza di trasmettere sia il fascino, il mistero e l'incomprensibilità della natura che la capacità dell'uomo di descriverla. E la meccanica quantistica mi sembrava un esempio illuminante di questa dialettica.

Ultimamente ho letto un piccolo libretto di Lucio Russo ("Segmenti e bastoncini"), scritto durante il dibattito sulla scuola pubblica sviluppatosi all'inizio degli anni 2000 in seguito alla riforma Berlinguer. Il suo ragionamento porta a considerazioni totalmente opposte alle mie, ovvero lo studio della fisica nella scuola secondaria sarebbe bene fosse limitato alla sola fisica classica e i vari tantativi fatti per introdurre argomenti di fisica moderna sono in massima parte criticabili.

L'idea di fondo di Russo (almeno quella che mi ha colpito di più) è la seguente: quando si insegna la fisica non ci si può permettere di semplificare troppo le cose, in quanto le cose sono molto spesso intrinsecamente complesse, soprattutto quelle moderne (intendo dell'ultimo secolo). Il grosso pericolo nel raccontarle ad un giovane studente della scuola secondaria sta nel fatto che si è costretti a banalizzarle, a ridurle cioè ad una lista di termini più o meno incomprensibili, o ad una lista di fatti non collegati, e quindi non spiegati, in quanto la struttura teorica necessaria risulta troppo difficile. Dunque trattare argomenti moderni, o anche attuali, alla fine non contribuisce a fornire una vera educazione scientifica, ma piuttosto a qualcos'altro. Addirittura nello scritto di Russo si sostiene che "il contenuto degli attuali manuali di fisica ha probabilmente fornito loro [gli studenti] informazioni sufficienti per renderli degli ottimi e aggiornatissimi utilizzatori di videogiochi e spettatori di Star Trek".

Non c'è dubbio, questo pericolo così ben individuato e descritto da Russo (in modo ben più ampio di come l'ho riportato io) è concreto. Raccontare risultati scientifici che alla fine non si possono capire, alimenta un fascino che con la scienza a ben poco a che fare: "Una cosa è il desiderio di svelare dei misteri. Altra cosa, ben diversa, è la passione per il mistero in sè, in quanto non svelabile".

Ma io penso che il punto cruciale della didattica scientifica sia proprio nella capacità di trovare un equilibrio tra la necessità di raccontare fenomeni naturali semplici e perfettamente spiegabili e quella di comunicare in qualche modo (la sfida sta nel trovarlo) i risultati più moderni e attuali. Credo che entrambi questi aspetti siano importanti per trasmettere la passione culturale per la scienza. In fondo anche il libro di Russo riporta questo come un elemento importante del dibattito: "Se si sceglie di limitare l'insegnamento scolastico ad argomenti semplici, completamente comprensibili, si possono spiegare molti fenomeni naturali direttamente accessibili ai ragazzi. Una tale scelta avrebbe però un difetto: l'insegnamento rimarrebbe quasi privo di connessioni non solo con la ricerca fisica recente, [...] ma anche con la tecnologia usata dai ragazzi quotidianamente. Rimarrebbe certamente insoddisfatta quell' 'ansia di contemporaneità' che costituisce per molti la principale motivazione della scelta di potenziare l'insegnamento della fisica".

sabato 17 luglio 2010

I deserti non hanno re

Ho sentito questa frase alla radio, riferita al fatto inequivocabile che un sovrano deve avere un popolo che lo acclama. Una frase che fa pensare (chissà perchè) al nostro attuale Presidente del Consiglio. E al suo popolo.

Non è che uno ce l'ha direttamente con Berlusconi, ce l'ha con la cultura politica (e non solo politica) che lui incarna così bene. E uno ce l'ha anche e soprattutto con il fatto che questa cultura è quella vincente, quella che ha successo. La controprova sta proprio nel fatto che Berlusconi ha successo.

Sebbene ci siamo rotti le scatole della sua storia (intendo la biografia di Berlusconi), forse è proprio questa storia di successo che ci dovrebbe far capir bene in che Italia stiamo vivendo. Perchè ormai è un fatto certo che Berlusconi è rappresentativo di questo paese e che questo è il motivo che lo ha portato al potere e ce lo sostiene stabilmente.

Berlusconi viene da lontano, non è sbucato improvvisamente nella realtà italiana. Ha più di settant'anni, la sua storia affonda le radici negli anni settanta, ed è da più di 15 anni che è ai vertici della politica italiana. Non può essere un personaggio isolato, non lo è mai stato. Ha trovato nella sua lunga carriera fin troppi appoggi e connivenze. E' cresciuto su un terreno fertile. E' la punta di un iceberg, perchè è di gran lunga la persona di maggior talento in un ambiente dove la politica come progetto per la società è morta da un pezzo, lasciando il posto alla politica come progetto di sopravvivenza per un'oligarchia di potenti.

Adesso sento dire che Berlusconi è un corpo estraneo alla democrazia, alle istituzioni. Ma questo era chiaro fin dall'inizio. Era già tutto molto chiaro nel momento in cui entrò in politica dicendo che avrebbe applicato la logica dell'azienda (il "partito azienda", "l'azienda Italia", ecc.). Ricordo bene che questi discorsi all'epoca mi fecero una gran brutta impressione. Lo sappiamo tutti, la logica aziendale è tutt'altro che democratica. L'efficienza di un'azienda si avvale di meccanismi decisionali che sono totalmente estranei a quelli di uno stato democratico. Una vera democrazia rispetto ad un'azienda è per forza di cose un organismo inefficiente. Sostenere di voler portare l'efficienza aziendale nella politica italiana è già di per sè un attacco alle istituzioni democratiche del paese.

Ma non ce ne siamo accorti. O meglio, molti se ne sono accorti e adesso lo subiscono, molti non se ne sono accorti e in un certo senso lo subiscono lo stesso. Alcuni se ne sono accorti, si sono agganciati al carro (ne hanno avuto la possibilità e lo hanno fatto), e adesso fanno parte dell'oligarchia vincente. Adesso si potrebbe cominciare a dire che sono la democrazia e le istituzioni ad essere corpi estranei per questa oligarchia.

L'inevitabile fine della stagione di Berlusconi non cambierà questo stato di cose così radicalmente come molti pensano (sperano).

venerdì 2 luglio 2010

Bill Gates

Ho trovato tempo fa questa opinione di David Hillel Gelernter su Bill Gates che mi sembra molto intelligente e appropriata. Caratterizza questo protagonista dell'informatica degli ultimi trent'anni molto più come grande imprenditore che come genio tecnologico:

"Bill Gates non è soddisfatto della persona che è. Quando ho letto il suo libro 'La strada che porta a domani', mi è tornata in mente Marylin Monroe e il bisogno che aveva di sposare intellettuali; sentiva di dover cambiare identità per poter ottenere il rispetto che meritava, ma non ci riuscì, e comunque non avrebbe dovuto farlo. Vorrei che Gates avesse scritto un libro sugli affari e non sul futuro della tecnologia. Avremmo tutti imparato molto. Come uomo d'affari, Gates è un fenomeno a sè stante. Che c'è di male? E' una cosa notevole essere così. Ma come visionario tecnologico non fa per me".

mercoledì 16 giugno 2010

Il programma è terminato

Forse capisco perchè alla mia età (i quaranta) molte persone "sbroccano": lasciano la famiglia, fanno attività strane, mettono le corna alla moglie, soffrono di esaurimenti nervosi, crisi depressive, ecc. Anche se certamente ognuno ha la sua storia particolare, le sue motivazioni specifiche, può tornare utile cercare di trovare una ragione comune, che magari non è sempre quella principale, ma che stà lì, sullo sfondo.

Nonostante le "rivoluzioni culturali" degli anni sessanta e settanta (quella generazione da giovane si è "atteggiata" molto, e in buona parte lo abbiamo fatto anche noi che siamo arrivati un pochino dopo) siamo tutti tremendamente borghesi, conformisti, tradizionalisti, conservatori. In fondo vogliamo un programma da seguire, codificato dalle generazioni precedenti: prima questo, poi quello, senza lasciare troppo al caso e senza troppa libertà. Il caso e la libertà sono due cose che fanno paura.

La nostra vita è a tappe forzate: si va a scuola, possibilmente fino all'università, si trova un lavoro, si compra la macchina, si compra casa, ci si sposa, si fanno i figli. Dopo aver fatto tutto questo si è più o meno sui quaranta, una fascia di età in cui purtroppo si affacciano le prime vere avvisaglie della vecchiaia, e non abbiamo più niente di urgente da fare, a parte continuare indefinitamente a lavorare e a crescere i figli. Nel giro di pochi anni vengono meno i progetti su noi stessi, che avevano guidato la nostra vita più o meno consapevolmente fino ad un certo punto.

Sembra quasi che questo modello conformista che funziona tanto bene per i primi decenni ad un certo punto si sfaldi, lasciandoci in un generale disorientamento. Ognuno reagisce come può. Il programma è terminato.

mercoledì 9 giugno 2010

Utero in affitto

Coppie statunitensi in cerca di un figlio che pagano donne indiane per portare avanti una gravidanza altrimenti impossibile. Un figlio contro un compenso sufficiente a comprare una casa e a migliorare drasticamente la propria vita.

Figli trattati come oggetti? Come merce di scambio? Acquistati come qualunque altra cosa?

Eppure non mi sembra la cosa più grave. Questi bambini hanno un futuro assicurato in famiglie americane benestanti. La cosa peggiore è sempre la stessa, anche se l'argomento attraverso cui si esprime è molto moderno e tecnologico: i ricchi si acquistano la loro felicità alle spalle dei poveri che non hanno alternative migliori per poter sopravvivere.

sabato 5 giugno 2010

A contatto con la Natura

La fisica quantistica andrebbe studiata il prima possibile, in giovane età, senza aspettare di fare prima necessariamente tutta la fisica classica, magari anche mischiandole con intelligenza e metodo, rischiando forse anche un po'. Ovviamente mi riferisco alla scuola secondaria, in particolare quella degli ultimi anni, in cui forse qualcosa già compare negli attuali programmi ministeriali, ma che secondo me vengono poi svolti allo stesso modo (largamente insufficiente) di quelli di storia contemporanea, letteratura contemporanea, e via di questo passo.

I motivi per far questo sono almeno due, di carattere in un certo senso opposto, ed entrambi di importanza generale. Il primo motivo, forse ormai ovvio, è che semplicemente la fisica quantistica è oggigiorno alla base di una grande quantità di realizzazioni tecnologiche e quindi la sua conoscenza è cultura indispensabile per le generazioni future di esperti di tecnologia. Il secondo motivo è più romantico, meno pratico e immediato, ma altrettanto importante: la fisica quantistica, oltre a provare ad interpretarlo, racconta un aspetto spettacolare della natura, che dovrebbe ormai far parte del bagaglio culturale di qualunque cittadino del futuro.

Tutti sarebbero d'accordo nel dire che un giovane dovrebbe avere esperienze di contatto con la natura e con i suoi aspetti incredibili e affascinanti: contatto diretto, come ad esempio una gita in alta montagna o roba simile; contatto indiretto, attraverso la lettura di libri o la visione di buoni documentari. Il valore educativo e formativo di queste esperienze credo sia indiscutibile.

E' per questo motivo che un giovane dovrebbe conoscere gli aspetti incredibili degli oggetti quantistici. E' proprio il contatto con la natura, o meglio, il rapporto con la natura, il valore che viene rafforzato attraverso la conoscenza delle più interessanti descrizioni che l'uomo è riuscito a farne. Questa cosa è stranamente poco percepita. Il rapporto con la natura viene spesso considerato solo attraverso l'intuito, la percezione sensoriale, o eventualmente usando gli strumenti dell'espressione artistica. Molto meno attraverso gli strumenti di indagine razionali e scientifici, quelli hanno sempre qualcosa di troppo cervellotico o in qualche modo artificiale. La realtà è che forse sono solo meno immediati. E questa mancanza di immediatezza viene a volte giudicata in modo negativo. Del tipo "la descrizione scientifica di un qualunque oggetto della natura ne fa perdere automaticamente l'aspetto poetico, e in qualche modo lo impoverisce".

A queste considerazioni si era già ribellato a suo tempo Richard Feynmann (a proposito della bellezza di un fiore e delle domande di carattere scientifico che può suscitare): "[...]. Domande affascinanti che mostrano come una conoscenza scientifica in realtà dilati il senso di meraviglia, di mistero, di ammirazione suscitati da un fiore. La scienza può solo aggiungere; davvero non vedo come e che cosa possa togliere."

venerdì 21 maggio 2010

Tutto è numero

E' il motto più importante attribuito alla scuola pitagorica. In questo caso per numero si intende più esattamente numero naturale (1, 2, 3, ...). Secondo la loro visione un po' mistica del mondo i pitagorici pensavano che tutta la realtà fosse riducibile a numeri, e attribuivano a molti di essi dei significati particolari.

Stavo pensando a come questa frase apparentemente così astratta abbia attualmente una curiosa rispondenza pratica nel nostro mondo tecnologico. Viviamo in un epoca in cui abbiamo effettivamente imparato che qualunque tipo di informazione può essere ridotta ad un numero. Un numero naturale, come quello inteso dai pitagorici. Immagini, suoni, filmati, libri, tutto può essere codificato in un'opportuna stringa di bit, quindi in un numero (più o meno grande, non importa). La "multimedialità", ovvero la convergenza di elementi audio-video-testuali in un unico punto (si pensi alle pagine web), è esattamente la conseguenza di questo fatto.

Si può generalizzare, e giocarci un po' su. Immaginiamo l'insieme dei caratteri tipografici (lettere maiuscole, minuscole, numeri, spazio, punteggiatura e caratteri speciali) e costruiamo la stringa (infinita) seguente: tutti i caratteri in fila, tutte le combinazioni di due caratteri (con ripetizioni), tutte le combinazioni di tre caratteri, ...., tutte le combinazioni di N caratteri, .... E' chiaro che ci vuole un po' di pazienza, ma da una stringa costruita in tal modo viene fuori qualunque libro già scritto e qualunque libro che verrà scritto in futuro. Se uso la codifica ASCII (o Unicode) questa stringa diventa semplicemente un numero (di lunghezza infinita). Viceversa possiamo prendere più semplicemente i due soli caratteri zero e uno, e costruire un numero (stringa di bit) di lunghezza infinita con lo stesso metodo: 0, 1, tutte le combinazioni di due bit, di tre bit, ...., di N bit, .... Dentro questo numero ci sono tutte le opere letterarie del passato e del futuro (in tutte le lingue), ma anche tutte le opere figurative, tutte le opere musicali, tutti i teoremi scoperti e da scoprire, tutti i risultati scientifici noti e non ancora noti, tutti i software possibili, ecc., ecc.

Si può ulteriormente generalizzare. Tutta la nostra conoscenza del mondo (arte, scienza) è informazione. Dunque può essere tutta archiviata e trasmessa come numero. Ma anche il codice genetico di un qualsiasi individuo è informazione. Anche la configurazione di tutte le particelle dell'universo in questo momento è informazione (ops, qui incappo nella meccanica quantistica, il gioco si fa pericoloso ....).

Forse il motto "tutto è numero" ha ancora un carattere mistico, ma il motto "tutto può essere rappresentato da un numero" comincia ad avere un senso preciso.

venerdì 14 maggio 2010

L'ostensione della Sindone

In questo periodo il Vaticano ha deciso una nuova ostensione della Santa Sindone, ovvero la sua esposizione ai fedeli. La Chiesa Cattolica non si è mai espressa definitivamente sull'autenticità della Sindone, tuttavia ne ha autorizzato il culto come reliquia della Passione di Gesù.

Esistono diverse ragioni per cui la Sindone esposta a Torino è presumibilmente, ragionevolmente, e molto probabilmente, un falso. Ne elenco brevemente una decina:

1. Le prime notizie della Sindone di Torino risalgono al 1353. Prima di questa data non se ne ha traccia.
2. Il periodo medievale vede un fiorire incredibilmente ricco di reliquie cristiane di tutti i tipi, anche le più improbabili, la maggior parte delle quali andate poi distrutte e sulla cui autenticità non è il caso neppure di ragionare. Solo della Sindone sono esistiti diversi esemplari (decine), in giro per l'Europa per vari secoli.
3. Nel 1389 il vescovo di Troyes (dove compare per la prima volta la Sindone di Torino) dichiara che il telo è un artefatto pittorico di cui conosce anche l'autore (ma non ne riporta il nome). Nel 1390 il papa Clemente VII decide di permettere l'ostensione della Sindone obbligando però di "dire ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a raffigurazione o imitazione del Sudario". La Chiesa Cattolica continuerà per parecchi secoli a considerare questo telo un falso, dichiarandolo in più occasioni.
4. Le vere Sindoni giudaiche del I secolo sono molto diverse da quella di Torino, per vari fattori: il tipo di tessuto, la tessitura, la molteplicità di teli (per la testa e per il corpo).
5. L'immagine della Sindone non ha nessun tipo di deformazione geometrica, come sarebbe naturale aspettarsi interpretandola come impronta formatasi al contatto del telo con un corpo umano.
6. Le proporzioni delle varie parti del corpo, la sua postura, le tracce di sangue, non sono compatibili con alcune semplici osservazioni di medicina legale.
7. Alcune analisi condotte negli anni settanta hanno rilevato tracce di alcuni coloranti.
8. Nel 1988 la datazione al radiocarbonio effettuata su campioni della Sindone da tre laboratori (scelti tra i più prestigiosi) in maniera indipendente stabiliva che la produzione delle fibre di lino e dunque la confezione della tela si colloca tra il 1260 e il 1390, fornendo quindi un dato coerente con l'analisi storica.
9. Alcuni studi sulla presenza di pollini specifici, di scritte romane o di impronte di monete romane si sono dimostrati sostanzialmente infondati.
10. Ultimamente un'immagine sindonica avente proprietà molto simili a quelle della Sindone di Torino è stata artificialmente prodotta utilizzando tecniche piuttosto semplici e tutte sicuramente accessibili nel periodo in cui si suppone sia stata costruita la Sindone (Luigi Garlaschelli).

A ben guardare questi dieci punti sono altrettanti argomenti di plausibilità che ci portano a pensare che la Sindone sia un falso. Niente di più. Argomenti di plausibilità e di semplice buon senso, corroborati da osservazioni e misurazioni, prove ed esperimenti. E' molto semplice, ma è esattamente la logica dell'approccio scientifico, maturata in molti secoli di storia in seno alla nostra civiltà occidentale.

Eppure questo approccio per molti non risulta del tutto acquisito. Si preferiscono in molti casi i ragionamenti contorti, capziosi, spiegazioni improbabili, parziali, costruzioni cervellotiche e artificiose, pur di arrivare ad un obiettivo che è evidentemente già presente prima ancora di cominciare a parlare: l'autenticità della Sindone.

Un caso secondo me spettacolare (ma uno dei tanti) è quello apparso alla trasmissione Voyager. Qui vengono chiamate "plausibili" delle spiegazioni (ma non è neanche corretto chiamarle così) complicatissime e in parte misteriose. Inoltre l'impostazione del ragionamento è chiaramente viziata dall'obiettivo che ci si pone ed è proprio quella che poi porta a fare ipotesi altamente improbabili e fuori dal buon senso. Il prof. Giulio Fanti si dilunga in una "spiegazione" della formazione dell'immagine sindonica per mezzo di un potente irraggiamento di energia di natura non ben precisata avvenuto dall'interno del lenzuolo, senza accennare minimamente a quanto sarebbe molto più semplice (e più sensato) tentare una spiegazione partendo dall'ipotesi che quel telo non sia mai stato utilizzato per avvolgere un cadavere e che invece qualcuno abbia deliberatamente costruito l'immagine rifacendosi ovviamente all'iconografia cristiana.

Io penso che questi atteggiamenti antiscientifici (mascherati di scienza), che hanno ampia risonanza nella nostra società tecnologicamente avanzata ma ancora incredibilmente incolta, siano utilizzati come dei veri e propri strumenti di potere, per alimentare condizionamenti e limitazioni della libertà di pensiero, per favorire ed accrescere l'autorevolezza di istituzioni secolari, per promuovere una religione intesa come instrumentum regni.

lunedì 10 maggio 2010

Ricerca normale in un paese normale

In un paese normale, che avesse saputo far bene le politiche culturali, quelle sull'Università e sulla ricerca, io sarei molto probabilmente un normale ricercatore in un qualche ente di ricerca, uno tra i tanti in grado di assorbire normali recercatori.

Il punto chiave di questa banale considerazione è proprio l'aggettivo "normale".

In Italia credo che non esista la possibilità di concepire la ricerca come una professione al pari delle altre, come una normale attività lavorativa, in cui cioè enti pubblici ed enti privati investono regolarmente. Il ricercatore è per forza una persona particolare, disposta al sacrificio, disposta a lunghi periodi di attività non remunerate o con remunerazione insufficiente per poter avere una vita autonoma (dunque spesso deve essere benestante), disposta a trascorrere lunghi periodi all'estero, da cui al più non converrà ritornare, o non ne avrà proprio la concreta possibilità, ecc.

Nella ricerca scientifica è chiaro che contano soprattutto le eccellenze, la storia della scienza è costellata di personalità importantissime, decisamente sopra la media, che hanno dato contributi decisivi allo sviluppo delle conoscenze. In questo l'Italia di fatto non è carente, il suo contributo in termini di talenti è stato sempre elevato. Valgono però secondo me le seguenti considerazioni generali: l'attività di ricerca "normale", svolta da tante persone "normali", contribuisce in modo determinante a costruire gli ambienti scientifici in cui emergono e vengono aiutate le personalità eccellenti (dando per scontato il meccanismo di selezione meritocratica). Viceversa tali personalità contribuiscono ad innalzare il livello di qualità degli enti di ricerca e sono in genere indispensabili a costruire gruppi di studio altamente efficienti e produttivi.

Ecco, secondo me in Italia manca questo feedback tra ambienti di ricerca ed eccellenze, perlopiù perchè mancano gli ambienti di ricerca, o meglio mancano delle politiche precise ed efficienti per sostenere gli ambienti di ricerca. Quindi mettiamola così: in Italia manca un largo strato di attività di ricerca "normale".

lunedì 3 maggio 2010

Ipazia

Dall'uscita del film Agorà nelle sale italiane, nel giro di pochi giorni si sono moltiplicate le pagine su Internet che parlano di Ipazia: matematica, astronoma e filosofa alessandrina del IV-V secolo, martire laica del fondamentalismo cristiano. Si possono trovare informazioni interessanti ad esempio nell'enciclopedia delle donne, sul sito di Silvia Ronchey, su quello di Micromega e ovviamente su Wikipedia. Nuova spinta nelle librerie ha ricevuto il libro di Petta e Colavito ("Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo"), uscito ormai un anno fa.

A me della vicenda di Ipazia hanno colpito soprattutto tre cose:

1. Si tratta effettivamente di un episodio di circa 15 secoli fa, ma nonostante ciò è molto significativo e istruttivo che in questo caso la comunità cristiana abbia espresso lo stesso fondamentalismo religioso di alcune frange attuali dell'islam, e si sia macchiata di atti terroristici (come quello dell'uccisione brutale di Ipazia) analoghi a quelli di cui si macchiano oggi i loro "colleghi" musulmani. Ancora più significativo è il comportamento della chiesa cattolica in tempi moderni relativamente a questo episodio: nonostante mi sembra di aver capito che la storiografia sia abbastanza concorde nell'attribuire a Cirillo (vescovo di Alessandria a partire dal 412) la responsabilità dell'assassinio di Ipazia, nonchè un comportamento persecutorio sia nei confronti degli ebrei che dei pagani, questo vescovo viene proclamato santo e dottore della chiesa da Leone XIII nel 1882. Più tardi Pio XII gli dedica un'enciclica ("Orientalis Ecclesiae, S. Cirillo di Alessandria nel XV centenario della morte", 9 aprile 1944), in cui lo definisce "luminare di cristiana sapienza" e "atleta di apostolica fortezza" che "si adoperò per richiamare sul retto sentiero della verità i fratelli erranti". Infine Benedetto XVI lo celebra il 3 ottobre 2007 in un' udienza generale in Piazza S. Pietro. In nessuno di questi casi si fa cenno all'episodio oscuro dell'assassinio di Ipazia.

2. In questi primi secoli dell'era cristiana si realizza la trasformazione del cristianesimo da una setta non riconosciuta e perseguitata ad una religione ufficiale, integrata con il potere politico e spesso persecutrice (nei confronti ad esempio dell'ebraismo o del paganesimo). Questo aspetto della storia occidentale mi sembra veramente interessante, non fosse altro per la portata delle conseguenze protrattesi nei secoli successivi fino ai giorni nostri. E' certamente una cosa che meriterebbe di essere approfondita. Probabilmente cercherò di farlo leggendo il libro di Corrado Augias e Remo Cacitti, "Inchiesta sul Cristianesimo, come si costruisce una religione".

3. Quelli sono secoli che vedono il tramonto definitivo della scienza greca. Oltre alla morte violenta di Ipazia scompare anche la famosissima biblioteca di Alessandria. Margherita Hack scrive: "L’assassinio di Ipazia è stato un altro atroce episodio di quel ripudio della cultura e della scienza che aveva causato [...] la distruzione della straordinaria biblioteca alessandrina", "Dopo la sua morte molti dei suoi studenti lasciarono Alessandria e cominciò il declino di quella città divenuta un famoso centro della cultura antica", "Ipazia rappresenta il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza che aveva fatto grande la civiltà ellenica". Ma quanto è stata grande la civiltà ellenica? Che contributo ha dato allo sviluppo della scienza? Perchè il suo patrimonio di conquiste scientifiche ha conosciuto in gran parte l'oblio per molti secoli? Quanto si è dovuto "riscoprire" più tardi, a partire dal Rinascimento? Perchè la civiltà Romana non è stata altrettanto grande nel produrre scienza? Si tratta in pratica di una vicenda storica interessantissima che affiora da questi secoli, che meriterebbe una maggiore attenzione. Proprio pensando a questo ho riesumato nella mia libreria un libro comprato alcuni anni fa e poi dimenticato, ma che adesso mi piacerebbe leggere: "La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna", di Lucio Russo. Nella prefazione Marcello Cini dice addirittura che Lucio Russo dimostra che la nascita della "scienza moderna" va retrodatata di duemila anni, fino alla fine del IV secolo a.C.

giovedì 29 aprile 2010

Metapost

Questo è il centesimo post di questo blog. Cento post scritti nell'arco di due anni esatti.

Perchè scrivo?

Qualche ragione c'è:

1. Scrivere è un esercizio utile. Mentre lo fai ti accorgi che c'è un'interazione continua tra la forma e il contenuto, sei preoccupato di scrivere correttamente il tuo pensiero e questo ti obbliga automaticamente a rielaborarlo. Mentre scrivi pensi. Ecco, nei casi migliori la scrittura è una forma di pensiero.

2. E' insolito e divertente pensare che quello che scrivi viene pubblicato sulla rete Internet, almeno per uno come me che non c'è nato con questi strumenti. La pubblicazione su Internet ha un aspetto affascinante: non sai chi ti legge, ragionevolmente pochissimi ma potenzialmente tutti, almeno tutti quelli che conoscono la tua lingua. La tua paginetta è buttata lì e chiunque, vagabondando sulla rete, magari alla ricerca di qualche argomento specifico, ci si può imbattere, prima o poi. L'espressione "prima o poi" è estremamente significativa, dal momento che il tuo scritto può avere potenzialmente una vita lunghissima.

3. Mio padre e il mio nonno paterno li ho conosciuti appena. Un po' di più il nonno materno, con cui da ragazzo ho fatto lunghe chiacchierate. Altri parenti mi sono stati raccontati. Racconti sporadici, tutti affidati alla memoria imprecisa di piccoli episodi, frammentati, magari anche distorti (come è tipico delle ricostruzioni mnemoniche). Ho avuto più volte la sensazione che mi sarebbe piaciuto capire meglio la vita e il pensiero delle persone della mia famiglia (o vicine alla mia famiglia). Non mi interesserebbero tanto gli aneddoti o gli episodi di cronaca vissuti da queste persone, che pure possono essere divertenti, ma proprio come la pensavano, che passioni coltivavano, che conoscenze avevano. Peccato che nessuno ha lasciato scritto nulla, o almeno non mi risulta. Io per il momento 100 post li ho scritti ...

martedì 20 aprile 2010

Considerazioni su libertà e potere

Il potere in generale è sempre interessato a limitare la libertà, in quanto così elimina il dissenso, o l'espressione di esso. La cosa funziona quando alcuni si accorgono della limitazione ma la trovano conveniente per loro, molti se ne accorgono ma oggettivamente non possono farci molto, molti non si accorgono o non si vogliono accorgere di fatto della limitazione. Gli ultimi in genere dovranno essere la maggioranza. Le limitazioni delle libertà devono passare lisce e non esser percepite come tali da più persone possibili.

Il governo italiano ultimamente ha fatto in modo che fossero censurate le principali trasmissioni di dibattito politico presenti alla televisione di stato, nel periodo pre-elettorale, interpretando a suo modo una brutta legge che dovrebbe disciplinare la presenza televisiva dei partiti proprio in questo periodo. Bruno Vespa, uno dei censurati, in una sua dichiarazione ha attribuito una parte della responsabilità al comportamento a suo dire eccessivamente fazioso di un suo collega, un altro dei censurati, Michele Santoro. In pratica ha lasciato intendere che alcuni censurati hanno deliberatamente provocato il comportamento censorio, nel senso che se la sono cercata. Lo stesso schema di ragionamento che porta a dire che le signore con le gonne corte si vanno a cercare lo stupro. O a Bruno Vespa è scappata una stupidaggine oppure gli convenive dire quello che ha detto.

In Cina Google decide di redirigere le richieste al suo motore verso i server di Hong-Kong, totalmente liberi dai filtri della censura richiesta ormai da anni dal governo cinese. Quest'ultimo decide di bloccare l'instradamento verso Hong-Kong. Ai nostri occhi l'operazione del governo cinese è una vera e propria censura dell'informazione a danno dei suoi cittadini. L'oscuramento dell'informazione è funzionale al governo in quanto tende ad eliminare tutte le voci di dissenso e a rendere così normale e inavitabile la sua esistenza (mancando le alternative). Ma la mia curiosità è: come appaiono queste operazioni alla maggioranza dei cittadini cinesi? O meglio, quanti di loro hanno la percezione della gravità di una censura simile? E quanti pensano che si tratti effettivamente di una censura ai loro danni? Probabilmente molti di loro ribaltano il discorso e vedono Google forse come il gigante industriale americano che con la sua potenza vuole invadere e condizionare la Cina per poi fagocitarla e considerano dunque legittima l'azione del governo, anzi la vedono come una forma di protezione, di difesa nei confronti di un pericoloso avversario per il paese. Non so se effettivamente può essere vista così la questione, ma mi sembra plausibile. In fondo la Cina vive una grande crescita economica e una buona parte della popolazione cinese sta prosperando sotto l'attuale governo.

Fatte ovviamente le debite proporzioni trovo che ci siano delle analogie con la censura che è stata operata in Italia ai danni di alcune trasmissioni giornalistiche televisive, e dunque di tutti i cittadini. Il motivo rimane sempre quello di voler eliminare (o ridurre al minimo) le voci di dissenso al governo attuale specialmente nella fase molto delicata che precede le elezioni. Non far neppure immaginare possibili alternative (magari migliori) all'esistente. Anche in questo caso credo che in molti cittadini si sia creata l'idea (sostenuta anche da alcuni media) che il governo si difende, e ci difende, dagli attacchi violenti di avversari politici improponibili. Probabilmente anche in questo caso molti cittadini pensano di voler difendere il proprio tenore di vita, ancora in buona parte accettabile.

Tutto ciò fa vedere di nuovo come la democrazia sia un valore per molti versi astratto, sostituito volentieri da convenienze, non percepito, sacrificato per fini pratici e contingenti. Si sa che un indicatore molto importante di democrazia (che ne sostiene il valore) è proprio il trattamento del dissenso, poichè è l'elemento che agisce da controaltare al potere. In un regime non democratico il dissenso è sempre soppresso in forme più o meno violente. In democrazia il dissenso è sempre un valore (una libertà) da difendere.

martedì 6 aprile 2010

Generazione persa

Ho sentito dire che la nostra è una generazione persa. Se il senso è che la nostra generazione avrebbe dovuto cambiare qualcosa o assistere a qualche cambiamento significativo della società, forse la frase ha una sua verità. Non mi pare che in Italia nel corso della mia vita sia cambiato alla fine granchè. Forse qualcosa è anche peggiorato.

Abbiamo la stessa scuola insufficiente, senza soldi, senza mezzi, e senza nessuno che se ne preoccupi veramente. Gli stessi insegnanti, in parte incapaci, in parte frustrati e comunque sempre mal considerati. L'Università con grosso modo gli stessi problemi, con gli stessi baroni e gli stessi nepotismi. La ricerca sempre fanalino di coda rispetto all'Europa e a tutto il mondo occidentale. I soliti talenti che se ne vanno all'estero (e quelli che rimangono, per quanto bravi, vivacchiano, e alcuni si giocano il Nobel).
Abbiamo un mondo del lavoro, quello si, peggiorato, che non è più in grado di garantire contratti decenti, dove paradossalmente il pubblico impiego è diventato la meta ambita da tutti (in sintesi l'idea è sempre la stessa: "guadagnerai poco, ma è pur vero che non fai niente, o molto poco, e non ti toglie dal posto nessuno, manco le catastrofi naturali", idea molto nobile e feconda, non c'è che dire).
Abbiamo la solita classe dirigente, con un grado di corruzione inaccettabile (e forse anche questo aspetto è addirittura peggiorato). Capitalisti che si arricchiscono a dismisura senza produrre nulla di nulla, che chiudono le aziende e scappano coi soldi, e se non le chiudono le indebitano pesantemente e poi le fanno risanare da interventi statali.
Abbiamo la solita classe politica che ogni giorno ci fa schifare la Politica. I soliti governanti paraculi, attaccati alle poltrone e al potere, totalmente privi di visioni politiche se non quelle che servono per le prossime elezioni, compromessi con i soliti poteri criminali. Politici senza quel livello minimo di integrità morale che ti consenta di ascoltarli senza mandarli subito affanculo.
Abbiamo il solito problema del sud del paese (che adesso si è pure allargato al sud del mondo), con le solite mafie sempre più presenti, sempre più potenti, e neanche più confinate al sud.
Abbiamo la solita sinistra inutile, che non serve a niente, che ragiona bene solo se non conta nulla, altrimenti si destabilizza, non prende uno straccio di decisione e si suicida da sola.
Abbiamo la solita destra da quattro soldi che non riesce a fare di meglio che accodarsi sempre a qualche deus ex-machina, a qualche "risolutore di problemi" populista e paraculo.
Abbiamo la solita chiesa cattolica, con le ipocrisie di sempre, utili al suo potere e deleterie per tutto il resto. Che tartassa e condiziona la vita civile con le inutilità di sempre (e sempre prontamente considerate dalla bassa politica), temi spesso inconsistenti quanto dannosi.

Ma soprattutto siamo noi gli stessi di sempre, gli stessi dei nostri padri se non peggio. Siamo gli stessi furbi, gli stessi evasori fiscali, gli stessi raccomandati, gli stessi ignoranti (sprezzanti della cultura e della conoscenza), gli stessi incivili, gli stessi rintronati davanti alla televisione, davanti alle partite di calcio. Siamo gli stessi ammiratori dei più grandi paraculi, di chi sa come non rispettare le regole, gli stessi bigotti senza valori, neanche quelli cristiani, gli stessi ipocriti e benpensanti, buoni per fare salotto discutendo delle solite quattro stronzate. Siamo gli stessi elettori di sempre, che non cambiano mai idea, gli stessi qualunquisti, gli stessi individualisti che si fanno i cazzetti propri (al massimo con la propria famigliola) e se ne fregano di tutto e di tutti, che non hanno e non provano neanche ad avere una qualche visione della società o del futuro, al massimo riescono a vedere fino alle prossime vacanze.

Siamo da sempre gli stessi. E forse sempre peggio. Forse più piatti e inerti di prima, con sempre meno esigenze che non siano quelle del più scemo consumismo: il telefonino (con il touch screen, possibilmente), il televisore LCD (almeno 40 pollici, magari con l'home theatre), la playstation (ovviamente crackata, con tutti i giochi possibili e immaginabili, ben più di quanto ci servirebbe per giocare), la TV satellitare per le partite di calcio, le vacanze alle Maldive, la macchina con i sensori per il parcheggio, il vestito da sposa da 5000 euro (almeno).
Esigenze poco più che corporali.

E i nostri figli vivono con noi.

giovedì 1 aprile 2010

Le quattro stagioni

I quattro concerti denominati "Le quattro stagioni" (1725) di Antonio Vivaldi (1678-1741) sono un lavoro famosissimo, anche se con un destino un po' strano (è stato riscoperto solo ai primi del novecento, come tutta la produzione di Vivaldi). Le cose famosissime hanno sempre un peso culturale eccessivo, sono ingombranti, è quasi un dovere conoscerle. Questo in genere è sufficiente per evitarle accuratamente. Almeno credo che per molti funzioni così. In fondo non è strano. Molte persone istintivamente cercano di non farsi sopraffare dalla "Grande Cultura", quella che "non si può non conoscere", quella che "non si può non amare", e via di questo passo. E' sicuramente meglio seguire la propria sensibilità, la propria curiosità, senza preoccuparsi troppo. Altrimenti si rischia il conformismo.

Quindi risulta sempre difficile parlare di questi quattro concerti senza apparire un barboso. Però è un peccato. Io li conosco da quando avevo 9-10 anni e sono parte integrante della mia cultura musicale. Me li hanno fatti sentire per la prima volta a scuola (le elementari) e non mi sono mai apparsi come una cosa pesante, chissà perchè. Mi piace pensare che in quel caso il maestro che ce li ha proposti è stato bravo.

Quindi voglio esagerare: io trovo questi concerti rappresentativi della straordinaria capacità di invenzione dell'uomo in musica. Si tratta di un capolavoro assoluto. Io li spedirei nello spazio per far capire ad un' eventuale civiltà extraterrestre il livello di ingegno raggiunto dall'uomo nella sua storia, almeno in campo musicale (lo dicevo che avrei esagerato).

Per di più appartengono ad una raccolta di concerti il cui titolo ha un fascino e un significato particolari: "Il cimento dell'armonia e dell'invenzione", ovvero l'equilibrio di due opposti, la regola (il canone) e la capacità di superarla, di pensare oltre. Una dinamica tipica di molte grandi opere d'arte.

sabato 20 marzo 2010

Euclide e Platone

A scuola ho conosciuto Platone studiando Filosofia, ma solo a partire dalla terza liceo. Eh già, per studiare la Filosofia ci vuole una certa maturità. Un tema centrale del pensiero di Platone è la distinzione tra il mondo delle cose reali (corrotte, imprecise, mutabili) e il mondo delle idee (incorruttibili, perfette, immutabili). Beh, detto un po' in soldoni è più o meno questo. L'esempio che ricordo era quello del cavallo: da una parte il cavallo, o meglio, i tanti cavalli, come elementi della realtà, dall'altra l'idea del cavallo nell'iperuranio; ogni cavallo reale è una sorta di relizzazione pratica imprecisa dell'idea di cavallo.

Platone è presentato come un filosofo la cui opera assume un ruolo centrale nella cultura greca. Non credo che a scuola mi sia stato presentato Euclide come esponente di primo piano della cultura greca, piuttosto ho conosciuto il termine geometria euclidea, in cui Euclide compariva come aggettivo, non troppo argomentato. In quel caso non ci si curava troppo di sottolineare il contributo eccezionale di uno studioso al pensiero matematico di un'intera civiltà (quella greca), ma si preferiva macinare teoremi e corollari. Non sono contrario all'insegnamento dei teoremi, ovviamente, e neanche a quello dei corollari, ma mi scoccia la tendenza a presentare la scienza come una materia disumana, asociale e astorica.

Quindi mi colpiscono sempre molto tutte quelle osservazioni, anche piccole, che calano l'attività scientifica in un contesto storico e sociale, quello che poi l'ha generata. Addirittura è possibile osservare delle relazioni precise tra una certa attività scientifica e il contesto culturale e filosofico dell'epoca in cui è maturata. Ma guarda un po'.

E' il caso di Euclide e Platone. Ascoltando un documentario su Euclide e la matematica greca quello che veniva fuori era più o meno il seguente discorso: la grande summa matematica dell'antichità, gli Elementi di Euclide, è chiaramente influenzata dalla filosofia Platonica (di poco precedente). Niente di eccezionale, ma era un collegamento che non avevo mai sentito. E come si manifesta questa influenza? Questo è ancora più interessante: nel fatto che la summa di Euclide non è completa. Gli Elementi includono tutta (e sola) la geometria che può essere costruita con riga e compasso. Perchè? Perchè la retta e il cerchio sono le forme (opposte) più perfette indicate da Platone (giuro che non avevo mai sentito un tentativo di spiegazione del perchè tutta la geometria considerata dai greci era quella costruibile con riga e compasso). In realtà il termine eidos tradotto con idee nell'espressione "il mondo delle idee" platonico, può essere tradotto (forse più giustamente, non conosco il greco) in forme, e l'iperuranio diventa "il mondo delle forme". Ma allora stiamo proprio parlando della geometria, non di cavalli! Il mondo intellegibile delle forme indicato da Platone è soprattutto quello delle forme geometriche. E a questo punto l'opera di Euclide è forse la massima espressione di questa visione filosofica. Non c'è male, per un po' di teoremi studiacchiati tra prima e seconda liceo.

Io mi incazzo perchè nessuno mi ha fatto notare al momento opportuno queste corrispondenze, per quanto semplici e alla portata di tutti (e io non sarò stato molto scaltro, lo ammetto). Avrebbero certamente valorizzato lo studio della geometria greca, che troppo spesso viene propinata come un elenco indistinto e interminabile di teoremi, corollari e lemmi. Ma avrebbero sicuramente valorizzato anche lo studio della filosofia. Credo che si possa capire la forza e l'impatto sulla società di un pensiero come quello platonico solo osservandone le "traduzioni" nelle attività intellettuali dell'epoca. Tanto per fare un esempio lontano nel tempo ma pertinente: lo spirito dell'Illuminismo di fine settecento lo percepisco principalmente attraverso l'eccezionale opera musicale di W. A. Mozart, mi pare ovvio.

E visto che ci siamo, un'altra cosa che mi fa incazzare: nella mia vita ho visto innumerevoli edizioni della Bibbia e della Divina Commedia, in tutte le salse, per tutti i gusti e per tutti i prezzi, in libreria, in biblioteca, a fascicoli in edicola, con commento a fronte, con le incisioni storiche di non so chi, in lingua originale, in pergamena, ecc., ecc. Ma avessi mai visto uno straccio di edizione degli Elementi di Euclide ......

domenica 7 marzo 2010

Errori sull'evoluzione

Una volta mi è capitato di leggere: "L'evoluzione è così semplice che chiunque può fraintenderla". Effettivamente la teoria dell'evoluzione biologica sembra essere accessibile a chiunque, specialmente perchè non necessita di apparati formali pesanti di cui sono invece infarcite molte altre teorie scientifiche (ad esempio tutte quelle della Fisica), e che svolgono verso i profani il ruolo di "muro" che impedisce la comprensione. Questa caratteristica invita però spesso a prendere un po' sottogamba la teoria darwiniana e a semplificarla eccessivamente, fino addirittura a fraintenderla.

Tre esempi classici di questi fraintendimenti sono secondo me contenuti nelle frasi seguenti:
1. L'uomo discende dalla scimmia.
2. L'evoluzione è un percorso progressivo, dal "peggiore" al "migliore".
3. L'evoluzione è il semplice frutto del caso.

La prima frase è un classico, presente da sempre nel linguaggio comune, rafforzata nell'immaginario collettivo da quelle suggestive (ma forse poco scientifiche) illustrazioni della conquista della stazione eretta. Probabilmente è stata coniata all'indomani della pubblicazione de "L'origine delle specie". Eppure è un po' fuorviante, non a caso è stata spesso utilizzata da molti detrattori della teoria di Darwin per sottolinearne l'assurdità. E' più corretto affermare che l'uomo e le scimmie antropomorfe hanno un antenato comune risalente a circa 6-7 milioni di anni fa. Questo evidenzia che in realtà queste due specie, realmente molto affini, sono comunque separate da milioni di anni di evoluzione biologica. Non è poco. Da quel lontano periodo non hanno molto più a che spartire, e gli effetti si vedono. Infine questo significa che il nostro antenato comune non era nè una scimmia antropomorfa come la conosciamo oggi, nè un uomo come lo conosciamo oggi, ma qualcosa di diverso.

La seconda frase è certamente un errore più grave. E' difficile sfuggire alla convinzione che l'evoluzione abbia una "direzione", che segua cioè una linea di progresso, da organismi semplici ad organismi sempre più complessi e in un certo senso "migliori". Ma in realtà questo concetto non è contenuto nella teoria e di fatto non è neppure riscontrabile come fenomeno generale in natura, basti pensare al fatto che i semplici e primitivi batteri sono probabilmente a tutt'oggi gli organismi biologici di gran lunga di maggior successo nell'intera biosfera. Questo errore ne nasconde uno (o apre la strada a uno) ancora più grave, riscontrabile spessissimo nel linguaggio comune, e cioè che in qualche modo l'evoluzione sia guidata da una qualche entità esterna e cosciente, che a volte chiamiamo semplicemente Natura (se non si vuole sconfinare in concetti troppo religiosi, ma già questo lo è ...), la quale costruisce nel tempo organismi sempre più perfetti, in un crescendo che ovviamente culmina proprio con la comparsa dell'uomo. Un'idea un pò troppo antropocentrica.
L'idea centrale dell'evoluzione biologica non è il progresso, bensì l'adattamento all'ambiente di vita, e questo è un concetto molto "locale", non ha un ampio respiro, non abbraccia tutta la storia della terra in un unico crescendo, non ha la capacità di indicare una direzione generale. Se cambia drasticamente l'ambiente di vita, una specie fortemente adattata può estinguersi da un momento all'altro, lasciando il posto ad un'altra specie che fino a quel momento non si era mostrata così adatta. E' gia successo più volte nella storia biologica (l'estinzione dei dinosauri è solo l'episodio più eclatante). I nostri attuali timori ambientalisti dovrebbero collegarsi proprio a questo concetto: la nostra intelligenza è certamente un potente strumento di adattamento ambientale soprattuto perchè ci permette di modificare l'ambiente a nostro piacimento, ma non sarà che per caso questa diventerà a breve una responsabilità troppo grossa e che magari potremmo arrivare in breve tempo a deturpare il nostro habitat talmente tanto da non essere più in grado di sopravviverci come specie?

L'ultima frase è veramente un errore madornale, e attiene probabilmente all'aspetto più sottile dell'evoluzione biologica. E' una frase a metà. Il caso è solo un elemento dell'evoluzione. Gli altri elementi sono: la riproducibilità fedele di un carattere biologico (nato per caso) e l'interazione con l'ambiente che agisce come elemento di selezione dei caratteri biologici vantaggiosi. Infine un elemento non trascurabile è il tempo, o meglio l'enormità inimmaginabile dei tempi dell'evoluzione biologica. Noi guardiamo sempre l'ultimo fotogramma di un lunghissimo processo evolutivo globale dove tutti i fotogrammi precedenti concorrono in diversa misura a determinare le caratteristiche dell'ultimo, ma la maggior parte di questi fotogrammi non li conosciamo affatto e probabilmente non avremo modo di conoscerli mai.
Il caso non avrebbe nessun effetto interessante se gli organismi viventi non avessero la capacità di conservarlo: "La comparsa, l'evoluzione e il progressivo affinamento di strutture viventi sempre più fortemente teleonomiche sono dovuti al sopraggiungere di perturbazioni in una struttura già dotata della capacità di invarianza e quindi capace di conservare il caso e di subordinare gli effetti al gioco della selezione naturale".
Tutto questo, con la complicità di tempi lunghissimi, può oggettivamente produrre strutture straordinariamente complesse, ordinate e dunque "poco probabili" senza la necessità di ipotizzare l'esistenza di un progetto-guida: "Non è detto che dietro una struttura ordinata e poco probabile ci sia necessariamente un progetto (cristallo, vortice, essere vivente), così come non è detto che dietro una struttura disordinata e probabile non ci sia un progetto (messaggio cifrato)".
Il caso, fatto interagire con gli altri due elementi fondamentali dell'evoluzione, l'invarianza e la selezione, per migliaia e migliaia di generazioni, può effettivamente produrre oggetti che ben difficilmente potremmo definire semplicemente casuali: "La selezione naturale è un meccanismo per generare improbabilità su larga scala" (Sir Roland A. Fisher).

domenica 28 febbraio 2010

La famiglia è un valore

La famiglia non è un fatto naturale. La riproduzione e la cura della prole sono fatti naturali. Attorno a questi ultimi l'uomo ha costruito dei valori sociali, in particolare quello della famiglia inteso come nucleo sociale di base che garantisce al meglio l'ambiente ideale sia per la riproduzione sia per le cure parentali.

Quindi la famiglia è un valore, non una cosa naturale che viene da sè. Ci sono sì delle spinte naturali che la giustificano ma deve essere costruita e mantenuta con uno sforzo pressochè continuo dei suoi costituenti principali. Chiunque abbia una famiglia lo sa.

Che la famiglia non sia un dato di natura e che non abbia dunque niente di assoluto lo testimonia il fatto che non è sempre identica a se stessa, cambia in funzione dell'evoluzione della struttura complessiva di una società ed è differente da una società ad un'altra. In teoria se fosse possibile un qualche modello sociale diverso dal nostro, che garantisca i fatti naturali di cui sopra, la famiglia così come la intendiamo attualmente potrebbe cambiare radicalmente o addirittura perdere la sua importanza fino a dissolversi (i valori espressi da una società non sono immutabili e assoluti).

domenica 14 febbraio 2010

Microsoft e l'innovazione tecnologica

Indubbiamente Microsoft è la società di produzione di software più importante al mondo, lo è stata per molti anni e lo è tuttora. Ha contribuito più di ogni altra società alla diffusione dell'informatica in ambiente domestico, a tal punto da costruire nel tempo una inaccettabile situazione di monopolio (che sembra stia un po' cambiando negli ultimi anni).

La questione dell'innovazione tecnologica però è cosa un po' diversa. Su questo fronte Microsoft non è stata poi così determinante. Un breve excursus rende chiaramente il concetto.

L'attività di Bill Gates comincia durante gli anni universitari (1975) con lo sviluppo, insieme a Paul Allen, del linguaggio BASIC. Molti anni dopo la Microsoft produce uno dei suoi ambienti di sviluppo di maggior successo: il Visual Basic. Ma quello che fece Bill Gates all'epoca non fu quello di inventare il famoso linguaggio di programmazione, più esattamente si trattava di una versione dell'interprete del linguaggio per Altair, una macchina molto diffusa all'epoca e che costituisce una sorta di antesignano dei Personal Computer. Il linguaggio BASIC era già stato inventato circa una decina di anni prima da John Kemedy e Thomas Kurtz (New Hampshire, USA, 1964).

L'ascesa di Microsoft ha la sua origine nell'accordo che Bill Gates firmò con la IBM alla fine del 1980. Si trattava di fornire un sistema operativo per il PC IBM, che uscirà a metà del 1981. Nacque così il sistema operativo MS-DOS (Microsoft Disk Operating System), che fu il mezzo con il quale si realizzò una diffusione di strumenti informatici di massa mai vista prima. Ma all'epoca Microsoft non aveva un sistema operativo da offrire a IBM, e il DOS in realtà Gates lo acquistò proprio in quell'anno da chi lo aveva realmente ideato, Tim Paterson (Seattle Computer Products, 1980). Quest'ultimo aveva scritto il suo QDOS (Quick and Dirty Operating System) molto probabilmente ispirandosi al precedente e più famoso CP/M di Gary Kindall (il candidato perdente alla gestione del PC IBM). Sta di fatto che la Microsoft fondò la sua fortuna proprio su questo accordo con IBM, e in particolare su una clausola legale riguardante la commercializzazione del DOS, con la quale Microsoft poteva rivendere il suo sistema operativo indipendentemente dal PC IBM (dunque anche a tutti i "compatibili" che di lì a poco cominciarono ad invadere il mercato).

Con l'uscita di Windows 95 una larga massa di utilizzatori di computer conobbero le interfacce grafiche e il mouse. Ma già dieci anni prima queste tecnologie avevano fatto la loro comparsa, anche se in un mercato molto più ristretto, tramite i primi Macintosh della Apple. E a dire il vero sia le interfacce grafiche sia il mouse hanno un'origine ancora anteriore che risale agli studi che Douglas Engelbart fece a cavallo tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta prima allo Stanford Research Institute e poi allo Xerox Parc (California, USA).

Sempre con Windows 95 un enorme numero di persone cominciarono a navigare sulla rete Internet tramite il software integrato con il sistema operativo, Internet Explorer. A tutt'oggi questo navigatore (nella sua versione attuale) risulta essere il più utilizzato in assoluto. Ma anche in questo caso Microsoft ha semplicemente fatto un ingresso "di potenza" in un mercato che aveva già ideato tutte le tecnologie necessarie per rendere possibile Internet più o meno come la conosciamo adesso, come ad esempio il protocollo HTTP che consente la navigazione ipertestuale (Tim Berners Lee, CERN, Ginevra, 1990) e il software di navigazione che lo utilizza (Mosaic, Marc Andressen, 1993).

Quando una società di produzione tecnologica è così potente e capillare nel mercato si può creare in molti l'equivoco che tutte le tecnologie che infarciscono i suoi prodotti siano attribuibili interamente a quella stessa società. Esempi minori rispetto a quelli già fatti potrebbero essere: la compressione dei file in archivio (Pkzip, Phillip Katz, primi anni 90), la cifratura dei file in archivio (PGP, Philip Zimmerman, 1991), l'ambiente di autenticazione di rete (Kerberos, progetto Athena, MIT di Boston, USA, anni 90), e molte altre cose diffuse negli anni come standard e che molti utenti (e anche molti tecnici) conoscono probabilmente solo attraverso le implementazioni che Microsoft ne fa sui propri prodotti software.

Non si tratta di essere ipercritici nei confronti di Microsoft, non mi interessa screditare l'enorme lavoro di sviluppo software che questa società ha fatto negli anni, nè negargli un posto di primo piano nella storia dell'informatica degli ultimi trent'anni (soprattutto in certi particolari settori). Quello che voglio difendere è la conoscenza tecnologica, la cultura tecnologica. E avere una cultura tecnologica, come in un qualsiasi altro campo, significa prima di tutto conoscerne la storia.

Nota: Se è vero che Microsoft non ha fatto molta innovazione tecnologica nella sua storia (non quanto sembrerebbe a prima vista) è pure altrettanto vero che i suoi prodotti, in particolare i suoi sistemi operativi, sono oggetti molto interessanti proprio dal punto di vista delle innumerevoli tecnologie che implementano. Ho passato molti anni a studiare i sistemi operativi di Microsoft e molte tecnologie le ho imparate proprio attraverso questi sistemi (pur avendo cercato di non far mai l'errore di identificarle con la loro specifica implementazione). In essi Microsoft ha riversato la stragrande maggiornaza dei più importanti standard tecnologici. Mi riferisco in particolare ai sistemi operativi server e ad alcuni applicativi anch'essi di fascia server. Quest'ultimo aspetto ha valorizzato molto i miei studi. Sarei potuto arrivare alle stesse conoscenze attraverso altri sistemi (migliori o peggiori, non so) ma questo mi è sempre sembrato, e tuttora mi sembra, del tutto secondario. L'informatica si impara focalizzando l'attenzione sulle tecnologie, non sui prodotti.