domenica 21 febbraio 2016

"Non ho tempo" (di perdere tempo)

Mio figlio sta facendo i compiti di matematica. Mi chiama per essere aiutato. Deve trasformare un numero decimale illimitato periodico in una frazione. Non ricorda la regola mnemonica che ha imparato a scuola. Io non la conosco proprio, dunque devo ragionarci sopra. Provo a coinvolgerlo nel ragionamento ma niente, vuole la regola. Trovo un modo per farlo ma non è la regola. Ad un certo punto, mentre parlo di questo con mia moglie (anche lei chiamata a rapporto e incuriosita dall'argomento), lui improvvisamente se la ricorda e comincia ad applicarla. Non ha più bisogno di noi. Io, lasciato in disparte, ho la curiosità di vedere come il mio metodo è equivalente al suo e rimango nei paraggi a ragionare con mia moglie. Lui, disinteressato e infastidito dalla discussione, stimolato dalla mamma (che come al solito non molla) risponde che "lui non ha tempo per ragionarci", deve fare troppi compiti.

Io penso che forse ha ragione, ha sempre troppe cose da fare e sempre meno tempo per pensare. Spesso mi sono rimproverato di essere un "teorico", cioè di aver pensato troppo e fatto poco. Però che cazzo, pure fare senza avere il tempo necessario per pensare a quello che si sta facendo non va bene. Più che altro ci vedo due pericoli. Il primo è quello di non avere il gusto di fare le cose, un gusto e una passione che secondo me si costruiscono solo "perdendo tempo". Il secondo è quello di imparare solo a gallaggiare costantemente in superficie, su qualunque argomento, qualunque questione, parlando e basta su tutto, spesso praticamente a vanvera.

Tutto ciò mi ricorda un po' quei giornalisti che scrivono sugli argomenti più disparati, inventando interpretazioni senza basi, senza verifiche, senza analisi. Giornalisti che poi cadono vittime dei pregiudizi più scemi e delle tante pseudo-notizie che girano in rete. Forse anche loro hanno sempre avuto troppe cose da fare e poco tempo per esercitarsi a pensare.

domenica 14 febbraio 2016

Una scienza povera

Premessa: all'indomani dell'importante notizia della prima misura di un'onda gravitazionale, prevista dalla Relatività Generale e cercata per circa 70 anni, rilanciata da tutti i media e credo in buona parte subita perchè largamente non compresa dalla stragrande maggioranza delle persone, decido di pubblicare questo post che per vari motivi tenevo parcheggiato. Una buona occasione.

L'unica ricerca in fisica che esce dai laboratori e viene raccontata al grande pubblico è quella delle particelle elementari, delle interazioni fondamentali e dei grandi acceleratori di particelle. A seguire giusto un po' di astronomia, soprattutto quella fettina collegata alle imprese spaziali. Questo, sebbene comunichi il grande fascino degli argomenti (spesso incomprensibili), non comunica quasi mai secondo me l'importanza della ricerca scientifica come attività culturale direttamente collegata all'applicabilità delle conoscenze che essa produce e che spesso trasformano in modo profondo la società.

Il tema dell'unificazione delle forze dà un'immagine della scienza come quell'impresa della conoscenza, fuori da ogni contesto meramente pratico, volta a "capire il mondo", a costruire la famosa "teoria del tutto" che ci porterà a formulare i "principi ultimi" della natura. Ma chi li capisce questi principi ultimi? E come potranno essere utilizzati?

Sicuramente a quest'ultima domanda si può rispondere con le parole usate da Faraday quando William Gladstone, ministro della Finanze inglese, gli chiese quale utilizzo avrebbero potuto avere i suoi studi sull'elettricità: "One day, Sir, you may tax it!".

Però l'immagine di una scienza estrema che ci sovrasta con i suoi risultati incomprensibili e che al contempo per sua natura non può produrre nell'immediato nessuna tecnologia collegata è un'immagine un po' monca. L'utilizzo pratico delle conoscenze costruite con l'attività di ricerca scientifica è un fatto essenziale sia per l'effettivo progresso della società sia perchè contribuisce ad accendere un vero interesse nelle persone colte.

Ad essere onesti (e non troppo miopi) non è vero che la fisica degli acceleratori di particelle non produca conoscenze pratiche. Piuttosto lo fa come "effetto collaterale", come si capisce bene dalle parole del Prof. Luciano Maiani che nel passato è stato direttore del CERN: "Se è difficile ipotizzare applicazioni pratiche degli oggetti di questa ricerca [LHC], l'indagine dell'infinitamente piccolo è un obiettivo talmente complesso da richiedere lo sviluppo di tecnologie al limite delle conoscenze, e proprio queste tecnologie potranno essere utili alla società". Lo stesso discorso è altrettanto valido per la questione delle imprese spaziali, in barba a tutta quella tradizionale scia di critiche un po' fesse che vorrebbero dirottare i finanziamenti delle imprese spaziali a ricerche "più utili".

Ma si può anche rispondere dicendo semplicemente che l'attività di ricerca in fisica non si esaurisce con quello che passa sui principali media. Sarebbe bene evidenziare ogni tanto anche tutta quell'attività che non può per sua natura fare i titoli sui giornali ma la cui importanza è fondamentale soprattutto in relazione alla produzione di conoscenze subito utilizzabili. In un suo libro, dove racconta la sua carriera di fisico della materia, il Prof. Andrea Frova sottolinea questo fatto più volte, in particolare in questa frase: "Ma credo di aver indugiato anche troppo sui contenuti delle nostre ricerche romane, benché ne abbia ricordate solo una piccola parte: si tratta di una scienza, quella dei materiali, che non presenta l'altisonanza né dei grandi acceleratori di particelle, né delle esplorazioni spaziali proprie della astrofisica. Una scienza povera, una scienza in piccolo, che tuttavia in mezzo secolo ha rivoluzionato il mondo e, grazie alle sue poderose innovazioni tecnologiche, ha avuto ripercussioni in ogni altro campo del sapere"

La dialettica tra scienza e tecnologia, il loro feedback positivo come ben descritto nella frase di Andrea Frova, è un tutt'uno nel progresso della società. Le conoscenze sul mondo e la loro capacità di cambiare il nostro rapporto con esso vanno insieme e giustificano probabilmente tutta l'avventura della conoscenza.