giovedì 23 dicembre 2021

Il "solstizio" di Santa Lucia

Com'è noto il detto popolare "Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia" non è corretto. Infatti il giorno dedicato a Santa Lucia, martire del terzo secolo dopo Cristo, cade il 13 dicembre che secondo la tradizione è il giorno del suo martirio (13 dicembre 303), mentre il solstizio invernale arriva poco meno di una decina di giorni dopo, il 21-22 dicembre. Il motivo per cui la tradizione anticipa il solstizio è dovuto ad un errore accumulato dal calendario giuliano, successivamente corretto da Papa Gregorio XIII che con un decreto stabilì il passaggio diretto dal 4 ottobre al 15 ottobre 1582, togliendo quindi i 10 giorni di sfasatura accumulati negli oltre 10 secoli precedenti. Il calendario gregoriano, adottato da allora in poi, modifica anche la regola che decide gli anni bisestili, togliendo il 29 febbraio a tutti gli anni secolari multipli di 400, proprio per mantenere allineato il calendario al ciclo annuale astronomico. Quindi per molto tempo il 13 dicembre è risultato essere effettivamente coincidente al solstizio d'inverno con buona approssimazione, dando origine al detto popolare che sopravvive tuttora.

La cosa meno nota però è un'altra. Almeno lo era a me, e fino a qualche giorno fa, quando in una chat tra amici uno di noi se ne è uscito con la frase "avete notato che stanno aumentando le giornate?". Era da poco passato il giorno di Santa Lucia e il solstizio doveva ancora arrivare, per cui io mi sono affacciato alla chat per far notare che questa osservazione non poteva essere vera. Ma chi l'aveva fatta, con molta precisione e con mia sorpresa insiste su questa cosa e mi manda una tabella oraria di albe e tramonti da cui si vede chiaramente che il tramonto, già a partire da prima del 13 dicembre (precisamente in data 8/12) si sposta in avanti di qualche minuto, che è quello che effettivamente lui aveva osservato. Come abbia fatto ad apprezzare questa differenza mi rimane ancora un po' oscuro ma probabilmente è stato aiutato dalle condizioni atmosferiche favorevoli e, a detta sua, da precisi appuntamenti della giornata. Dalla tabella si osserva altresì che contestualmente si sposta in avanti anche l'orario dell'alba, così che effettivamente le ore nette di luce del giorno comunque diminuiscono fino al vero solstizio.

In pratica in quel periodo si osserva uno spostamento dell'arco del giorno che dura fino ai primi giorni dell'anno successivo. Più esattamente da 8/12 fino a 22/12 l'alba passa dalle 7:22 alle 7:33 (uno spostamento di 11 minuti) e dal 22/12 fino al 10/01 passa dalle 7:33 alle 7:36. Successivamente inverte la tendenza e comincia ad albeggiare prima. L'orario del tramonto nello stesso periodo (e anche successivamente) aumenta costantemente, dalle 16:35 in 8/12 alle 16:38 in 22/12, per poi salire velocemente alle 16:44 il 31/12 e così via. Al solstizio si ottiene il giorno più corto in quanto nei giorni precedenti lo spostamento in avanti dell'alba è più veloce dello spostamento in avanti del tramonto, comportamento che si ribalta dopo il solstizio.

Interessante. Ma mi chiedo perché succeda tutto ciò. E stranamente azzecco subito il motivo, per cui me lo scrivo qui, a futura memoria.

La Terra ruota su se stessa a velocità costante entro un'ottima approssimazione (rotazione), ma contemporaneamente ruota attorno al Sole in un'orbita ellittica (rivoluzione). Rotazione e rivoluzione sono entrambe in verso antiorario guardando il sistema Terra-Sole dall'emisfero nord. Questo determina il fatto che per ritrovare il sole nella stessa posizione la Terra deve fare un po' più di un giro. E' la famosa differenza tra giorno solare e giorno siderale (quello rispetto alle stelle fisse). Questa discrepanza però dipende ovviamente dalla velocità con cui la terra viaggia nella sua orbita ellittica, che non è sempre la stessa, ma aumenta con l'approssimarsi al perielio (il punto più vicino al sole). Se aumenta la velocità di rivoluzione è chiaro che il mezzogiorno si sposta, in particolare ritarda, e con esso tutto l'arco del giorno, il tramonto e l'alba ritardano anch'essi. Questa cosa avviene durante tutto il periodo in cui la Terra si trova vicino al perielio, da una parte e dall'altra, che è guarda caso proprio il periodo in mezzo al quale cade il solstizio d'inverno (per il nostro emisfero). Gli effetti si combinano, per cui ad esempio la velocità con cui ritarda l'alba prima del solstizio (passaggio al perielio) è superiore a quella che si osserva dopo, perchè comincia a farsi sentire l'allungamento del giorno dovuto alla diversa inclinazione dell'asse terrestre rispetto al sole. Al contrario la velocità con cui ritarda il tramonto aumenta progressivamente la sua velocità durante tutto il periodo.

Alla fine il giorno di Santa Lucia non è il più corto che ci sia ma è pur vero che intorno a quella data il tramonto comincia a spostarsi dando l'impressione dell'aumento della giornata, come ha incredibilmente osservato il mio amico.

NOTA: a questo link gli orari di alba e tramonto di tutto l'anno 2021 mostratomi dall'amico in chat e da cui ho preso i dati che ho riportato nel post.

 

mercoledì 8 dicembre 2021

Complottismo e creazionismo

La mia è un'idea un po' rozza ma più di una volta il movimento NoVax mi ha fatto pensare ai vecchi Testimoni di Geova, quelli che ti venivano a citofonare sotto casa ponendoti a bruciapelo domande sul mondo e sulla sua creazione che a te mettevano in imbarazzo per la loro complessità e di cui invece loro sapevano la risposta, chiara, semplice, indubitabile. E ti trattavano come uno a cui bisognava insegnare a guardare bene le cose, perché tu non le vedevi, almeno non nel modo giusto. Era tutto così semplice, come facevi a non capire e a non essere d'accordo?

I ragionamenti dei NoVax che si raccolgono nei social sono totalmente irrazionali e ben supportati da una sconcertante dose di ignoranza. Non si riesce a seguire nessuno di questi ragionamenti, se non per constatare che sono tutti immancabilmente fondati su dati falsi (è in genere anche abbastanza facile verificarlo). Ma cercare fonti attendibili e rifletterci sopra non è una cosa di loro interesse. Loro hanno fonti autoprodotte. Mi ricordo che i Testimoni di Geova andavano sempre in giro con la loro pubblicazione La Torre di Guardia dove poter leggere le sentenze più importanti del loro pensiero creazionista. I NoVax avranno pure loro cose del genere (nel mondo dei social saranno principalmente memi).

L'unica cosa veramente comprensibile dei NoVax è che non si vogliono vaccinare. Le motivazioni sono un misto tra complottismo (la società marcia, l'inferno) e vaghe teorie naturiste (la scienza alternativa, il paradiso terrestre), e le due cose sono legate tra loro. D'altra parte l'unica cosa chiara che ricordo dei Testimoni di Geova era che non volevano mai farsi trasfusioni di sangue. Nel loro caso le motivazioni erano direttamente nella Bibbia. Però letta male, come succede per i dati e le informazioni scientifiche lette dai NoVax.

Insomma questa analogia non so da dove mi sia venuta ma mi pare calzante e la riporto in questo post perché l'altro giorno mi sono imbattuto in un articolo di Pikaia che tutto sommato posso interpretare come un'interessante spiegazione di quello che avevo pensato.

Secondo l'articolo di Pikaia, che riporta i risultati di una ricerca, c'è un legame insolitamente comune tra complottismo (ad esempio quello dei NoVax) e creazionismo (ad esempio quello dei Testimoni di Geova). "Nonostante possano apparire diversi in prima istanza, entrambi questi pensieri condividono quello che viene chiamato bias cognitivo (una valutazione frutto di una interpretazione non logica delle informazioni in proprio possesso) legata al pensiero teleologico, la tendenza ad attribuire una valore finalistico a tutti gli eventi naturali e storici. [...] Il bisogno di attribuire un senso ad ogni cosa, la necessità di trovare un significato ed uno scopo in ogni avvenimento, sembra essere un pregiudizio che accomuna creazionismo e complottismo".

Io credo che cercare spiegazioni del mondo attraverso cause finali sia un istinto primitivo da sempre presente nell'uomo. Ma il nostro tempo è ormai largamente dominato dalla visione scientifica, razionale e non teleonomica. I nostri vecchi istinti finalistici non sappiamo più come farli sfogare, così come anche il nostro fisiologico bisogno di irrazionalità. Avevamo un mondo pieno di credenze, di sistemi religiosi che riempivano il nostro bisogno di dare un senso al mondo e alla nostra vita. Ci accompagnava sempre l'idea di un disegno sovrannaturale che guidava le nostre esistenze. Ora, tolto di mezzo il disegno trascendente, rimane l'ipotesi di un disegno immanente, ma pur sempre un disegno. Che è quello che molti di noi ancora cercano. Si fatica ad accettare la storia come un susseguirsi di fatti determinati dal caso e dalle scelte che ne conseguono. Alla base della mentalità complottista, come di quella creazionista, c'è una visione finalistica della Storia. In entrambe il pensiero teleologico comporta "il coinvolgimento remoto e nascosto di una causa intenzionale e finale per spiegare eventi mondani complessi".


domenica 28 novembre 2021

Il modello Principe-Principessa

Il maschilismo, tratto comportamentale ancora presente in varia misura nelle nostre società, non esiste per essere contro la donna, non la disprezza, non è violento contro di lei. Risponde solo ad un modello culturale che assegna ruoli ben precisi ai due sessi, e in questo senso li vincola entrambi. Questo modello si potrebbe definire "Principe-Principessa", una figura retorica invero un po' antica e di stile cavalleresco, ma tutto sommato ancora presente e rappresentata, che contiene molti degli aspetti che ritengo essenziali per descrivere il maschilismo e le sue conseguenze. E' dallo sgretolamento di questo modello che nascono i problemi, anche quelli di violenza sulle donne (e di violenza autodistruttiva degli uomini).

Principe e Principessa vivono sotto lo stesso tetto, uno splendido maniero, le cui ricchezze fanno da sfondo alla loro felicità (primo elemento). Ma lo abitano ricoprendo ruoli ben diversi. Il modello delle favole rappresenta la Principessa spesso come una ragazza idealizzata (secondo elemento) sia come bellezza che come comportamento, che viene scelta dal Principe (terzo elemento) e portata al castello per godere di ricchezze non sue (quarto elemento). La Principessa non deve pensare a niente di importante, non è necessario, deve bastare la sua presenza (quinto elemento). Il modello femminile che non si allinea a questo stereotipo di figura non indipendente e protetta è sempre terribilmente negativo (regina cattiva, strega, ecc.). Il Principe è invece il detentore di tutti i beni, generoso e giusto nel gestirli ma sono sempre i suoi beni, è sempre lui a gestirli. La Principessa è uno dei suoi beni, certamente il più prezioso (sesto elemento). Il modello della conquista è pieno di fascino, sia per chi conquista che per chi viene conquistato.

Secondo me gli elementi di questo modello, che sto desumendo principalmente dalla tradizione favolistica per semplicità e chiarezza, sono in varia misura e in forme spesso lontane da quelle citate (certamente meno marcate), ancora abbastanza diffusi, forse più di quanto non si pensi. E forse a tutt'oggi genera modelli sociali del rapporto uomo-donna con cui tutti noi ci confrontiamo (per criticarli, per rifiutarli, per accettarli, per assumerli in modo acritico, ecc.).

Credo che una buona parte di noi, più o meno consapevolmente, sia ancora culturalmente predisposta a cercare questi elementi nel rapporto, e che anzi lo concepisca proprio sulla base della presenza di essi. Ovvio che nella nostra società, che propone ancora in varia misura certi modelli e contemporaneamente modelli di emancipazione femminile, ragionare in questo modo produca una certa dose di frustrazione. Una frustrazione che agisce sia sugli uomini che sulle donne (secondo me se la cultura maschilista ancora esiste nella nostra società è solo perché in buona parte è assimilata e diffusa anche dal genere femminile).

Quando un modello culturale si sgretola sotto le modifiche sociali produce traumi, disequilibri, vittime. I tempi e i percorsi per trovare nuovi equilibri potrebbero essere molto lunghi e lastricati di sofferenze. Nella progressiva demolizione del modello Principe-Principessa le prime vittime secondo me sono gli uomini, perché vedono sgonfiarsi il loro ruolo di potere su cose, situazioni e persone, e perdere la relativa attribuzione di un grande senso di responsabilità su di esse. Rischia di rimanere un grande vuoto, indubbiamente. Anche le donne trasformano radicalmente il loro ruolo, ma per raggiungere uno stato di autodeterminazione che, se accettato dalla società, costituisce per loro un indubbio vantaggio rappresentato in sostanza dalla libertà di scelta e dall'aumento dello spettro delle possibilità di vita. Insomma una ricchezza, non un vuoto. C'è anche da dire che questo comporta un maggior carico di responsabilità, quindi è anche comprensibile che non tutte siano così portate ad abbracciare con entusiasmo questa nuova condizione (ci sono ancora parecchie principesse in giro).

Gli elementi del modello che ho citato sopra cadono uno ad uno. Se la donna non è più un bene (come un gioiello, notare la metafora) e si autodetermina con scelte personali con cui doversi confrontare è veramente difficile idealizzarla, è difficile sceglierla indipendentemente dalla sua volontà (o pensando addirittura che sia il frutto di qualche volontà superiore), è difficile metterla in un ambiente non scelto da lei, è difficile collocarla in ruoli secondari e non decisionali. E nella maggior parte dei casi nella nostra società sempre più complessa non è più pensabile avere un maniero in cui poter vivere tranquilli e al riparo da tutto. E allora come si fa a pensare alla "propria" Principessa come il bene più prezioso? Anzi, la sua figura sempre più indipendente e sempre meno bisognosa di protezione diventa pericolosamente simile a quella di una regina cattiva, di una strega. Crolla un mondo, a cui non si riesce facilmente a contrapporre qualcosa di costruttivo. Rimane solo la sua distruzione.

Il maschilismo è prima di tutto una tragica trappola culturale per l'uomo da cui, visto quello che succede, è evidentemente molto difficile uscire. Almeno per molti sembrerebbe essere così. E' chiaro che prima o poi usciranno tutti. Nel frattempo semina vittime, da tutti e due i fronti.


lunedì 15 novembre 2021

Gli manca la parola

Solitamente quando instauriamo un rapporto stretto con un animale domestico, e cominciamo a capirne alcuni elementi di comunicazione che spesso ci stupiscono, finiamo per dire con ammirazione: "Caspita! Gli manca la parola!". Pensiamo che sia l'elemento che manca al nostro interlocutore, e che ci impedisce di capirlo nei dettagli come vorremmo. Crediamo che ci vorrebbe proprio dire qualcosa, ma gli manca la parola.

In effetti credo che sia esattamente questa la differenza principale tra l'uomo (Homo Sapiens) e tutti gli altri esseri viventi nel pianeta. Noi abbiamo la parola. Ma che significa questo? Prima di tutto significa un fatto puramente fisico, cioè che noi abbiamo un apparato vocale (laringo-faringeo) in grado di articolare una vasta gamma di fonemi, un apparato largamente più sofisticato di qualunque altro animale. Una differenza sostanziale che noi abbiamo anche con i nostri parenti più stretti, le scimmie antropomorfe. E' difficile dire perchè noi si e tutti gli altri no, però suppongo che funzioni come tutti gli altri caratteri evolutivi, elementi casuali ci hanno fornito un primo vantaggio, delle prime caratteristiche che ci hanno favorito e che poi abbiamo progressivamente sfruttato e quindi raffinato e selezionato generazione dopo generazione.

Ma una specie che riesce ad articolare versi così eterogenei che se ne fa di questa sua caratteristica, tanto da evolverla poi con questi risultati? Probabilmente ci può costruire una forma sofisticata di comunicazione con gli altri individui. Moltissimi animali sociali comunicano attraverso l'uso di una certa gamma di versi, il fatto di avere una tavolozza infinitamente più ampia è certamente un vantaggio da questo punto di vista. Ma è solo questo il vantaggio? Forse no, forse riuscire ad avere un verso per indicare qualsiasi oggetto favorisce la costruzione di un linguaggio, dà la possibilità di comunicare cose sempre più specifiche e dettagliate. Non solo, ma forse permette anche di capire che ogni cosa del vivere si può mappare con un suo simbolo, in questo caso una parola (ovvero una combinazione di fonemi, un verso). E che questa cosa si può anche estendere ad altri elementi fisici, oggetti, ornamenti del corpo, segni nelle pareti di una grotta. Tutto ciò aiuta a sviluppare la capacità di formare nella propria mente le connessioni tra elementi della realtà e una loro rappresentazione simbolica. Aiuta a mettere insieme in modo originale cose che esistono per arrivare a pensare anche cose che non esistono. In una parola aiuta ad immaginare, l'aspetto più potente dell'intelligenza.

Tra l'altro una cosa del genere oltre a favorire lo sviluppo dell'intelligenza in ogni singolo individuo di un gruppo umano consente (cosa ben più importante) di costruire un'intelligenza collettiva, che è quella che fa la vera differenza con le altre specie. E' quella che mi permette oggi di scendere sotto casa, entrare in macchina, arrivare al supermercato e fare la spesa per la cena. Senza l'intelligenza collettiva costruita in millenni di storia questa cosa non sarebbe possibile. Con la mia sola intelligenza sarei riuscito al massimo a costruirmi un arco un po' più efficiente di quello di qualche mio compagno di caccia.

Mi chiedo: ma gli altri animali come ci vedono? Probabilmente riconoscono in noi quella specie animale che fa versi in continuazione, senza apparente motivo, rumoreggiando come una pila di fagioli.

 

domenica 7 novembre 2021

Memi culturali

Molto tempo fa ne "Il gene egoista" di Richard Dawkins lessi del concetto di "meme". Secondo Dawkins, che lo ha introdotto per la prima volta proprio in quel suo libro, un meme è semplicemente una unità di trasmissione culturale. Come il gene anche il meme è un replicatore soggetto a mutamenti evolutivi, ma con una velocità di diffusione e mutazione ben più alta. Se il terreno di diffusione del gene è quello biologico, il terreno di diffusione del meme è quello culturale. Come i geni anche i memi possono nascere, diffondersi e prosperare oppure mutare o anche alla fine estinguersi. Tutto dipende dall'ambiente in cui si trovano ad agire.

Trovo interessante andare a cercare esempi possibili di questi memi, anche esempi insoliti, non troppo scontati, forse anche non troppo sicuri. Uno è il seguente.

Il messaggio culturale del movimento cinquestelle negli anni passati è stato: "Io cittadino onesto, che fino a ieri svolgevo la mia attività lavorativa, da domani posso entrare in Parlamento sicuro di poter fare meglio della classe politica, poiché questa è fatta di specialisti che anziché fare politica per la cittadinanza usano la politica a fini personali, in modo disonesto, corrotto, guadagnandoci alle spalle del cittadino. Per fare bene la mia attività di amministratore della cosa pubblica, io cittadino cresco dentro la comunità di tanti altri cittadini come me che si scambiano informazioni, pareri, e prendono decisioni, attraverso l'uso della rete".

Questo che ho raccontato può essere pensato come un meme? Magari è un po' complicato (o anche improprio visto che forse un meme è immaginato come qualcosa di più semplice) ma ci si può provare. Bisognerebbe riconoscerla come un'unità di trasmissione culturale, come un'idea innovativa che può diffondersi nella popolazione, magari anche mutando leggermente e adattandosi a contesti e situazioni un po' diverse da quella in cui è nata.

L'osservazione sperimentale che potrebbe riconoscere tutto questo e che propongo è la seguente.

"Io cittadino onesto, tramite la comunità costituita da tanti altri cittadini onesti che scambiano informazioni tra loro usando la rete, posso decidere su cose che non sono mai state di mia stretta competenza e su cui non ho maturato nessun tipo di esperienza nella mia vita, scavalcando i cosiddetti specialisti che alla fine non sono altro che persone che usano la loro disciplina a fini personali, spesso in modo disonesto e interessato, guadagnandoci sopra alle spalle dei cittadini".

Non sembra lo stesso meme che è partito da un contesto e si è diffuso nella popolazione allargando il suo ambito e generalizzando la sua applicazione? Se ne può trovare una sua ulteriore variante, più specifica ed estremamente diffusa nell'ambiente culturale attuale, dominato dalla pandemia.

"Io cittadino onesto, tramite la comunità costituita da tanti altri cittadini onesti che scambiano informazioni tra loro usando la rete, posso e voglio decidere sulla opportunità di vaccinarmi, valutando correttamente tutte le sue conseguenze, senza ricorrere al parere di medici e scienziati che sono tutti, fatta eccezione di qualcuno che ritrovo dentro la mia comunità di cittadini onesti che usano la rete, sotto lo stipendio delle società farmaceutiche, tutti interessati ai loro fini personali e ai loro guadagni alle spalle dei cittadini".

Concludo ricordando che esattamente come un gene anche un meme può alla fine estinguersi.


domenica 24 ottobre 2021

L'ipotesi di Barbero

E' di qualche giorno fa un'intervista al Prof. Alessandro Barbero, storico, in cui avanza un'ipotesi sul motivo per cui le donne a tutt'oggi hanno una scarsa presenza nei posti di maggior responsabilità professionali, sia nel pubblico che nel privato. Il pezzo importante di questa intervista, riportato in molti articoli su internet, è il seguente: «Premesso che io sono uno storico e quindi il mio compito è quello di indagare il passato e non presente o futuro, posso rispondere da cittadino che si interroga sul tema. Di fronte all’enorme cambiamento di costume degli ultimi cinquant’anni, viene da chiedersi come mai non si sia più avanti in questa direzione. Ci sono donne chirurgo, altre ingegnere e via citando, ma a livello generale, siamo lontani da un’effettiva parità in campo professionale. Rischio di dire una cosa impopolare, lo so, ma vale la pena di chiedersi se non ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. È possibile che in media, le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi? Credo sia interessante rispondere a questa domanda. Non ci si deve scandalizzare per questa ipotesi, nella vita quotidiana si rimarcano spesso differenze fra i sessi. E c’è chi dice: “Se più donne facessero politica, la politica sarebbe migliore”. Ecco, secondo me, proprio per questa diversità fra i due generi.» (il grassetto è mio).

Questa intervista ha scatenato molti commenti negativi. Io trovo che, per quello che ho letto in giro, la reazione sia sconcertante. Quello che mi colpisce di più (negativamente) è la forte polarizzazione della discussione. Forse ancora di più è sconcertante la velocità, l'immediatezza e il livello di fraintendimento delle reazioni. Velocità e fraintendimento fanno pensare che molte reazioni siano addirittura state formulate leggendo solo i titoli (effettivamente anche loro fuorvianti) con cui è stata riportata l'intervista e la notizia dell'intervista. Sembra che certi argomenti "sensibili", cioè particolarmente adatti al consumismo dell'informazione, debbano pretendere immediatamente delle prese di posizione, e che non debbano in alcun modo lasciare spazio ad un vero dibattito, forse troppo pesante e di cui probabilmente non interessa niente a nessuno.

Le due espressioni che ho riportato in grassetto sono secondo me gli elementi chiave di questa dichiarazione di Barbero. Il termine differenze strutturali può avere molte interpretazioni, ma non certo razziste e discriminatorie per le donne. Si parla di differenze non di inferiorità o superiorità di qualcuno rispetto a qualcun altro. Secondo me il termine differenze strutturali prova a dire che le differenze tra maschio e femmina della nostra specie possono andare al di là di qualche secondario aspetto morfologico, possono invece investire lati più profondi dell'intelligenza, della psicologia, del carattere. Ovviamente sempre parlando su una base statistica, che è anche l'unica che può aver senso in un dibattito del genere. Tra questi lati della personalità ci può essere anche l'aggressività, la capacità di avere e/o ostentare sicurezza, non mi pare che la cosa possa nascondere una qualche forma di razzismo, neanche strisciante. E' sottointeso che l'aggressività e la sicurezza di sé possano essere tra le caratteristiche della personalità che più aiutano ad ottenere delle posizioni apicali nel mondo professionale. Questa è un'opinione, e si può anche comprensibilmente non essere d'accordo, ma non mi sembra poi così campata in aria, e se ne può discutere.

La seconda espressione è ancora più significativa, a mio parere. Barbero parla esplicitamente di una ipotesi, cioè formula semplicemente un'idea plausibile, nient'affatto scontata e men che meno verificata, che però secondo lui sarebbe interessante approfondire, magari con studi mirati. Credo che questo sia l'elemento che più è stato ignorato nella discussione, ma è cruciale. Barbero in fondo, da storico abituato all'analisi delle fonti storiche con cui è possibile accettare o rifiutare un'ipotesi, trasla questo atteggiamento di studio e applica il metodo scientifico a un carattere sociale attuale osservato (senza però indicare come analizzarlo, studiarlo o semplicemente verificarlo). Tutto qui. Ma il problema è sempre la preparazione scientifica dei suoi interlocutori, sempre troppo scarsa per poter raccogliere il vero significato della sua proposta. Dentro l'ipotesi differenze strutturali ci potrebbero essere anche le conseguenze della storia evolutiva della nostra specie, perché no? Ma non credo che questo sia stato minimamente colto dai suoi tanti critici.

Il risultato deprimente è che un dibattito culturale potenzialmente fecondo e interessante, lanciato con una semplice ipotesi, si è schiacciato immediatamente in una contrapposizione schematica e del tutto inutile. Mi preoccupa il fatto che in questo contesto di un'informazione a consumo, macinata solo per fare titoli, molti possibili dibattiti possano avere lo stesso triste destino.

NOTA: poco prima di pubblicare questo post ho assistito ad un frammento di un dibattito televisivo su questo tema che m'è sembrato interessante e non scontato. Meglio così.


domenica 17 ottobre 2021

Non conforme

E' la frase che ho letto sulla bacheca di un mio contatto su Facebook. E' quella che si mette come titolo della home page e in genere la si mette per autodefinirsi o perchè ci piace, o comunque per caratterizzare in qualche modo il proprietario di quella bacheca. Se penso a questo mio contatto trovo che la frase sia perfetta, ne definisce esattamente il tratto più saliente della sua personalità.

Ovviamente non voglio parlare in maniera diretta del mio contatto su Facebook, ma della sua frase, che mi fa molto pensare. L'essere non conforme (o definirsi come tale) mi provoca un sentimento ambivalente, molto interessante. Da una parte provo il fascino di questo elemento della personalità. L'individuo che tende a fare scelte fuori dal coro è sempre portatore di un certo fascino, poiché ostenta un certo senso di libertà, e lo stimola in chi gli sta vicino. Dall'altra mi provoca un certo senso di irritazione, di fastidio, abbastanza difficile da eliminare, tanto che le due cose spesso convivono.

Ora questa cosa la si potrebbe spiegare in maniera molto semplice ed eloquente dicendo che sono fondamentalmente un pecorone conformista. Mi affascina il senso di libertà della persona non conforme perchè non mi appartiene, e contemporaneamente mi irrita, proprio perchè non mi appartiene. Non nego che come spiegazione avrebbe un suo senso.

Ma io, un po' per amor proprio, un po' per scavare nelle mie emozioni, azzarderei un'analisi più approfondita, nella speranza di non fare figuracce. Tralasciando il fatto che essere liberi ed essere non-conformi sono due cose diverse e dando per ovvio però che gli atteggiamenti non conformi si legano istintivamente ad un senso di libertà e che per questo ispirano sempre un certo fascino e una certa simpatia in chi li osserva, vorrei analizzare un po' meglio quel senso di irritazione citato prima.

Intanto sottolineo, per non essere equivocato, che sto intendendo il termine "conforme" nel senso di "che è compiuto secondo le regole". Quello che mi provoca irritazione ha due motivi principali, che descrivo di seguito:

1. secondo me un atteggiamento non conforme può portare a decisioni irrazionali, mettere in primo piano questo lato caratteriale (perchè di questo si tratta) può rischiare di limitare la nostra capacità razionale, con conseguenze inaspettate. Le regole possono avere una loro razionalità, non adeguarcisi può non avere un sostegno altrettanto razionale. Razionalità e atteggiamento non conforme sono due elementi che possono entrare in conflitto, con conseguente irritazione in chi le osserva. Mi pare che certi atteggiamenti complottari e certi aspetti dell'antivaccinismo odierno abbiano dietro anche questo tipo di conflitto. 

2. mi trovo sempre a pensare che l'essere non conforme, praticato in larga misura, possa condurre a comportamenti antisociali, ad un eccesso di individualismo (che potrebbe anche essere inteso come innato senso di libertà), e anche questo mi irrita un po'. Un tessuto sociale si costruisce anche su regole e convenzioni, non riesco ad escludere questo aspetto dal mio concetto di comunità. Qui il mio atteggiamento è molto meno sicuro, mi rendo conto che a livello sociale avere atteggiamenti non conformi può in realtà avere effetti molto positivi, destabilizzanti in senso buono. Direi che anche qui la misura di questa non conformità dovrebbe essere sempre la razionalità.

Mah, forse alla fine volevo semplicemente dire che l'istinto di essere non conforme, che è evidentemente un tratto anche molto positivo del carattere, andrebbe temperato da valutazioni razionali, che in effetti hanno poco a che fare con l'istinto e molto più con la propria formazione, e certamente risultano molto meno affascinanti. Posso azzardare l'opinione che questi ingredienti, opportunamente calibrati, producono un cittadino libero? O semplicemente sono un pecorone razionalmente giustificato?  :-)


domenica 3 ottobre 2021

Pontediferro

Ieri è andato a fuoco il Ponte dell'Industria, conosciuto a Roma come il Ponte di Ferro, un simbolo per la città e un ponte importante anche per la viabilità poiché è quello che mette in comunicazione diretta due quartieri molto popolosi, Marconi e Ostiense. A dir la verità un ponte decisamente insufficiente per sostenere questo collegamento, tanto che già da tempo si parlava di un suo necessario ampliamento, senza però alcun seguito. Qualunque opera architettonica o ingegneristica annunciata a Roma ha dei tempi di incubazione e soprattutto di realizzazione che fanno paura a qualunque romano si trovi ad abitare nelle sue vicinanze. Chissà adesso che succederà. Speriamo bene.

Quel ponte è considerato un'opera storica, un monumento dell'archeologia industriale italiana, in questo senso la sua possibile perdita è un po' un dispiacere. Una testimonianza delle opere del passato nella nostra città.

Ma andandomi a documentare per l'occasione scopro che il ponte (la sua prima versione, quella ferroviaria, perché in seguito, nel 1911 è stato in parte rifatto) risale al 1863 e in realtà è stato realizzato per lo Stato Pontificio da una società belga. Addirittura non fu costruito sul posto, la società belga effettuò il lavoro in Inghilterra e trasferì i pezzi a Roma, dove fu assemblato. Questa cosa mi ha un po' amareggiato, mi ha fatto pensare alla situazione italiana di fine ottocento, subito dopo la sua unità. All'epoca i veri motori scientifici e tecnologici europei erano l'Inghilterra, la Francia, la Germania. Noi al limite avevamo lo Stato Pontificio che aveva sufficienti ricchezze per comprarle, queste tecnologie. E le cose purtroppo sono andate avanti così.

Mi torna in mente un testo letto un po' di tempo fa, che tenta di fare il punto della situazione culturale italiana, sotto il profilo scientifico e tecnologico, partendo proprio da questo periodo, o giù di lì. Un breve stralcio della prima pagina di questo testo recita così: "Tutti sapevano [in Italia], in quel finire di secolo, che le grandi nazioni europee stavano potenziando le strutture materiali della ricerca e incentivando le risorse umane da inserirvi. Ma si credeva, anche, che l'Italia se ne sarebbe poi avvantaggiata, facendo proprie le acquisizioni che inglesi o tedeschi avrebbero, a proprie spese, realizzato. Un errore classico. Ma tipico di una cultura arretrata e di una classe dirigente che di quella cultura era, nello stesso tempo, il risultato e lo specchio [...]".

Più avanti, arrivato a raccontare gli anni settanta (quelli che mi vedono crescere), riporta le parole pessimiste di Giuliano Toraldo Di Francia: "L'Italia è un paese in via di sottosviluppo. Siamo in una situazione tragica. [...] Vedo già l'Italia dipendere, nel campo del progresso scientifico, da ciò che avviene all'estero. Da noi si comprerà solo il prodotto finito". Osservando la situazione attuale non mi sembra che si sia sbagliato di molto.

Il Pontediferro, un'opera tecnologica comprata dai paesi che sapevano farla, ci ricorda le nostre origini.

[Le citazioni sono prese dal libro di Enrico Bellone "La scienza negata. Il caso italiano", Codice edizioni, 2005]


domenica 26 settembre 2021

Ci possiamo dire moderatamente fortunati?

Siamo d'accordo che esiste una pandemia? Siamo d'accordo che questa pandemia ha creato in molti Stati dei problemi di ordine sanitario molto gravi? Siamo d'accordo che questo non è un problema semplice? Siamo d'accordo che per un problema del genere è difficile formulare ed attuare una soluzione semplice, chiara, univoca, e senza errori? Siamo d'accordo che di fronte ad una situazione del genere sia abbastanza normale che i vari governi nazionali abbiano adottato strategie differenti, più o meno azzeccate, ognuna con le sue incertezze, i suoi errori, strategie non sempre coordinate (anche a fronte del fatto che la diffusione del virus ha avuto delle differenze significative da Stato a Stato)? Siamo d'accordo che il nuovo virus ha creato gravi difficoltà alla scienza? E che la gestione dei problemi sanitari e sociali che ne sono inevitabilmente derivati hanno creato altrettanto gravi difficoltà alla politica? Siamo d'accordo che in una situazione del genere gli errori scientifici, di comunicazione, e politici non possono che essere all'ordine del giorno?

Detto questo, siamo anche d'accordo che se il nostro governo sta usando il green pass come soluzione paracula di obbligo vaccinale, mantenendo formalmente la libertà di scelta dei cittadini ma di fatto costringendoli alla vaccinazione (come si dice di una configurazione software, non è "required" ma "highly recommended"), dobbiamo esserne ben consapevoli? Dobbiamo pensarci su? Dobbiamo riflettere sul fatto che un'emergenza ci sta costringendo a dei provvedimenti autoritari introdotti in maniera un po' subdola e che questo non fa certo molto bene alla democrazia e ai principi di libertà?

Infine, siamo d'accordo che forse è una fortuna se stiamo parlando di dover o no rivendicare una libertà vaccinale anzichè qualcosa di più grave?

Se l'emergenza pandemica c'è veramente e ha le caratteristiche che sappiamo (vedi domande all'inizio) queste restrizioni alle nostre libertà non appaiono poi così gravi e, pur mantenendo l'attenzione del cittadino libero nel suo pensiero, ci si può stare. Credo.


lunedì 20 settembre 2021

La paura impedisce il dibattito democratico?

L'episodio della petizione dei professori universitari contro il green pass mi fa un po' pensare. La motivazione di questa petizione ha un senso abbastanza chiaro e non mi pare si possa derubricare a scemenza. Ma le reazioni che ho letto sembrano andare perlopiù in questo senso.

Il governo con una serie di provvedimenti sta rendendo progressivamente obbligatorio il green pass in ambiti sempre più ampi della vita sociale, fino alle università e ai posti di lavoro, sia pubblici che privati. Il tutto senza una disposizione di legge appropriata e per questo mantenendo valido il principio generale della libertà di vaccino. La petizione solleva un dubbio abbastanza preciso. Questo comportamento del governo non determina un problema di conflitto di diritti nella società? Un problema di rispetto delle libertà fondamentali del cittadino? E' vero che il green pass lo si può ottenere anche con un semplice tampone per una validità di 48 ore, ma poiché quest'ultimo lo si vuole mantenere a pagamento per incentivare il maggior numero di persone alla vaccinazione (questo è effettivamente l'obiettivo finale di tutta l'operazione), il risultato è quello che alcuni cittadini per poter esercitare dei diritti fondamentali quali quello all'istruzione e al lavoro sono costretti a pagarsi settimanalmente due o tre tamponi. Tutta l'operazione dunque non solleva un problema di discriminazione tra i cittadini ai quali però nel contempo si vorrebbe continuare a garantire una piena libertà di scelta? Per quello che ho letto mi sembra che i firmatari indichino come soluzione l'obbligo vaccinale istituito come legge, ovvero come decreto del governo da convertire in legge in tempi brevi passando per un dibattito parlamentare. Per la verità non so se effettivamente questo sia scritto nella petizione, ma l'ho dedotto da interviste di alcuni firmatari più "in vista" nell'opinione pubblica, gli unici probabilmente intercettati dagli organi di stampa. Questo di passare per una legge dello stato è tra l'altro quanto previsto dalla Costituzione (Art. 32: " [...] Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. [...]"). E' chiaro che il passaggio ad una legge modifica sensibilmente la cosa. Un non vaccinato interrogato sul perché ha deciso di non farlo non ti può più rispondere "sono fatti miei", come legittimamente può fare adesso. Lo stesso vaccinato non subisce più una discriminazione sociale per aver fatto una scelta legittima, la sua posizione sarebbe semplicemente fuorilegge. A sua volta il governo si farebbe carico di tutti i controlli necessari per garantire il rispetto di quanto stabilito da una legge dello Stato.

Tutto ciò mi appare come un elemento legittimo del normale dibattito dell'opinione pubblica su temi piuttosto delicati che via via vanno intrecciandosi in questa lunga storia della pandemia. La cosa che mi fa pensare è l'aver constatato che l'episodio della petizione non si vuol far entrare legittimamente in questo dibattito, anzi, che proprio non si vuole un vero e proprio dibattito. Di fronte all'obiettivo principale di sconfiggere la pandemia non bisogna perdere tempo in dibattiti. La tendenza come dicevo prima sembra essere quella di voler derubricare la petizione a scemenza e farla rientrare nel calderone delle tante altre scemenze, perlopiù tirate fuori dagli ambienti no-vax (ma non solo, purtroppo), che si sono sentite in questo anno e mezzo. Con l'aggravante che quest'ultima proviene dagli ambienti accademici, i quali dovrebbero mostrare un maggior senso di responsabilità.

Perché questa tendenza generale ad ammazzare qualunque dibattito sulle decisioni che vengono prese per combattere la diffusione del virus? Una ragione mi pare evidente, anche se non analizzata, forse proprio perché troppo evidente. E' la paura. Una paura del tutto legittima, ma che prepara un terreno di refrattarietà alla discussione. Le strategie di azione per combattere la pandemia scavalcano qualunque altra possibile obiezione. Forse è esagerato ma a me pare qualche volta di intuire questa atmosfera, soprattutto in coincidenza con questo episodio della petizione.

E' interessante, sebbene forse abbastanza scontato, constatare come la diffusione nella società di un sentimento di paura verso una minaccia favorisca sempre decisioni poco dibattute, decisioni che per l'urgenza e la gravità della situazione devono essere prese e basta. Il dibattito democratico non è certo favorito da situazioni del genere.

NOTA: le decisioni in questo momento le sta prendendo il governo guidato da Mario Draghi. Sono esattamente decisioni ben poco discusse, anche all'interno di una maggioranza così eterogenea e critica, dove le divergenze interne non prometterebbero niente di buono. Forse non è un caso che Draghi anche quest'anno sia nella classifica dei primi 100 individui più influenti del pianeta.

 

martedì 14 settembre 2021

I solidi platonici

Dei cinque solidi platonici la cosa che mi ha sempre incuriosito è proprio il fatto che sono solo cinque. E che non possono essere di più. Perché? Mi è sempre sembrata la domanda più interessante su questi oggetti della storia greca. E' chiaro che ci deve essere un motivo ben preciso. Per dire, anche i sette nani sono sette, ma non mi pare così intelligente domandarsi perché. Nel caso dei solidi platonici invece la domanda è significativa, e deve discendere da qualche proprietà costruttiva che caratterizza questi solidi e che costituisce anche un vincolo preciso al loro numero massimo.

Ovviamente tutto sta nella definizione, e in quello che ne consegue. Un solido platonico è un poliedro convesso regolare. Un poliedro è una porzione di spazio tridimensionale delimitata da un numero finito di facce poligonali (un cilindro non è un poliedro). E' convesso quando presi due suoi punti qualunque il segmento che li unisce è interamente contenuto in esso (una "stella" non è convessa). E' regolare quando le sue facce sono poligoni regolari tutti congruenti (i poligoni regolari sono poligoni convessi equilateri ed equiangoli) e anche i suoi angoloidi (regioni di spazio delimitate da tre o più facce che convergono nello stesso vertice) sono tutti congruenti (un "pallone da calcio", tecnicamente un icosaedro troncato, non è regolare, avendo facce di diverso tipo, pentagonali ed esagonali).

Dunque in sintesi per costruire un solido platonico devo partire da un certo numero di poligoni regolari congruenti (tutti identici) e comporli assieme in una figura chiusa convessa con tutti i suoi angoloidi uguali. I poligoni regolari che posso considerare sono triangoli equilateri, quadrati, pentagoni, esagoni, eptagoni, ottagoni, ecc.

Se voglio cominciare a costruirlo devo subito osservare che mi servono almeno tre facce (poligoni regolari) per cominciare a costruire un primo angoloide, con due sole facce non è possibile farlo. Devo poi proseguire ad agganciare progressivamente altre facce uguali facendo in modo che si formino sempre angoloidi uguali fino ad ottenere una figura chiusa e convessa. Di quante facce può essere costituito un angoloide? Ovviamente dipende dal poligono regolare scelto. E' facile capire però che in tutti i casi la somma degli angoli delle facce che formano l'angoloide deve essere inferiore ad un angolo giro, altrimenti la figura che ottengo sarebbe piana. Nel caso del numero minimo delle facce, cioè tre, gli angoli che formano l'angoloide devono avere un'ampiezza inferiore a 120 gradi (360:3). Poiché stiamo parlando del numero minimo di facce il limite di 120 gradi è il massimo possibile. Quindi i poligoni regolari con cui posso costruire un angoloide sono tutti e soli quelli che hanno angoli inferiori a 120 gradi: triangoli equilateri, quadrati, pentagoni. Gli esagoni raggiungono l'ampiezza di 120 gradi e tutti gli altri la superano.

Questa osservazione è cruciale perché costituisce un vincolo molto stringente. Ora, rispettando questo vincolo, posso cominciare a costruire i miei solidi platonici.

Se considero per cominciare il triangolo equilatero posso permettermi di costruire un angoloide di tre, quattro e cinque facce. Non posso andare oltre poiché nel caso di sei o più facce la somma degli angoli sarebbe pari o superiore all'angolo giro. Con tre facce ottengo un angoloide che forma automaticamente dalla parte opposta un quarto triangolo equilatero, costruendo così un tetraedro  (solido a quattro facce). Con quattro facce posso costruire immediatamente una piramide a base quadrata. Questa ovviamente non è un solido platonico, ma se ne costruisco due identiche e faccio combaciare la loro base quadrata (che a quel punto diventa un elemento interno) ottengo un ottaedro (solido a otto facce). Devo solo avere l'accortezza di fare in modo che la piramide quadrata abbia l'altezza pari alla metà della sua diagonale, in tal modo mi assicuro tutti gli angoloidi uguali (tutti angoli retti tra gli spigoli opposti di ciascun angoloide). Infine con cinque facce ottengo una base pentagonale, e se mi sposto su uno dei cinque vertici di questa base mi accorgo subito che posso considerarlo il punto di partenza per costruire un altro angoloide uguale finendo di circondarlo con altri tre triangoli equilateri, e così via ottenendo alla fine una figura chiusa. D'altra parte è anche il ragionamento costruttivo che si poteva fare per il tetraedro e per l'ottaedro. Ho costruito così un icosaedro (solido a venti facce).

Considero adesso il quadrato. Non ci sono molte possibilità, posso solo costruire un angoloide con tre facce, perché quattro sarebbe l'equivalente di un angolo giro. Ma l'unico modo di mettere insieme in un angoloide tre facce di un quadrato in modo non complanare è quello di fargli formare angoli retti, che poi posso chiudere solamente con un angoloide opposto, ovviamente identico. Si forma così un esaedro (solido a sei facce) detto anche cubo.

In ultimo mi rimane il pentagono. Ovviamente anche in questo caso l'unica possibilità è quella di costruire un angoloide con sole tre facce. Più difficile da immaginare, ma anche in questo caso i lati che rimangono liberi consentono di proseguire agganciando altri pentagoni e formando altri angoloidi identici. In particolare si può anche facilmente immaginare un "fiore" di pentagoni (uno al centro e cinque petali ai lati) che si incastra perfettamente con un secondo "fiore" opposto al primo. Viene fuori un dodecaedro (solido a 12 facce).

Immaginando intuitivamente la procedura costruttiva di questi cinque solidi è anche facile convincersi che non se ne possano costruire altri. Un numero di pentagoni, o di quadrati, o di triangoli equilateri che partendo dallo stesso angoloide si incastrino per formare solidi con un numero diverso di facce da quelle appena dedotte pare effettivamente impossibile.

Questi cinque bellissimi solidi, oltre ad avere un numero molto elevato di simmetrie (l'origine della loro bellezza), hanno una relazione tra loro particolarmente interessante. In geometria, il poliedro duale di un poliedro P è un altro poliedro Q , tale che ad ogni vertice di P corrisponde una ed una sola faccia di Q . In altre parole, lo si ottiene scambiando i ruoli dei vertici e delle facce di P. Il duale di Q  è di nuovo P. Dal punto di vista costruttivo preso un solido platonico si determinano i centri delle sue facce e si fanno coincidere con i vertici del solido platonico che costituisce il suo duale. In tal modo si vede molto facilmente che il duale di un esaedro (cubo) è un ottaedro (e viceversa), e il duale di un dodecaedro è un icosaedro (e viceversa). Il tetraedro è autoduale.


domenica 5 settembre 2021

Qual è la mia parte in tutto ciò?

Un po' di tempo fa ho visto un docufilm sulla guerra civile in Siria, Alla mia piccola Sama, una "presa diretta" degli eventi di guerra fatta nella città di Aleppo in un lasso di tempo di alcuni anni da una giornalista che nel frattempo diventa mamma di una bambina (Sama). I bambini e la loro innocenza sono quasi sempre al centro della tragedia raccontata.

Documenti di questo genere provocano una "interruzione emotiva" in chi li guarda, nel senso che lo costringono ad immergersi in una realtà che è allo stesso tempo molto lontana e molto vicina, racconta di un mondo di macerie lontane dagli scenari della nostra quotidianità in cui però dentro vivono, anzi sopravvivono, persone come noi, umanamente vicine. E poi tutto è così vicino a noi, nello spazio e nel tempo, da lasciarci emotivamente disturbati.

Certe realtà drammatiche del mondo si possono percepire attraverso le notizie dei media ed elaborare razionalmente, anzi, la riflessione razionale è certamente la più idonea per una comprensione dei problemi. Però credo che il coinvolgimento emotivo del racconto in prima persona, in questo caso anche documentato da immagini, sia un altro importante fattore di comprensione che aiuta parecchio e a cui, anche se a volte con riluttanza, non ci dovremmo sottrarre. E' quasi un impegno del cittadino del mondo.

Noi come siamo messi rispetto a tutta questa sofferenza umana? Che ci abbiamo a che fare? In che modo? Trovo al contempo inevitabili e fastidiosi questi interrogativi, tanto è vero che molto probabilmente una buona parte di noi sceglie comprensibilmente di non farseli. Si sente un misto di impotenza e ipocrisia. Forse la riflessione razionale a cui accennavo prima, e di cui in certi casi sentiamo la necessità, è l'unico strumento per placare l'animo.

Sono però domande destinate a rimanere sempre un po' appese e sempre più o meno presenti, probabilmente per tutta la nostra esistenza. Risvegliate ogni tanto da qualche fatto, come quello di vedere un docufilm del genere.


lunedì 30 agosto 2021

Una questione di valori

In genere se ho un problema di salute penso che prima o poi dovrò andare a consultare un medico. Lo faccio anche se sono perfettamente consapevole che può sbagliare nel fare la diagnosi. Di storie che raccontano di medici che sbagliano se ne sentono tante. D'altra parte gli errori che può fare un medico sono gli stessi che può fare un qualunque tecnico quando deve capire come funziona il dispositivo che ha davanti e che tipo di problema può avere. E' chiaro che lavorare su un corpo umano è una responsabilità ben più grossa ma, parliamoci chiaro, il lavoro è quello.

Decido di ricorrere al parere di un medico anche se ormai si possono ottenere informazioni e interpretazioni sui propri sintomi quante se ne vuole. Si può raccogliere tutto quello che si legge e trarne le conseguenze da soli, almeno fino a che non è necessaria una prescrizione medica, che riduce il medico ad un burocrate che firma ricette.

Perchè continuo a consultare un medico e a porre la mia fiducia sulla sua opinione per quanto ci sia un normale rischio che sia sbagliata? Lo faccio perchè penso che lo studio sia un valore, solo per questo. Di fronte ad argomenti complessi è necessario perdere molto tempo a riflettere, esercitarsi, tornare più volte sugli stessi aspetti, assimilare nel tempo tutto quello che serve della disciplina. Solo questo ti garantisce una buona capacità di raccogliere informazioni, metterle assieme e costruire un quadro della situazione su cui prendere delle decisioni. Che possono anche risultare sbagliate, ma con una probabilità minima. Certamente molto più piccola di quella di un'analoga decisione presa da chi questo percorso lento di conoscenza non l'ha fatto.

Da cosa mi viene questo valore? Ricordo fin da piccolo il rispetto/timore per il medico che veniva in casa a visitarmi. Era indubbiamente una sensazione trasmessa dalla famiglia, la cui ignoranza totale sulla medicina (e su tante altre cose) induceva evidentemente una grande forma di rispetto per chi aveva avuto la possibilità di costruire quelle conoscenze. In seguito ho avuto anche io la possibilità di studiare cose complesse, che tuttora conservo come una parte importante della mia esperienza culturale. E per questo motivo ho avuto anche la possibilità di misurare spesso l'ignoranza degli altri, da cui il valore della propria cultura costruita con lo studio certamente si rafforza.

Perchè molta gente mostra di non avere questo valore? 


martedì 24 agosto 2021

La ricerca 'contro'

Ci sono delle espressioni che per quanto innocue denunciano secondo me una certa carenza di cultura scientifica, al solito. Non che non sia opportuno usarle e che non se ne capisca il senso, ma nelle loro pieghe rivelano elementi significativi. Una di queste, usatissima, è "la ricerca contro il cancro" (ne esiste una simile per ciascuna malattia grave), dove ovviamente si intende "la ricerca scientifica contro il cancro". Non so se l'omissione del termine "scientifica" migliori o peggiori la situazione. Il vocabolo che suona male è "contro". Se si parla di ricerca scientifica vedo difficile che questa possa essere pensata contro qualcosa, in particolare contro l'oggetto che deve cercare di capire. Trasformare la ricerca scientifica nella metafora di una battaglia epica contro un nemico non le rende ragione, anzi, deforma i significati sia del soggetto che dell'oggetto. Il cancro non è un nemico dell'uomo, è semplicemente un aspetto intimo della sua natura di essere vivente. Forse sarebbe bene sottolineare che la prima causa nota del cancro è il caso. Sotto questa luce l'espressione "sconfiggere il cancro", come se fosse qualche entità che ce l'ha con noi, benché efficacie dal punto di vista letterario, mi sembra impropria dal punto di vista scientifico. Anche perché dà alla scienza un obiettivo specifico che, come si sa, non è il modo migliore per farla avanzare. E anche sul piano filosofico, sebbene mi renda conto che questa cosa sia discutibile, non mi piace molto l'immagine che restituisce del rapporto tra l'uomo e la natura.

Ce ne sono di espressioni da cui fa capolino un modo più o meno sbagliato di collocare (o meglio, non-collocare) la scienza nella cultura, ogni tanto se ne sente una. Recentemente stavo seguendo un'intervista ad un noto attore di teatro, il quale con una certa enfasi diceva: "la scienza è importantissima ..." (sgrana gli occhi) "... però la scienza senza cultura ..." (storce la bocca). Quindi la scienza di per sé non sarebbe cultura? Forse gli scienziati non avrebbero neppure l'onere di questo problema. Starebbe a qualcun altro, a qualche altro tipo di riflessione, portare la scienza all'interno della cultura umana. Chissà che diavolo di retropensiero c'è dietro. Il punto forse è sempre lo stesso, la percezione della scienza come di un'attività a sé stante, un fatto tecnico estremamente complesso e inavvicinabile, e per questo isolato. Il ruolo culturale dello scienziato è quello di spiegarci "tecnicamente" come funziona il mondo (ce lo spiega ma tanto poi non lo capiamo) oppure quello di presentarci delle soluzioni pratiche uscite fuori da chissà dove, ad esempio un farmaco che sconfigge il cancro. In quest'ultimo caso stiamo in realtà parlando di tecnologia, ma il legame tra innovazione tecnologica e ricerca scientifica rimane del tutto oscuro. Così come il loro intimo legame con la storia culturale dell'umanità. E' un aspetto preoccupante, secondo me, io almeno lo percepisco come tale. Che succederà di una cosa che diventa sempre più essenziale nel determinare la vita dell'uomo e sempre meno presente nella cultura e nei valori del cittadino medio?


domenica 15 agosto 2021

Gino Strada

Appena si è saputa la notizia della morte di Gino Strada (il fondatore di Emergency) i social si sono riempiti di commemorazioni. I toni erano tutti di celebrazione di un uomo straordinario, cioè fuori dall'ordinario. Tutti positivi. Ero curioso di trovare qualche commento più critico, sempre salutare al dibattito, ma non ne ho trovati. Magari tra un po'.

Quello che mi è venuto spontaneo pensare è che forse molti di noi hanno un certo bisogno di celebrare persone del genere, per motivi forse diversi. Evidentemente ci stanno troppe cose che non vanno nel nostro vivere sociale, cose che subiamo perchè non sappiamo cambiarle o che sfruttiamo perchè non ci conviene cambiarle, e quando qualcuno ce le mette davanti e ci fa vedere che qualcosa di concreto si può fare non ci resta che celebrarlo come eroe. Per molti e' un misto di esaltazione, per quello che si potrebbe fare, e di frustrazione, per quello che non sappiamo e non possiamo fare. Per molti altri è retorica che ci giustifica. Si celebra uno fuori dall'ordinario anche per giustificare il nostro rimanere nell'ordinario. Per tutti gli altri è indifferenza.

Ma non vorrei essere troppo cinico. La cosa più importante e certamente positiva è che una persona del genere dà da pensare un po' a tutti. A parte gli indifferenti, che sono sempre i peggiori, ognuno deve risolvere in qualche modo il problema dell'esistenza di un Gino Strada nella nostra società.

Un altro aspetto che mi ha colpito è venuto fuori da una delle tante sue frasi riportate in giro in questi giorni. Oltre a quella famosa sui diritti ("I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi"), o a quella altrettanto famosa sulla guerra ("Non sono un pacifista, sono contro la guerra"), ne gira un'altra, riportata dall'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR) che dice: "Dio? Non ne sento alcun bisogno. Penso che il significato delle cose stia nelle cose stesse, non al di fuori o al di sopra". Non è che io sia particolarmente interessato al fatto che Gino Strada fosse credente o meno, quello che però trovo molto significativo è che il suo forte messaggio etico (in quanto riguarda il comportamento dell'uomo sull'uomo) sia fuori dalla fede in una qualsivoglia entità sovrannaturale. La possibilità di un'etica senza fede è essa stessa una grande testimonianza.


martedì 27 luglio 2021

Distribuzione di ricchezze e di uomini

Il problema della distribuzione delle ricchezze è in qualche misura collegato alla distribuzione delle persone sul suolo terrestre. L'attuale concentrazione delle ricchezze ha chiaramente una caratterizzazione geografica. La mappa mondiale dei servizi di accesso alla rete Internet ne è un esempio. La Terra è divisa in territori e società ricche contro territori e società povere. Per di più storicamente, e anche attualmente, lo sfruttamento dei primi sui secondi ha costituito e costituisce il motore principale che alimenta questo squilibrio.

La situazione in cui ci troviamo sta generando due conseguenze macroscopiche diverse: la prima è un progressivo calo demografico mondiale concentrato nelle società ricche. In genere questo calo si tende a correlarlo con il grado di istruzione diffuso, l'emancipazione femminile, la diffusione dei contraccettivi, le capacità di scelta raggiunte dai singoli individui (in particolare dalle donne). Questo fenomeno è ulteriormente aggravato in tutti quei paesi che non hanno sviluppato adeguate infrastrutture di sostegno alla famiglia, come succede per l'Italia. Le conseguenze sono un progressivo invecchiamento della popolazione, una diminuzione di leve produttive, difficoltà nel sostenere i sistemi pensionistici, ecc.

La seconda conseguenza è un complesso fenomeno di flussi migratori dai territori poveri a quelli ricchi. L'irreversibilità di questo fenomeno è ben evidente, così come l'impossibilità di ridurlo drasticamente in tempi brevi. Molti territori poveri sono ormai teatri di guerre, guerriglie, scorribande di terroristi, governati da oligarchie che tolgono alla popolazione quelle poche ricchezze disponibili. La gravità di queste situazioni, sebbene se ne ignorino forse molti dettagli, si intuiscono nell'osservare le condizioni particolarmente rischiose (per noi inconcepibili) a cui si espongono moltissimi migranti per poter uscire dal loro inferno. Assistiamo a scene drammatiche che parlano da sole, e ci raccontano la gravità della situazione.

Ma tralasciando tutta l'ipocrisia dello slogan "aiutiamoli a casa loro" (senza mai aprire un vero dibattito su come farlo, senza mai ammettere che fino a che non si interrompe la logica di sfruttamento che questo problema lo ha generato non si può certo pensare di risolvere alcunchè, senza poi valutare l'impatto sulle nostre società ricche che l'interruzione di questa logica di sfruttamento determinerebbe) è possibile pensare ad una qualche "compensazione" di questi due fenomeni inarrestabili? E' un pensiero così scemo? Certamente sarebbe molto difficile gestire questa compensazione, soprattutto perchè una condizione necessaria sarebbe quella di vedere il problema a livello internazionale, di tutta la società occidentale ricca (almeno a livello dell'Europa). Ma esiste una soluzione diversa? 

domenica 18 luglio 2021

Somme di numeri e riporti

Uno dei primi algoritmi che si imparano a scuola è quello della somma di due numeri. Poichè ai miei tempi esistevano già le calcolatrici tascabili queste operazioni fatte e ripetute tante volte sul quaderno potevano risultare inutili, sia a noi studenti che ai genitori che ci seguivano. Ricordo benissimo le critiche che i genitori si permettevano di fare agli insegnanti circa la loro insistenza nel farci fare questi esercizi, ritenuti appunto inutili. In particolare la polemica si innescava quando questi algoritmi di calcolo si complicavano, ad esempio quando si arrivava alle divisioni con un dividendo a più cifre. Qui infatti scattava il senso protettivo dei genitori verso i propri figli.

Queste critiche mi sono sempre sembrate (anche allora) del tutto infondate, perché basate sulla solita osservazione insensata che "i ragazzi devono studiare le cose utili", trascurando del tutto di analizzare con un minimo di intelligenza il senso del termine "utilità". D'altra parte però da un certo punto in poi ho cominciato a pensare che quegli esercizi un po' noiosi potevano essere già in quel momento associati in modo istruttivo al concetto di algoritmo e alla sua realizzazione pratica, così importante e così "utile" al giorno d'oggi. Forse a quell'età è un po' presto per analizzare a fondo un concetto del genere, ma è certamente possibile trovare almeno il modo di metterlo in evidenza. E vista la sua natura così importante e sfuggente al tempo stesso, credo sia utile farlo emergere il prima possibile. Gli algoritmi nel nostro mondo sono onnipresenti ma invisibili, si rischia di non afferrarne mai l'importanza, anche nell'età adulta. Una lacuna culturale di una certa gravità.

Ad esempio ci si può aiutare a fare le somme cercando di tradurre l'algoritmo in una qualche procedura meccanica che lo esegua automaticamente, con il nostro intervento ridotto al minimo. In fondo la storia dell'informatica può essere raccontata così (in estrema sintesi). Il primo oggetto che viene in mente è l'abaco. La sua funzione principale è quella di trasformare il calcolo in un semplice spostamento di palline e la sua efficacia si poggia essenzialmente sull'uso del sistema di numerazione posizionale. Con opportuno allenamento e pratica quotidiana l'uso di questo strumento rende le operazioni sui numeri relativamente veloci. E' il motivo per cui nella storia è sopravvissuto tanto (anche perché per molto tempo non c'è stato niente di meglio a disposizione).

Ma l'abaco ha un problema che ne rende complicato l'utilizzo, si deve tener conto dei riporti. E' esattamente lo stesso problema principale che si incontra nell'algoritmo "carta e penna" che viene insegnato a scuola. Ed è il problema che si cerca di risolvere attraverso l'uso concatenato di ingranaggi nelle macchine calcolatrici introdotte dalla prima metà del seicento in poi, di cui la famosa "pascalina" ne è il prototipo. Un collegamento meccanico tra le ruote numerate fa sì che la completa rivoluzione di una ruota provochi l'avanzamento di una unità da parte di quella immediatamente alla sua sinistra, automatizzando quindi il riporto. In tal modo l'unica cosa che deve fare l'utilizzatore è impostare gli addendi della somma e affidare l'esecuzione del conto al meccanismo.

Dalle calcolatrici meccaniche ad oggi di miglioramenti ne sono stati fatti, soprattutto sul lato dell'interfaccia uomo-macchina, cioè della facilità dell'utente di impostare la somma, e ovviamente nella velocità e affidabilità dell'operazione eseguita dal dispositivo di calcolo, ad oggi realizzato con componenti elettronici a stato solido. Tra la pascalina e il computer c'è tutta la conoscenza della struttura della materia sviluppata principalmente nel ventesimo secolo. Ma anche nel caso dei dispositivi moderni rimane ovviamente il problema della gestione del riporto, basta guardare la realizzazione di una somma binaria, composta da una funzione XOR (e dal circuito logico corrispondente) e completata in parallelo da una funzione AND (e anch'essa dal circuito logico corrispondente) che calcola appunto il riporto dell'operazione.

In qualche momento della nostra istruzione secondo me sarebbe utile comunicare con argomentazioni ed esempi che non solo la somma è concettualmente un'operazione importante ma lo è anche la sua realizzazione pratica, l'algoritmo che ne descrive la procedura di calcolo (il software) e il dispositivo fisico che la esegue (l'hardware).

domenica 4 luglio 2021

Preferisco il gatto

Il cosiddetto amore per gli animali non può essere un sentimento universale su cui costruire una mentalità ecologista. Così come non può esserlo l'amore per l'umanità (per tutti gli uomini). In generale è proprio il sentimento di amore a non avere mai un carattere di universalità. L'amore è un sentimento che si rivolge a degli individui specifici, persone o animali che siano, non ha molta importanza . Si amano alcune persone, non l'umanità. Si amano alcuni animali, non tutti gli animali. Chiunque nutre sentimenti di amore per una ristrettissima cerchia di individui con cui condivide una parte della sua esistenza.

Un sentimento che trovo ben più universale e utile alla società è quello del rispetto per qualunque individuo e in generale per qualunque forma di vita (in varia misura e con ovvie priorità). Un sentimento ben più concreto e ben più ecologista, che ha un senso, anche se declinato necessariamente in modi diversi, sia per l'individuo (della tua stessa specie o di specie diversa) che ti vive accanto, sia per l'individuo mai incontrato o che non avrai mai la possibilità di incontrare, con cui non avrai mai la possibilità di convivere, ma semplicemente di coabitare.

Il cane e il gatto sono i due più importanti animali domestici che convivono con l'uomo. Entrambi sono individui che possono essere amati. In fin dei conti non ce ne sono molti di più che possano essere amati in senso proprio dall'uomo. A parte qualche eccezione (effettivamente ce ne sono) è solo con loro che il livello stretto di convivenza consente di poter far parlare di un rapporto affettivo vero e proprio. Tra i due però credo che il rapporto con il gatto educhi di più al senso del rispetto, e per questo lo preferisco. L'indipendenza del felino, il suo mai del tutto sopito istinto di predatore, il suo bisogno di trovare sempre spazi personali, sottraggono al "padrone" (è anche più difficile usare questo termine con i gatti) quel rapporto di potere (appunto di tipo padrone-gregario) che si nota spesso con i cani, basta pensare al guinzaglio. E' forse una conseguenza della storia evolutiva del nostro rapporto con il cane, costruito nei millenni per avere un fedele compagno di lavoro. La mia sensazione è che il rapporto con il gatto sia più caratterizzato dal bisogno di rispettarlo e meno di possederlo e gestirlo in tutti i suoi comportamenti. E' basato un po' di più sull'accettazione dell'imprevedibilità dei suoi comportamenti.

Il discorso ha dei limiti precisi, vista la necessità quasi obbligata di castrarlo al fine di confinarlo nel suo spettro dei comportamenti che farebbero certo parte della sua natura ma che risulterebbero troppo poco controllabili.

Tanti anni fa abbiamo avuto in famiglia un gatto. Ricordo proprio questo senso di coabitazione e di rispetto reciproco. Conviveva con noi facendo più o meno cio' che voleva, si allontanava e tornava più o meno quando voleva, seguendo i suoi istinti. Non era castrato e visse con noi ben poco. Probabilmente pagò questa sua indipendenza. Era libero.

NOTA: Che poi il cane in un certo senso è un animale in pensione. Per migliaia di anni ci ha aiutati nella pastorizia, nella caccia, nella difesa delle nostre proprietà, ma adesso tutto questo non ci serve più e il cane si è trasformato sostanzialmente in un animale da compagnia pur rimanendo con quegli istinti che noi abbiamo per tanto tempo utilizzato e contribuito a sviluppare. Ora ci ritroviamo con animali che hanno bisogno a buon diritto di esercitare questi istinti che non solo ci sono inutili ma che spesso ci risultano pure un po' scomodi, ci provocano una serie di possibili disagi e piccole difficoltà (muoversi e correre su ampi spazi, forte territorialità, aggressività innata verso estranei, ecc.), tanto è vero che è nata l'esigenza, almeno per alcuni di essi, di essere "educati" da specialisti. Poi per il resto (come d'altra parte i gatti) sono diventati anche loro dei forti consumatori della nostra sempre più ampia offerta di merci. Dei target di mercato, come noi.

venerdì 25 giugno 2021

Frullatore per aziende e lavoratori

Un amico al telefono mi parla delle aziende americane (lavora da anni per una di esse) e della loro logica serrata di profitto. In genere, se sono in fase espansiva possono ancora far star bene i loro dipendenti (nel senso di creare attorno a loro un ambiente di lavoro sano, o comunque ben accettato dal lavoratore), o semplicemente dare questa illusione che magari si concretizza veramente per la maggior parte di loro. Ma se hanno superato questa fase, come inevitabilmente prima o poi succede, e devono far fronte all'aggressività dei competitors, cominciano a promuovere politiche industriali di efficienza, che consistono solitamente nell'acquisire nuovi assets strategici da una parte e fare spin-off dall'altra, acconpagnando sia le une che le altre con una ridefinizione e ricalibrazione delle risorse, che si traduce nel tagliare tutti i costi per quanto possibile. E i lavoratori non sono più così contenti, quelli che sopravvivono. Sono sempre e solo gli azionisti quelli che devono essere sempre contenti, sia prima che dopo. Il problema è che quando termina o cala la fase espansiva, in cui si sono fatti forti investimenti in tutte le direzioni, assunzioni e ricerca di nuove risorse in tutti i settori dell'organizzazione, ci si ritrova nel "frullatore" del mercato in cui poi tocca sopravvivere.

Chiusa la conversazione con l'amico mi viene da pensare che questa parabola di un'azienda è simile a quella di un suo lavoratore. Aggressività, desiderio di carriera e voglia di arricchirsi sono i valori vincenti in un ambiene di lavoro competitivo, quello costruito dall'azienda per ottenere il massimo della produttività. E sono anche quelli che permettono una prima fase di "espansione" personale, affermazione, carriera e soldi. Ma così facendo si entra inesorabilmente nel "frullatore", un meccanismo che pretende da te sempre di più e che da un certo punto in poi ti mette in diretta competizione con chi ha vent'anni meno di te e ben altre energie e motivazioni. E da un certo punto in poi devi cercare di sopravvivere, imparando a parare i colpi che arrivano da tutte le parti (questo non è Shakespeare, è sempre il mio amico).

 

martedì 15 giugno 2021

Unici, irripetibili e privilegiati

Già da molto tempo la biologia ci ha insegnato che i processi evolutivi vecchi di miliardi di anni hanno creato una biosfera di immensa complessità, dove la variabilità che si può ottenere è così grande che ogni essere vivente su questa terra può essere considerato unico e irripetibile.

Ma a noi esseri umani questo non basta, non può bastare. Noi vogliamo essere anche privilegiati. E questo privilegio, che in teoria dovrebbe interessare tutta l'umanità, in realtà riusciamo a pensarlo solo per una umanità molto ristretta. E più i media ci fanno vedere la complessità del mondo, più noi ne pensiamo uno piccolo di riferimento. Vogliamo salvare il salvabile, e vogliamo cercare di giustificarlo.

Se per caso sventiamo la morte abbiamo bisogno di pensare che qualcuno ci abbia protetto, abbia guidato il nostro destino e ci abbia salvati. Il pensiero che potrebbe essere stato casuale è insopportabile. Il pensiero che con altrettanta probabilità sarebbe potuto andare diversamente ci restituisce un'idea inaccettabile della nostra esistenza.

La nostra vita deve avere un valore di per sé, un valore oggettivo, indipendente da noi, un valore esterno (ed eterno, possibilmente), che discende non si sa bene da dove ma è importante che ci sia. Questo valore ci protegge, altrimenti l'universo è troppo grande e troppo freddo.

Questa cosa ci fa bene, ci toglie dal nostro cuore un po' di responsabilità, ma ci lascia nelle nostre mani un pugno di ipocrisia, quella che serve per mascherare qualche imbarazzo. Ci giriamo e schiacciamo un insetto che ci infastidisce (e questo valore assoluto della vita? Dov'è il suo confine? Dove si ferma?). I media ci raccontano ogni giorno di persone che per caso sono andate incontro alla morte invece che sventarla. Per tante diverse ragioni, tantissime. Ma il valore della loro vita? Perchè noi siamo stati protetti e loro no? C'è qualche ragione imperscrutabile che ci ha difeso? Siamo privilegiati? Ce lo siamo meritato? (quanto ci piacerebbe pensarlo!).

Ci succederà di nuovo?

In genere da questo punto in poi si parla di mistero.


martedì 27 aprile 2021

La scienza non sai da che parte prenderla

L'opinione comune sembra essere che la scienza sia una disciplina piena di questioni astruse, complicate, inavvicinabili. E poco interessanti. Questo perchè quando te ne vorresti interessare non sai come prenderla. Se la prendi dalla fine del discorso, dalle conclusioni, che sono spesso affascinanti o perlomeno intriganti, non ci capisci niente. Se invece la prendi dall'inizio non ti interessa più, tutta roba troppo semplice, che non si capisce dove vuole arrivare. D'altra parte la scienza fa proprio questo, esamina razionalmente problemi semplici, e questa è la sua forza intellettuale. Se voglio avere la speranza di trovare un buon punto di partenza questo deve essere ragionevolmente semplice, analizzabile in tutte le sua parti.

Osservare fenomeni già semplici e ragionare addirittura su loro semplificazioni è però molto spesso una cosa priva di fascino, che non sembra poter portare a nessun risultato importante. E' certamente più bello e più gratificante affrontare grandi problemi, soddisfa di più l'istinto di conquista del mondo che tutti certamente abbiamo, specialmente in giovane età. Salvo poi il rischio di girare a vuoto su un sacco di argomenti inconsistenti che fanno da contorno alla nostra vita.

Qualche volta mi metto nei panni degli accademici di inizio seicento, colleghi di Galileo. Professori abituati a ragionare sui grandi temi della filosofia aristotelica costretti a confrontarsi con uno di loro che invece guardava i pendoli e faceva rotolare palline su piani inclinati! A molti di loro dovrebbe esser risultato un buffo personaggio. Secondo me non c'era solo la convinzione che sul movimento era già stato detto tutto, ma pure il fatto che analizzare questa roba non sembrava poi così interessante, non avrebbe portato a niente di importante e al contrario avrebbe sviato dai temi veramente fondamentali della filosofia. Vallo a pensare che proprio un'analisi critica del moto sarebbe stata di li a poco l'elemento essenziale per cambiare radicalmente la nostra concezione del mondo....

Il guaio (se così si vuol dire) è che l'analisi critica di problemi semplici, o semplificati fino al punto di poterli trattare, arriva quasi sempre a spiegazioni controintuitive, quindi difficili da digerire. Proprio come è successo con l'analisi del moto. Spesso è più facile impararle e basta, senza troppo ragionarci. Come succede a scuola. Il bello arriva dopo, quando dopo tanto ragionare la scienza costruisce un quadro del mondo naturale vasto e affascinante, in grado di offrire chiavi concettuali potentissime per poterlo prevedere e manipolare. Ma ormai è troppo tardi, non ci si capisce più niente, devi stare appeso al labbro di chi ci capisce e ascoltare i suoi racconti, spesso incomprensibili. La scienza è importante, lo sanno tutti, ma è anche oscura, e alla fine non è interessante.

domenica 18 aprile 2021

Entropia e cubo di Rubik

Supponiamo di avere un cubo di Rubik risolto. Comincio a ruotare le sue facce in maniera casuale, ovvero faccio evolvere il sistema spontaneamente; un agente non intelligente (io) lo fa evolvere a caso, cioè basandosi unicamente su meccanismi che rispettano i vincoli imposti dal sistema ma che sono del tutto casuali. Ovviamente perdo subito la configurazione a facce tutte uguali e in qualsiasi momento mi fermi nell'evoluzione, a parte un breve periodo iniziale transitorio, osservo un aspetto generale del sistema, aspetto che potremmo definire macroscopico in quanto non si cura dei dettagli particolari giudicati ininfluenti, che mi appare in sostanza sempre uguale (sto appunto trascurando particolari della configurazione di dettaglio, o microscopici, che non considero importanti).

E' possibile continuando a far evolvere il sistema riottenere la configurazione iniziale del cubo risolto? Ovviamente si, in quanto si tratta di una delle tante configurazioni possibili tecnicamente raggiungibile (il cubo si può sempre risolvere, come si sa). E' ragionevole aspettarsi di risolvere il cubo in questo modo? Ovviamente no, perchè la probabilità di ottenere la configurazione che lo risolve, che è unica nell'insieme (enorme) delle configurazioni possibili, è estremamente bassa. Questa bassissima probabilità non è però nulla, e si traduce nella necessità di avere tempi di evoluzione lunghissimi per poter sperare di riottenere la configurazione della soluzione, che comunque aspettando un tempo "ragionevolmente lungo" potrebbe effettivamente riapparire.

Da questo tempo di evoluzione "insopportabilmente lungo" si origina il concetto di irreversibilità del fenomeno. All'atto pratico riesco "spontanemante" ad allontanarmi dalla configurazione di soluzione del cubo, ma non riesco a tornarci altrettanto spontaneamente. La sua evoluzione spontanea (rotazioni casuali applicate alle facce del cubo) è dunque per me un fenomeno irreversibile, che è poi la cosa che rende divertente questo rompicapo.

E' interessante però osservare che la dinamica del sistema (sequenza di rotazioni delle sue facce, non è possibile fare altro) è perfettamente reversibile. Posso infatti segnarmi la sequenza esatta delle rotazioni che applico, non ha importanza quante, e tornare al punto di partenza riapplicandole in senso contrario. Cioè le leggi della dinamica del cubo di Rubik sono reversibili.

Da notare che lo stesso identico discorso e la stessa identica improbabilità si ha per qualunque configurazione del cubo, anch'essa ovviamente unica. Il punto è che noi cerchiamo una configurazione particolare, quella che risolve il cubo. Il fenomeno della irreversibilità nell'evoluzione del cubo di Rubik emerge dal fatto che per noi le configurazioni non sono tutte uguali benchè di fatto siano tutte equiprobabili. Per noi di fatto il sistema ha solo due configurazioni (macroscopiche): cubo risolto e cubo non risolto. Ma se le configurazioni sono N (con N molto grande) ci ritroviamo che la configurazione del cubo risolto ha una probabilità pari a 1/N mentre la configurazione del cubo non risolto ha una probabilità pari a (N-1)/N. Se N è molto grande la prima probabilità (quella che ci interessa) è praticamente nulla mentre la seconda è praticamente 1. Dal punto di vista dei tempi possiamo dire che il sistema starà per moltissimo tempo (quasi sempre) nello spazio delle configurazioni del cubo non risolto, anche se in qualche momento potrebbe pure passare per la configurazione del cubo risolto, aspettando pazientemente. Quanto pazientemente? Tutto dipende dal valore di N.

NOTA: l'evoluzione che ho descritto è casuale ma non è deterministica, per farla tale potrebbe essere definita da una serie di mosse ripetute con periodicità, ma allora l'evoluzione stessa sarebbe periodica (con periodo più o meno lungo), oppure potrebbe essere mappata in qualche modo con i decimali di un numero irrazionale non periodico (come ad esempio il pi-greco). Ci si potrebbe chiedere quando è che una sequenza di numeri prodotta con una qualche regola, e quindi deterministica, risulta indistinguibile da una sequenza casuale ... 


lunedì 12 aprile 2021

Religiosità vs Credenza

A volte leggo che Einstein potrebbe essere considerato un credente per via delle sue numerose frasi in cui cita Dio, in un modo o nell'altro. A parte che se fossero vere tutte le citazioni che girano attribuite a lui non avrebbe avuto il tempo per le cose più intelligenti che ha fatto. Comunque risulta abbastanza evidente che Einstein spesso con quelle frasi esprimeva in modo per così dire letterario delle idee ben precise (vedi ad esempio il famoso "Dio non gioca a dadi") che facevano parte del dibattito scientifico-filosofico dell'epoca. Ma la cosa interessante è un'altra.

Leggendo la sua biografia si può dire che Einstein probabilmente avesse una sua religiosità, un suo istinto religioso, che traspare abbastanza evidente in alcuni suoi scritti. Questo però non è poi così strano. L'istinto religioso in fondo è tipico di tutti noi, di tutti gli esseri umani. Il punto non è la religiosità, il punto è la credenza. Sono due cose ben diverse, non vanno confuse, nè inconsapevolmente nè tanto meno consapevolmente (e colpevolmente). La credenza è di fatto la veste dogmatica della nostra religiosità, è una risposta. La religiosità (o l'istinto religioso, o il sentimento religioso) è invece un'esigenza, uno stato d'animo naturale per noi, che ci caratterizza come specie. Direi anche che può essere un motore della conoscenza, almeno nei casi più felici, come forse nel caso di Einstein.

Tra le frasi attribuite ad Einstein che girano scelgo questa (anche se non so se sia autentica), perchè in un certo senso dice in sintesi quello che vorrei dire in questo post: "Sono un non credente profondamente religioso" (Albert Einstein).


domenica 4 aprile 2021

Il problema del calcolo della Pasqua

"Quando viene la Pasqua quest'anno?". Una domanda che si fa tutti gli anni, perchè la data dell'anno in cui si festeggia la Pasqua cristiana non è fissata sul nostro calendario. Il motivo è che la logica con cui viene calcolata si discosta da quella utilizzata per la costruzione del calendario in uso nella nostra civiltà. Sicuramente rientra sempre in un periodo che coincide con quello dei primi mesi primaverili, ma spesso non si sa neanche quale sia questo periodo con precisione. E' per questo motivo che mi appunto queste considerazioni che potranno farmi fare bella figura alla prossima occasione.

La regola per la determinazione della data di Pasqua è la seguente: "è la prima domenica successiva alla prima luna piena che cade dal 21 marzo in poi". Sarebbe "che cade dal momento dell'equinozio di primavera" ma quest'ultimo oscilla anno per anno e il riferimento diventa quindi convenzionale (21 marzo). In tal modo si ottengono i termini pasquali. La Pasqua più bassa possibile è quella del 22 marzo, che si verifica quando il plenilunio è il 21 e per di più è sabato. La più alta è quella del 25 aprile, che si ha quando il plenilunio cade il 18 aprile di domenica. In tutto 35 giorni.

La cosa potrebbe concludersi qui, ma ci sono almeno due curiosità secondo me interessanti da discutere, che tra l'altro risultano essere in parte collegate tra loro. La prima riguarda semplicemente la domanda "perché questa regola?". Ovviamente la risposta va cercata nelle sacre scritture, sia quelle legate alla tradizione ebraica che quelle evangeliche. Infatti la festa più antica è quella della Pasqua ebraica (Pesach), legata alla liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù dell'Egitto. C'entra con la Pasqua cristiana per un fatto molto semplice. I vangeli sinottici indicano chiaramente che l'ultima cena fu il pasto rituale pasquale di Gesù e dei suoi discepoli. La cattura avvenne quella stessa notte e il processo, la condanna a morte e la sua esecuzione il giorno dopo, ovvero lo stesso della Pasqua ebraica. Il terzo giorno avvenne la resurrezione. La Pasqua cristiana festeggia quest'ultimo evento, che rappresenta la liberazione del popolo cristiano dalla schiavitù della vita terrena per mezzo della resurrezione.

Il punto è dunque che le due date sono strettamente legate tra loro. Quando viene celebrata la Pasqua ebraica? La Pasqua ebraica viene celebrata dalla sera del quattordicesimo giorno del mese di Nissan, che ha inizio con la prima luna nuova di primavera, secondo quanto prescrive l'antico testamento. "Il Signore disse a Mosè ... Il primo mese, al decimoquarto giorno, al tramonto del sole, sarà la Pasqua del Signore" (Lev 23, 1 e 5). Il primo mese era quello che iniziava con la luna nuova immediatamente precedente l'equinozio di primavera; probabilmente, ma non sono riuscito a verificarlo con sicurezza, il quattordicesimo giorno di Nissan del mese luni-solare ebraico cade sempre dopo il 21 marzo.

Dunque le indicazioni risultano precise. La Pasqua cristiana si può calcolare da quella ebraica contando tre giorni, includendo quello della morte di Gesù. Anche in questo caso le indicazioni sono precise. Tutti e quattro i vangeli sono d'accordo sul fatto che la resurrezione avvenne il giorno dopo il shabbath, cioè il sabato, terzo giorno dopo la crocifissione. "Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato vennero al sepolcro ..." (Mt 28,1; Ms 16,2; Lc 24,1; Gv 20,1). Da queste fonti, concordi e peraltro sacre, discende la regola del calcolo definita in precedenza.

La seconda curiosità è un po' più complessa e riguarda la necessità di poter calcolare facilmente la data della Pasqua per qualsiasi anno del calendario, passato e futuro. Sembra che questa esigenza sia nata soprattutto per svincolarsi dall'autorità della Pasqua ebraica e dalla Sinagoga che ne determinava la data anno per anno. Il problema era anche quello di tradurre in una data del calendario solare (quello giuliano) quella che invece era una data stabilita nel calendario luni-solare ebraico. Non c'è nessuna regola generale di calcolo che lo consenta. Le comunità cristiane volevano probabilmente svincolarsi anche dall'osservazione astronomica, troppo difficile da sincronizzare sulle vaste aree geografiche in cui si stava diffondendo il cristianesimo. C'era anche il difficile problema di individuare l'inizio della primavera, la civiltà romana non aveva un'importante tradizione astronomica come quella greca ellenistica. Occorreva quindi escogitare regole sicure, di facile applicazione anche per chi fosse a digiuno di astronomia, per determinare anno per anno la data della pasqua cristiana (addirittura molti monaci dei monasteri cristiani riuscivano a fare questo calcolo a mente, aiutandosi con le dita delle mani e con la memorizzazione di versi latini). L'adozione di una regola, di un "canone", appariva anche più adatta alla sacralità della celebrazione.

Nell'ambito del calendario giuliano la soluzione trovata era piuttosto semplice ed elegante. Si basava sul ciclo diciannovennale, detto anche ciclo di Metone, una conoscenza ellenistica che stabiliva che un ciclo di 19 anni giuliani equivalgono a 235 lunazioni, con uno sfasamento di un'ora e mezza scarsa in 19 anni. In tal modo, stabilito un anno iniziale, ogni anno entro un medesimo ciclo diciannovennale può essere individuato con un numero progressivo da 1 a 19 detto numero d'oro. Il ciclo diciannovennale era formato da 12 anni di 12 mesi più 7 anni di 13 mesi, alternati tra loro, e la lunghezza dei mesi era opportunamente alternata fra 29 e 30 giorni (vedi NOTA 1 in fondo).

Nel calendario giuliano ogni 19 anni i pleniluni si ripetono alle stesse date. Basta sapere il numero d'oro dell'anno, cioè il suo numero rispetto al ciclo diciannovennale, per conoscere automaticamente il suo plenilunio pasquale. Si hanno 19 possibili serie di date di plenilunio e quindi 19 possibili pleniluni pasquali. In realtà il calcolo consentiva la determinazione della luna nuova, a cui però basta aggiungere 14 giorni per trovare la luna piena, secondo quanto dice la frase del Levitico riportata prima.

Rimane però il problema di determinare la posizione sul calendario della domenica successiva al plenilunio. Questo è stato risolto con l'introduzione della lettera domenicale. Assegnando al primo giorno dell'anno la lettera A, al secondo la B e così via fino alla G (settimo giorno) si dice lettera domenicale quella che rimane abbinata alla domenica. A seconda del giorno della settimana con cui un anno comincia si avrà una lettera domenicale diversa che stabilirà la data di tutte le domeniche dell'anno. Nel calendario giuliano la successione delle lettere domenicali si ripete secondo un ciclo di 28 anni. Infatti l'anno è fatto di 52 settimane e un giorno. Ogni anno c'è lo slittamento di un giorno e se c'è l'anno bisestile lo slittamento è di due giorni. Se non esistesse l'anno bisestile lo stesso giorno settimanale cadrebbe alle stesse date ogni 7 anni. Con la presenza dell'anno bisestile il periodo sale a 28 anni, il minimo comune multiplo tra 7 (periodo settimanale) e 4 (periodo bisestile). Da notare infine che nel calendario giuliano esiste un periodo in cui le date di Pasqua si ripetono nello stesso ordine, questo periodo di ripetizione è il minimo comune multiplo di 19 (ciclo diciannovennale) con 28 (lettera domenicale), 19x28=532 anni.

Questo metodo riesce a tradurre un'informazione di tempo ricavata dai cicli lunari in una data, non sempre la stessa ma calcolabile, di un calendario solare. Il punto però è che fino a questo momento (e fino al 1582) si è utilizzato il calendario giuliano. Per la chiesa ortodossa la storia finisce qui, a tutt'oggi è in uso il calendario giuliano e infatti c'è una certa differenza di date tra la Pasqua ortodossa e quella cristiana. Per l'occidente la cosa si complica dopo Gregorio XIII e la sua riforma del calendario. La motivazione di questa riforma era importante poichè aggiustava le regole in modo da far restare l'equinozio a cavallo del 21 marzo, compensando il fenomeno della "precessione degli equinozi"; ma se nel calendario giuliano bastavano il numero d'oro e la lettera domenicale a determinare la Pasqua, con il calendario gregoriano non bastavano più, e veniva meno il ciclo pasquale di 532 anni.

Le correzioni introdotte dal nuovo calendario, non le uniche ma quelle che scombinavano il calcolo della Pasqua così come era stato formulato prima e utilizzato per svariati secoli, erano due. La prima viene detta equazione solare, che consiste nell'omissione di 3 bisestili ogni 400 anni (rimangono bisestili gli anni secolari il cui numero è divisibile per 400). Questa correzione mantiene l'equinozio fisso intorno al 21 marzo. La seconda viene detta equazione lunare, e corregge un'imperfezione del ciclo diciannovennale. Essendo questo ciclo leggermente imperfetto si stabilì di aumentare di un giorno l'età della luna ad intervalli di 300 e 400 anni. Si toglie un giorno ogni 300 anni per 7 volte ed un'ottavo dopo 400 anni, per poi ricominciare il ciclo (8 giorni in 2500 anni). Quindi si introducono due correzioni, una al ciclo solare e una al ciclo lunare, che ricorrono periodicamente. Ogni correzione ha l'effetto di modificare la corrispondenza tra ciclo lunare e ciclo solare, ovvero di "sfasare" il ciclo diciannovennale. Il calcolo della Pasqua andava modificato tenendo conto di questo.

Per risolvere il problema venne introdotto il concetto di epatta. L'epatta di un dato anno è l'età della luna, espressa in giorni interi, al primo gennaio. Le epatte possibili nel calendario giuliano sono 19. Nel calendario gregoriano ad ogni equazione solare o lunare la serie delle 19 epatte cambia diminuendo o aumentando di un'unità; perciò le epatte possibili su tempi lunghissimi sono tutt'e trenta, che si presentano in serie di 19, ciascuna serie restando valida fra un'equazione e l'altra. L'epatta, ovviamente, determina la data della luna piena pasquale.

L'intervallo di tempo compreso tra due consecutive equazioni solari o lunari che introducono uno sfasamento rispettivamente nella sequenza delle date o delle lunazioni è detto epoca calendariale. Un'epoca è quindi l'intervallo di tempo entro cui è valida una delle 30 serie di epatte (la durata di un'epoca varia dai 100 ai 300 anni). Nell'ambito di un'epoca tutto si svolge come nel calendario giuliano: i pleniluni si verificano in 19 diverse date e solo in queste. Ovviamente le date possibili per la Pasqua sono di più perchè una medesima data di plenilunio si può combinare con le sette diverse lettere domenicali.

Riepilogando il procedimento per determinare la Pasqua gregoriana di un dato anno (M) si riassume nei punti seguenti:

1. Si determina a quale epoca l'anno appartiene (per questo si deve consultare una opportuna tabella).
2. L'epoca fornisce la serie delle 19 epatte in vigore.
3. Si calcola il numero d'oro (M+1)/19 per determinare quale epatta considerare tra le 19.
4. Considerando l'alternanza convenzionale dei mesi "pieni" (30 gg) e "cavi" (29 gg) si ottengono tutte le date dei noviluni dell'anno.
5. Il plenilunio è il quattordicesimo giorno della lunazione; il plenilunio che ci interessa è quello che segue il 21 marzo.
6. La Pasqua cade nella prima domenica successiva alla data del plenilunio e per individuarla si ricorre alla lettera domenicale.

Mi rendo conto solo adesso che non potrò fare una bella figura la prossima volta che si discuterà della prossima data di Pasqua perchè non ho alcuna possibilità di ricordare quello che ho appena scritto.

NOTA 1: in questi calcoli non si considera mai la durata astronomica della lunazione ma sempre una sua approssimazione in numeri interi, alternando numeri poco superiori alla lunazione vera con numeri poco inferiori in modo che su tempi lunghi sia rispettata la durata reale come durata media; questa luna non coincidente con la luna "vera" viene detta luna del computo.

NOTA 2: nel calendario gregoriano il periodo delle 35 date pasquali, che nel giuliano era di 532 anni, sale a 5 milioni e 700 mila anni. Si può anche calcolare la distribuzione di queste 35 date in questo periodo da cui si ricava che la data più frequente è il 19 aprile (la mia data di nascita).

NOTA 3: Il matematico Friedrich Gauss agli inizi del XIX secolo ha proposto una formula generale diretta per il calcolo della Pasqua, che però fa uso anche di una tabella e di alcune eccezioni sulla formula stessa.


domenica 28 marzo 2021

Epicicli e Deferenti, l'analisi di Fourier ante litteram

Non avevo mai pensato al fatto che la teoria utilizzata da Tolomeo (e ideata molto tempo prima da Apollonio di Perga) per descrivere i movimenti degli erranti, concepita come una sovrapposizione di Epicicli e Deferenti, sia sostanzialmente una descrizione del moto che fa uso del teorema di Fourier e quindi della sua capacità di approssimare quanto si vuole qualunque moto periodico. Tecnicamente una bella pensata (sebbene il teorema di Fourier sia stato enunciato e dimostrato molto tempo dopo) ma dal punto di vista scientifico è semplicemente un ottimo trucco per far tornare le cose, per quanto complicate esse si presentino.

Il sistema geocentrico ha il problema di descrivere e dare un senso al moto un po' bizzarro dei pianeti (gli erranti, appunto). Questi seguono sulla sfera celeste una traiettoria che li porta periodicamente ad invertire il senso di marcia (moto retrogado), al contrario di sole e luna che invece procedono sempre nella stessa direzione. Per ottenere questo comportamento si pensò di concepire il loro moto come la combinazione di due moti distinti, quello di un punto sul cerchio principale che si muove sulla sfera celeste, detto deferente, e quello effettivo del pianeta su un cerchio secondario che ruota attorno al primo punto, detto epiciclo. In altre parole il pianeta si muove sull'epiciclo e il centro dell'epiciclo si muove sul deferente. Il moto risultante dal sistema Epiciclo-Deferente approssima abbastanza bene il moto osservato del pianeta.

Se questo meccanismo non descriveva in modo troppo accurato la traiettoria effettiva del pianeta si poteva provare ad aggiungere un altro epiciclo, e poi ancora un altro, e così via. Il moltiplicarsi di epicicli rendeva il modello sempre più complicato ma riusciva a migliorare l'approssimazione del moto realmente osservato.

Il metodo descritto però non è altro che l'equivalente della capacità di approssimare una qualunque funzione periodica del tempo tramite una opportuna somma di funzioni sinusoidali. Questa capacità è stata dimostrata in generale da Joseph Fourier (1768-1830) nei primi anni dell'ottocento e costituisce un risultato importantissimo e largamente utilizzato in molti settori della scienza e della tecnologia. Le proiezioni sulla sfera celeste del moto del pianeta sugli epicicli non sono altro che le funzioni sinusoidali approssimanti. Peraltro la serie di Fourier è rapidamente convergente, significa che si riesce ad ottenere in genere una buona approssimazione con pochi termini.

Probabilmente quello che soddisfaceva all'epoca in questa descrizione era, oltre ovviamente la sua capacità di approssimare bene i moti osservati, l'uso sistematico del cerchio (o della sfera) come  metafora della perfezione celeste, in un movimento che nel suo complesso di perfezione geometrica ne aveva ben poca. Immagino però che si siano resi conto che il metodo poteva arrivare a giustificare qualsiasi moto, anche senza avere una solida conoscenza matematica alle spalle. Certamente dal punto di vista scientifico il suo peggior difetto era quello di essere solo una buona descrizione cinematica senza una vera interpretazione fisica (meccanica) del moto.

Forse è anche per questo che la pubblicazione dell'opera di Copernico (1543) sotto certi punti di vista non cambiava molto le cose. Ovvero, nell'ottica di formulare artifici matematici per descrivere il moto degli oggetti del cielo, quello di cambiare drasticamente il modello pensando al centro il Sole anzichè la Terra poteva essere presentato e considerato come un'ipotesi di calcolo. Dalla sua parte il nuovo modello aveva solamente (ma significativamente) una maggiore semplicità. Sono state le sue integrazioni con le osservazioni successive e la fisica sviluppata più di cinquant'anni dopo a dare una forza decisiva al modello eliocentrico, e a scatenare parallelamente l'ostilità della Chiesa Cattolica per le sue implicazioni filosofiche.

Chi si è impegnato all'epoca a studiare e a perfezionare il modello degli epicicli e deferenti avrebbe forse dovuto abbandonare la pretesa di dare una descrizione significativa del moto dei pianeti e concentrarsi invece sulla tecnica matematica che stava utilizzando, rivelatasi molto tempo dopo di gran lunga più importante per gli sviluppi della scienza. Si, ok, si fa presto a parlare ....