venerdì 30 dicembre 2011

Lorenz e il problema della predizione

Uno dei contributi più importanti dati da Newton alla cultura moderna è stato quello di mostrare concretamente tutta la potenza di un'indagine razionale sul mondo, che porta ad individuare una serie di principi generali e da questi ricavare schemi di calcolo deduttivi con i quali possiamo fare previsioni molto accurate. Naturalmente il contributo non è solo di Newton ma certamente con lui le capacità previsionali dell'Uomo su alcuni aspetti della Natura hanno per la prima volta fatto un balzo in avanti decisamente spettacolare. I principi sono pochi e relativamente semplici (le leggi della meccanica e la legge di gravitazione universale), gli schemi di calcolo certamente più complessi ma in buona parte affrontabili se applicati ad esempio al moto dei pianeti, i risultati sono quelli che si possono constatare utilizzando un qualunque software tra i tanti attualmente disponibili in grado di dirci ad esempio in che punto del cielo sarà la luna tra una settimana o tra un anno.

Come sempre succede nella scienza quando un approccio o un'idea funzionano in un qualche ambito si cerca di riutilizzarli ovunque sia possibile, ma ovviamente il successo non è mai garantito apriori. Semplicemente si prova e si vede come va, potrà sembrare pure banale ma la scienza alla fine funziona così. La dinamica dell'atmosfera terrestre, il cui studio porta alla questione delle previsioni del tempo, è uno di quegli ambiti in cui l'approccio descritto sopra fatica a funzionare, e per un motivo piuttosto semplice da capire: le variabili che servono per descrivere il sistema e la sua evoluzione (i suoi "gradi di libertà") sono in numero incredibilmente grande, e questo porta a delle complessità di calcolo insormontabili. Non è l'unica difficoltà, forse neanche la più interessante, ma è certamente la prima che si incontra.

E' chiaro che non ha senso continuare a sbattere in un vicolo cieco e l'abilità di uno scienziato sta anche nella capacità di inventarsi strade alternative, facendo leva su osservazioni e conoscenze di natura diversa. Ad esempio si può partire da qualcosa di più "alla buona", di più euristico, magari perchè è più facile da trattare. Purchè la cosa risulti funzionante in un qualche ambito ed entro qualche approssimazione ragionevole.

Questo è quello che voleva fare Lorenz in un suo lavoro degli anni sessanta. Non sto parlando di Hendrik Lorentz (1853 - 1928), quello delle trasformazioni di coordinate utilizzate da Einstein nella sua Teoria della Relatività Ristretta, bensì di Edward Lorenz (1917 - 2008), il metereologo pioniere della teoria del caos deterministico. Il problema che poneva era formulato in modo molto semplice: data una successione temporale di N vettori di stato determinare (prevedere) il vettore di stato N+1 senza utilizzare la regola di evoluzione, magari perchè non la si conosce o non la si sa usare nei conti (le difficoltà di cui abbiamo appena parlato). In altre parole si vuole cercare di prevedere il tempo di domani conoscendo semplicemente il tempo nei vari giorni precedenti. Per vettore di stato si intende tutti i valori delle variabili termodinamiche dell'atmosfera a disposizione in un dato momento, misurate dalle varie stazioni metereologiche funzionanti in un dato territorio. La soluzione pensata, detta "degli analoghi", poteva sembrare forse troppo semplice ma aveva il merito di poter essere utilizzata e verificata. Si trattava di andare a trovare tra tutti i vettori di stato a disposizione un vettore J il più possibile identico al vettore N. La previsione sarà quella di porre il vettore N+1 uguale al vettore J+1. Se nel passato c'è stata una situazione metereologica identica a quella che ho adesso la previsione che faccio è quella di avere un'evoluzione successiva identica a quella che si è già verificata!

Lorenz non era uno sprovveduto, sapeva che la soluzione doveva essere almeno in linea di principio praticabile, poichè aveva alle spalle un risultato teorico generale della dinamica chiamato "Teorema di Ricorrenza di Poincarè" o "Teorema del Ritorno". Secondo questo teorema l'evoluzione del nostro sistema, rappresentato sperimentalmente dalla successione dei vettori di stato, ha la caratteristica (se lo spazio in cui avviene è limitato) di "tornare" vicino quanto si vuole ad un qualsiasi vettore di stato preso come riferimento, purchè si attenda un tempo sufficiente. Questo significa proprio che se scelgo come riferimento il vettore di stato attuale andando indietro nel passato (la sua evoluzione all'indietro) troverò certamente un altro vettore di stato simile quanto voglio, basta andare indietro nel tempo quanto basta.

Il metodo però si rivelò impraticabile, soprattutto perchè contrariamente a quanto garantiva il teorema di ricorrenza era molto difficile trovare nei dati del passato dei vettori di stato sufficientemente simili a quello attuale. Perchè il metodo nella pratica non funzionava?

Quando si vuole utilizzare un teorema a fini pratici occorre sempre fare attenzione a cosa dice effettivamente. In questo caso il teorema assicura il "ritorno" della traiettoria vicino quanto si vuole ad una certa condizione di partenza ma non dice nulla sul tempo che occorre affinchè questo si verifichi. La stima di questo tempo si trova in un risultato collegato al teorema di Poincarè dovuto al matematico polacco Mark Kac (si pronuncia caz, :-)). Tale risultato è noto come "Lemma di Kac", pubblicato nel 1957. Se consideriamo un intorno grande a piacere del punto di partenza, da cui la traiettoria uscirà in conseguenza della sua evoluzione, il tempo necessario per ottenere uno stato futuro del sistema di nuovo compreso nell'intorno scelto è inversamente proporzionale alla percentuale del volume occupato dall'intorno rispetto al volume totale concesso al sistema.

La prima ovvia deduzione che si può fare è che se così stanno le cose più si vuole essere precisi nella previsione secondo il metodo di Lorenz più il tempo di ricorrenza è lungo, cioè più devo risalire indietro nel tempo per trovare uno stato sufficientemente simile a quello attuale. Ma in realtà la cosa peggiore è un'altra: in questa stima le dimensioni del sistema, cioè il numero dei suoi gradi di libertà, giocano un ruolo disastroso. Se ho un quadrato di lato 10 e l'intorno del mio punto è un quadratino di lato 1, il loro rapporto è 1/100, e il tempo di ricorrenza stimato è 100. Se però aggiungo una dimensione ho un cubo di lato 10, l'intorno del mio punto è un cubettino di lato 1 (voglio mantenere la stessa precisione), il loro rapporto diventa 1/1000 e il tempo di ricorrenza stimato diventa 1000. Le dimensioni dello spazio in cui evolve il sistema metereologico che interessava Lorenz sono di fatto tantissime in quanto dipendono dal numero di componenti del vettore di stato, cioè da tutti i valori termodinamici misurati nei vari punti di una certa regione geografica (e più sono e meglio è). Se la dimensione è molto grande il tempo di ricorrenza diventa subito molto grande, anche per valori dell'intorno non troppo piccoli. Purtroppo come è facile capire la dimensione è un parametro caratteristico del sistema, su cui non possiamo fare niente. Siamo tornati al punto di partenza, il metodo di previsione di Lorenz fallisce.

Come si sa Lorenz cambiò di nuovo strategia, si inventò un sistema dinamico semplice, matematicamente trattabile, ottenuto con varie approssimazioni, e con esso fece scoperte decisamente interessanti ...

domenica 25 dicembre 2011

Cold reading

Qualche giorno fa gli insegnanti di mio figlio (terza elementare) notificano a noi genitori un problema in classe. Hanno osservato comportamenti di carattere discriminatorio, alcuni legati all'etnia (bambini di origine non italiana o mista, chiaramente visibile), un altro legato all'origine ebrea. Le insegnanti sembravano dare molto peso a questi episodi e ci tenevano ad informarne i genitori. Credo che dietro ci fosse anche un messaggio del tipo: "cosa raccontate ai vostri figli?".

Onestamente mi rimane molto difficile pensare che i genitori della classe di mio figlio, per quanto non li conosca bene tutti, trasferiscano consapevolmente comportamenti discriminatori ai propri figli. Ma siccome oggettivamente questi comportamenti si sono manifestati, e in modo certamente molto spontaneo, la questione assume un certo interesse.

Nell'ipotesi ovvia che questi bambini non abbiano subito un vero e proprio indottrinamento su questi temi (una cosa del genere non la posso proprio pensare, da parte di nessun genitore tra tutti quelli che conosco) l'episodio mostra due aspetti: che gli atteggiamenti discriminatori hanno una radice istintiva molto forte, e che la cultura (perchè di un aspetto culturale si tratta, e anche importante) ha canali di comunicazione potenti che con la razionalità hanno ben poco a che fare e che spesso sono del tutto inconsapevoli ai soggetti che se la comunicano.

Il primo aspetto ha una spiegazione credo abbastanza ovvia, la paura del diverso è strettamente legata alla sopravvivenza dell'individuo, saper cogliere le diversità e diffidarne è una cosa che riesce immediata a tutti. Sapersi identificare nel proprio gruppo e riconoscerne immediatamente gli elementi caratterizzanti è fondamentale. Questo aspetto comunque non basterebbe a spiegare i comportamenti osservati dalle insegnanti (ad esempio per un bambino è ben difficile distinguere un ebreo e chiamarlo tale se non lo si è "imparato" in qualche modo).

Il secondo aspetto è certamente più affascinante. Credo che quell'insegnamento ricevuto dai bambini sia stato (o comunque potrebbe benissimo essere stato) interamente inconsapevole da parte di tutti quegli adulti che in varia misura vi hanno contribuito. E forse proprio per questo l'insegnamento può risultare estremamente potente, probabilmente più di un qualunque tentativo di correggerlo successivamente sul piano razionale, specialmente se al piano razionale si affianca (anche qui inconsapevolmente ma molto efficacemente) una certa dose di ipocrisia, come purtroppo può succedere.

Questo modo inconsapevole di comunicare, fatto spesso di elementi sfuggenti, non strutturati, non verbali, apparentemente del tutto secondari, incontra menti giovani non mature ma altamente ricettive. Mi ricorda molto la cosiddetta tecnica del cold reading, quella utilizzata dai presunti medium per dimostrare di sapere molte cose su un individuo mai visto prima (da Wikipedia: "Without prior knowledge of a person, a practiced cold reader can still quickly obtain a great deal of information about the subject by analyzing the person's body language, age, clothing or fashion, hairstyle, gender, sexual orientation, religion, race or ethnicity, level of education, manner of speech, place of origin, etc."). Spesso si legge che queste tecniche non solo sfruttano il soggetto inconsapevole di comunicare cose che non vorrebbe comunicare ma che addirittura sono applicate inconsapevolmente dal medium, che è convinto dei suoi poteri sovrannaturali.

Se così stanno le cose molti aspetti culturali significativi passano per buona parte attraverso questo tipo di comunicazione, spontanea (perchè inconsapevole), immediata, efficacie. L'educazione non è tanto il risultato di "tecniche educative" (che credo abbiano alla fine sempre effetti trascurabili), quanto un fatto "ambientale".

L'altro giorno hanno rappresentato il "Don Giovanni" di Mozart al Teatro alla Scala di Milano e io sono andato a leggere alcune vecchie cose scritte da Massimo Mila su quest'opera. Una sua frase si incastra perfettamente con queste mie considerazioni e le trasporta addirittura sul piano dell'arte: "Il Don Giovanni mozartiano è la più monumentale e formidabile prova della natura inconsapevole dell'espressione artistica: quel fenomeno per cui l'artista altro crede di dire, e davvero lo dice, con il significato usuale delle parole e dei segni, ma altro dice poi, senza avvedersene, con il potere espressivo dell'arte, nel quale si manifesta la sua personalità profonda, inconsapevole di se stessa, sciolta dal controllo logico della volontà".

giovedì 8 dicembre 2011

Pensioni e lavoro

Solo questa mattina sento alla radio un commento di un ascoltatore che pone il problema che mi pongo anche io riguardo alla riforma delle pensioni. Si tratta per me di una paura, per l'ascoltatore di un fatto concreto.

Tanto per riassumere: l'inps è la voce di spesa pubblica di gran lunga più pesante per lo Stato, un modo per farla pesare di meno è quello di aumentare l'età pensionabile (progressivamente o meno, dipende dall'urgenza del provvedimento, purtroppo); questo anche in relazione all'aumento dell'età media della popolazione, cioè all'aumento del numero di anni di godibilità della pensione e quindi del peso sulla spesa pubblica, e in conformità a quanto sta succedendo o è già successo più o meno in tutta Europa.

L'ascoltatore di questa mattina è in una situazione che io ho la sensazione che potrà essere sempre più frequente nel prossimo futuro. E' stato un dirigente di un azienda che un paio di anni fa lo ha licenziato (con due anni di stipendio) a causa della crisi, o meglio usando a pretesto la crisi per "svecchiare" il personale. Questo signore si trova oggi su un mercato del lavoro che non lo fa lavorare perchè lo ritiene troppo "anziano" per essere pienamente produttivo e con uno Stato che siccome lo ritiene ancora troppo "giovane" gli sposta la pensione cinque anni più in là del previsto.

Un mio amico, dirigente in una multinazionale, fa un discorso del genere ormai da un po'. E' convinto che la sua società non lo farà arrivare alla pensione perchè non si vuole tenere i sessantenni in azienda. Io non mi trovo nella stessa situazione in quanto non sono dirigente ma il problema mi sembra più generale. Ho già visto non-dirigenti trattati più o meno allo stesso modo (anzi, certamente peggio, sul versante contrattuale) sempre con lo spettro della crisi dell'azienda. La capacità di mandar via un non-dirigente è ovviamente molto minore, ma alla fine si fa anche quello, in un modo o nell'altro.

Il problema vero dunque, oltre alla crisi di sviluppo, è il mercato del lavoro, almeno in Italia. Io sono sicuro che se perdo il lavoro (magari per la chiusura definitiva della mia azienda, o attraverso una drastica riduzione del personale per far fronte alle perdite, ipotesi costantemente dietro l'angolo per molte piccole aziende) non avrò grandi possibilità, nella situazione attuale, di trovarne un altro, intendo di trovarne un altro con un regolare (e sacrosanto) contratto a tempo indeterminato, con annessi e connessi, e con la ragionevole garanzia di uno stipendio decente. Questo genera un senso di malessere e di impotenza che penso di condividere ormai con una larga fascia di lavoratori. E siamo ancora quelli che hanno un lavoro, dunque la "generazione fortunata".

giovedì 1 dicembre 2011

Paul Motian, batterista

Ieri mattina sento alla radio la notizia della recente morte di Paul Motian. Non è un musicista che conosco molto, sebbene sia famosissimo e abbia suonato al fianco dei più grandi musicisti jazz e con le più grandi formazioni per oltre cinquant'anni di carriera. Mi viene però subito in mente un brano che molti anni fa mi aveva particolarmente colpito. Si tratta di "Israel", una registrazione del 1961, con Bill Evans al piano e Scott LaFaro al basso, oggi reperibile su YouTube.

La cosa che mi colpiva e mi colpisce tuttora risentendolo dopo tanto tempo è la grande capacità di dialogo che ha Motian con Evans, pur non facendo cose particolarmente complesse (non è richiesto in un pezzo del genere). Nei vari anni in cui ho maldestramente cercato di suonare la batteria in un laboratorio jazzistico di musica d'assieme credo di aver più o meno inconsciamente tenuto questo pezzo (e vari altri pezzi del genere) a modello.

Accompagnare un solista significa nè più nè meno che "cercare di capire cosa sta dicendo", e dialogare con lui, usando analogie, imitazioni, contrasti. E forse il termine accompagnamento non è adeguato, neppure quando si parla di batteria. Il grande pezzo di jazz si costruisce tutto attraverso questo "gioco" tra i musicisti, che sottindende necessariamente l'improvvisazione, anzi, nasce proprio da questa. In questo senso il batterista è un "player" come gli altri. Non un forzato del 4/4, ma un musicista, come Paul Motian.

martedì 1 novembre 2011

Neutrini superluminali

Il 23 settembre di quest'anno viene annunciato un risultato sperimentale molto particolare nell'ambito del progetto denominato OPERA (Oscillation Project with Emulsion-tRacking Apparatus), una collaborazione tra il CERN di Ginevra e i Laboratori Nazionali del Gran Sasso. Si tratta di una misura di velocità eseguita su un fascio di neutrini, prodotto al CERN da SPS (Super Proton Synchrotron) e focalizzato verso il rivelatore di OPERA, a circa 730 chilometri di distanza. La particolarità del risultato consiste nel fatto che il tempo di volo misurato è inferiore a quello che ci si aspetterebbe da un fascio di luce che percorra la medesima distanza nel vuoto. I dati dell'esperimento sono di per sè impressionanti, come tutti quelli che riguardano la fisica delle particelle elementari: l'anticipo misurato rispetto ai fotoni è di 60 nanosecondi, ben al di sopra dell'errore sperimentale di misura dichiarato dagli sperimentatori che è di circa un nanosecondo.

C'è un comprensibile scetticismo in merito a questo risultato. Al momento ci sono critiche sia sul piano sperimentale che su quello teorico. Le prime puntano soprattutto su possibili errori nella misura del tempo di volo, dovuto alla difficoltà di stabilire una perfetta sincronizzazione tra gli orologi del CERN e dei Laboratori del Gran Sasso (ci potrebbero essere effetti di relatività generale non presi correttamente in considerazione). Le critiche teoriche più importanti sembrano invece quelle portate da Cohen e Glashow, i quali sostengono che gran parte dei neutrini superluminali dovrebbero perdere energia in maniera consistente per un'intensa emissione di coppie elettrone-positrone. Questo non è stato misurato dall'esperimento di OPERA.

La notizia ha fatto scalpore per la sua portata rivoluzionaria ed è uscita rapidamente dal circuito degli addetti ai lavori per approdare più o meno su tutti i giornali. A me personalmente ha ispirato un paio di domande e di relative letture o riletture. In questo post mi limiterò a riportare solo la prima domanda, rimandando la seconda ad un'altra occasione.

Perchè questo risultato, ovvero il fatto che qualcosa (in questo caso i neutrini) superino la velocità della luce mette in crisi totale la relatività di Einstein? E' stato divertente tornare a leggere qualche vecchio testo di fisica, soprattutto perchè in questo caso non si tratta di imbarcarsi nei formalismi della teoria ma di fermarsi semplicemente alle questioni di principio da cui la teoria muove i suoi primi passi.

Ecco i principi da cui discende la teoria della relatività (ristretta):
1. Tutte le leggi della fisica devono essere le stesse in tutti i possibili sistemi di riferimento inerziale.
2. Il valore costante della velocità della luce nel vuoto è una legge fisica.
Il primo punto viene chiamato principio di relatività e ribadisce quanto noto già ai tempi di Galileo. Se si passa da un sistema di riferimento inerziale ad un qualunque altro la forma delle leggi fisiche non cambia. Dal momento che c'è di mezzo una trasformazione di coordinate significa sostenere che tutte le leggi della fisica per essere tali devono poter essere scritte in una forma invariante per trasformazioni di coordinate che fanno passare da un sistema di riferimento inerziale ad un altro. Il vero problema posto dalla relatività di Einstein è: "quali sono queste trasformazioni di coordinate?"
Il secondo punto è un'assunzione coraggiosa di Einstein, supportata da risultati sperimentali, secondo la quale la velocità della luce nel vuoto ha sempre lo stesso valore qualunque sia la velocità relativa della sorgente e dell'osservatore e qualunque sia la regione spaziale e la direzione in cui viene eseguita la misura.

La cosa veramente fondamentale è l'aver riconosciuto che tra il principio di relatività e la legge di propagazione della luce, nonostante le apparenze, non esiste la minima incompatibilità e che attenendosi sistematicamente ad essi si può pervenire ad una teoria logicamente ineccepibile.

Quello che risulta subito chiaro però è che le usuali trasformazioni di coordinate per sistemi di riferimento inerziali utilizzate fino a quel momento dalla meccanica Galileiana e Newtoniana non sono più accettabili e ne vanno formulate di nuove. La domanda che si fa Einstein è la seguente: "in che modo possiamo trovare il tempo e il luogo di un evento rispetto ad un riferimento K' quando ne conosciamo il tempo e il luogo rispetto al riferimento K? Si può pensare di dare una risposta a questa domanda tale che, tenuto conto di questa risposta, la legge di propagazione della luce nel vuoto non contraddica il principio di relatività?" La risposta sono le famose trasformazioni di Lorentz. Queste ci dicono però in modo evidente due cose: 1. l'apparente contraddizione tra velocità della luce assoluta e principio di relatività viene sostituita dalla reale contraddizione tra quest'ultimo e il concetto di tempo assoluto; 2. per come compare in queste trasformazioni di coordinate, il valore della velocità della luce (che assume il significato di costante universale) è un limite superiore, al di sopra del quale le trasformazioni non hanno più senso.

Come se non bastasse gli sviluppi appena successivi della teoria mettono in evidenza una relazione tra massa e velocità, sconosciuta alla meccanica classica, che porta la massa all'infinito in corrispondenza della velocità della luce nel vuoto. Questo non solo rende insensate, all'interno della teoria, le velocità superiori a quelle della luce ma anche solo le velocità pari ad essa per corpi massivi (infatti il fotone, quanto di luce, ha massa nulla).

Alcuni testi formulano in maniera più generale il secondo principio da cui parte la relatività ristretta postulando l'esistenza di una velocità limite di propagazione delle interazioni, mostrando poi che questa velocità è anche la velocità di propagazione della luce nel vuoto, e sottolineandolo come l'elemento cruciale di distinzione con la meccanica classica, la quale presuppone di fatto l'ipotesi che le interazioni si propaghino istantaneamente. I risultati della meccanica classica si ottengono da quelli della meccanica relativistica nel limite di interazioni istantanee.

Dopo questa rinfrescata di teoria il risultato sperimentale che rivela l'esistenza di corpi massivi superluminali appare veramente inconciliabile con la teoria della relatività, e non con un suo qualche aspetto più o meno importante, bensì con i suoi fondamenti.

giovedì 13 ottobre 2011

Dennis M. Ritchie (1941 - 2011)

Una cosa che mi stupisce sempre frequentando persone che si occupano di tecnologie informatiche per motivi di lavoro e non solo, è il constatare spesso una quasi totale mancanza di conoscenze storiche, a volte unita anche ad un certo più o meno ostentato disinteresse. Capisco che l'informatica sia un settore della conoscenza relativamente giovane ma ormai conta un bel numero di eccellenti menti scomparse. Poi la storia è sempre uno strumento utile per costruirsi le prospettive e gli elementi di giudizio nei confronti di una qualsiasi attività umana. E' un aspetto che dà spessore alla disciplina di cui ci si occupa. Quindi non riesco proprio a capire come si possa avere una passione per l'informatica senza coltivare l'interesse per il suo passato.

A dire il vero credo che molti, che pure si definirebbero degli appassionati, non abbiano nemmeno chiaro che l'informatica abbia un passato, o almeno che ne abbia uno che vada al di là dei primi computer casalinghi che hanno invaso le nostre case negli anni ottanta. Ecco, probabilmente la storia dell'informatica per molti coincide con quella dell'elettronica di consumo, nasce con i primi dispositivi che abbiamo potuto comprare in negozio. E continua ad essere così ancora adesso. I commenti spropositati alla morte del co-fondatore della Apple sono un episodio emblematico. I "grandi contributi" all'informatica che vengono riconosciuti a Steve Jobs passano in gran parte per quei tre o quattro bellissimi oggetti elettronici di larghissimo consumo che negli ultimi anni siamo tutti andati a comprare. L'informatica di cui siamo appassionati sta tutta lì, non esiste quasi nient'altro.

Probabilmente tutto ciò è normale, ma una prospettiva così distorta sulla tecnologia, le sue idee e il suo valore culturale mi danno parecchio fastidio. E' come dirsi appassionati di scienza guardando Voyager in TV. O dirsi appassionati di musica ascoltando solo la programmazione "orientata" di qualche radio commerciale.

Oggi ho letto della morte di Dennis Ritchie, padre del sistema operativo Unix e del linguaggio di programmazione C. Premio Turing 1983 e National Medal of Technology 1998. Sarebbe interessante ricostruire la storia del suo lavoro e quello dei suoi colleghi Ken Thompson e Brian Kernighan.

venerdì 7 ottobre 2011

Steve Jobs (1955 - 2011)

Ero in macchina diretto in ufficio, avevo già sentito due o tre volte la notizia della morte di Steve Jobs, grande industriale dell'informatica, fondatore di Apple. Nei giorni successivi, sebbene distrattamente, ascolto e leggo dichiarazioni eccessive su di lui, vedo manifestazioni di pura idolatria. Niente di interessante.

Ma quella mattina in macchina ascoltando la radio mi capita di sentire forse l'unico commento che mi ha veramente colpito, anche se molto breve, fatto da uno di cui non ho sentito il nome, presentato se non ricordo male come un "filosofo della tecnologia". Definisce Jobs in modo sintetico come "uno che ha messo la tecnologia in oggetti riconoscibili esteticamente". Mi stavo proprio domandando, al di là del suo indubbio carisma e del suo talento come imprenditore, cosa avesse fatto di così particolare per riuscire a diffondere in modo così capillare e veloce tutta una serie di dispositivi elettronici di uso personale. Questa mi è sembrata una buona risposta.

Il filosofo allarga il discorso, include Bill Gates e un po' tutta la rivoluzione del personal computing, sfociata appunto in dispositivi sempre più "personal", e conclude osservando che una conseguenza insolita e forse inaspettata di questa rivoluzione è stata quella di indurre una gran massa di persone ad utilizzare nuovamente la scrittura come forma di espressione e di comunicazione. Penso ai miei post su questo blog, ai commenti su facebook, agli ormai quotidiani messaggi di posta elettronica, alle innumerevoli chat, ...

Rimane solo da osservare che questi dispositivi, altamente tecnologici, facili da usare e belli da possedere, sono i dispositivi finali della rete Internet, la vera infrastruttura tecnologica di comunicazione. Che nessun "Grande Uomo" ci ha regalato. Fortunatamente.

mercoledì 7 settembre 2011

"Io alla Storia non ci credo"

Mio figlio quest'anno frequenterà la terza elementare. Mi pare di capire che a partire da adesso lo studio di alcune materie sarà un po' più strutturato ed approfondito. In particolare credo che comincerà ad affrontare in qualche misura lo studio delle civiltà del passato. Come dicono i programmi ministeriali "a partire dal terzo anno della scuola elementare, si avvierà uno studio che progressivamente porti il fanciullo dall'interpretazione della storia del suo ambiente di vita alla storia dell'umanità e, in particolare, alla storia del nostro Paese".

Credo che dal punto di vista didattico la cosa più difficile sia quella di fargli capire la sostanziale differenza tra una storia raccontata e la ricerca storica vera e propria. Eppure mi pare una cosa essenziale, sin da subito, sin da questa età (comunicandola in modo appropriato, ovviamente). Il pericolo è quello di prendere i fatti storici da studiare a scuola negli anni successivi come una serie di raccontini più o meno interessanti, da leggere su un libro, che è quello che ti hanno fatto comprare. Credo che si tratti di un pericolo concreto, con il quale più o meno tutti noi abbiamo fatto i conti.

Devo dire che quello che mio figlio ha fatto a scuola fino a questo momento sembra promettente. Un giorno tra i compiti da svolgere ce ne era uno che lo invitava a ricostruire la storia della sua infanzia (quella di cui non si ha memoria) facendo domande agli adulti e cercando tra i suoi vecchi giocattoli, gli oggetti usati quando era neonato e ovviamente le fotografie e i filmati. L'idea non era niente male e penso puntasse a far capire il concetto di fonte storica, di reperto storico, per ricostruire avvenimenti del passato di cui non abbiamo avuto (o non conserviamo nella memoria) un'esperienza diretta.

Un concetto da trasmettere che mi sembra cruciale è quello dell'estrapolazione degli avvenimenti a partire dalle fonti, quello della ricostruzione storica, e soprattutto di quanto questa cosa possa essere incerta e soggetta a cambiamento. Non è detto che gli antichi egizi fossero proprio così come li racconta il libro che ho davanti, e questo credo sia importante da tener presente. In relazione alle fonti che ho posso fare solo una serie di ipotesi più o meno plausibili. Certamente un bambino impara attraverso racconti ben definiti ma se deve imparare la Storia è necessario che capisca subito che tutto può essere reinterpretato, riletto diversamente. L'essenza della ricerca storica e della storia stessa è questo. Si tratta di una ricostruzione plausibile a partire da fonti, non di un racconto.

Tanto per prendere un argomento di grande fascino per tutti i bambini: i dinosauri erano proprio così come li troviamo descritti nei libri e nei film? Ma sono esistiti veramente? E come facciamo a saperlo? Un bambino tipicamente tende a non distinguere un dinosauro da un drago, o meglio, tende a considerarli reali entrambi. Quello che sospetto è che se non impara a fare delle distinzioni il prima possibile un giorno tenderà a considerarli (magari inconsciamente) entrambi irreali. Eventualmente tenderà a conservare un vago principio di autorità, l'unica cosa che forse gli è stata trasmessa: i dinosauri sono esistiti perchè ho sempre sentito dire così, ma alla fine chissenefrega.

Insomma in questa prima fase dell'educazione è il concetto di Storia che deve essere comunicato, più dello studio della Storia in sè, e anche se c'è sempre l'occasione di maturare in seguito io vedo il pericolo (spero comunque raro) di mancare a questo appuntamento, e da un certo punto in poi di non avere più modo di recuperarlo appieno.

Quando facevo le scuole medie inferiori avevo in classe due ragazze pluribocciate. Una di loro me la ricordo come una ragazza in gamba anche se totalmente aliena all'ambiente scolastico. Un giorno, per giustificare l'ennesima impreparazione, questa volta in Storia, se ne uscì con una frase intelligente, talmente tanto da lasciare "spiazzata" l'insegnante e non in grado di formulare una buona risposta. Talmente tanto da rimanermi stampata nella memoria. Disse semplicemente: "a professorè, io alla storia non ci credo, so' cose inventate, come fanno a sape' che so' successe?".

sabato 3 settembre 2011

Intelligenza Meccanica

Molti anni fa mi capitò per puro divertimento di scrivere un programma che giocava a Master Mind. Mi era riuscito abbastanza bene, ricordo che arrivava alla sequenza nascosta in genere nel giro di due o tre tentativi (che sono poi quelli che normalmente servono). La cosa carina è che poteva giocare con se stesso "senza saperlo", ovvero si generava la sequenza nascosta, tentava di indovinarla "come se non la conoscesse", si dava i punteggi ad ogni tentativo "come se la conoscesse", infine la indovinava, tutto da solo. Non ricordo più come lo realizzai, e ho ormai da tempo perduto sia il codice sorgente che l'eseguibile. Un giorno forse mi divertirò a riscriverlo.

Quello che mi colpiva era che, a differenza di tutti gli altri programmini che facevo sempre per divertimento, questo mi sembrava dotare il computer di una qualche intelligenza. Il Master Mind è un gioco che richiede una certa dose di riflessione e una certa capacità di ragionamento logico e queste sono indubbiamente caratteristiche che classicamente attribuiamo al comportamento intelligente. Il programma, nella versione che prevedeva la sfida con un giocatore umano, era anche in grado di battermi, specialmente se non riflettevo abbastanza sulla formulazione dei tentativi (e se il punto di partenza era a suo favore). La capacità di giocare è una di quelle caratteristiche che da sempre si riescono ad implementare bene in un computer, si pensi al gioco degli scacchi, e che al contempo colpiscono di più, proprio in relazione all'impressione di "comportamento intelligente" che inducono nello spettatore.

Ricordo che alla fine archiviai la questione con una osservazione che più o meno ricalca un classico della critica all'intelligenza artificiale: il mio programma non faceva niente di più di quanto la mia intelligenza gli aveva detto di fare (questo risultava anche autolusinghiero). Effettivamente la caratteristica principale del computer relativamente al gioco era la capacità di eseguire un calcolo che gli era stato "insegnato" con formidabile precisione, una cosa innaturale per un essere intelligente (cioè per noi, in quanto l'unico modello di intelligenza evoluta di cui disponiamo siamo proprio noi stessi). E al contrario, sempre rispetto a ciò che gli era stato "insegnato" non era in grado di aggiungere assolutamente nulla di originale, una cosa altrettanto innaturale per un essere che si possa definire intelligente.

Poi c'era ovviamente la critica al fatto che l'intelligenza nella sua globalità è una cosa molto più complessa di quella che eventulamente poteva esprimere il computer programmato per giocare semplicemente a Master Mind. Ma questa è una di quelle affermazioni generali che hanno il solo scopo di scoraggiare qualunque indagine sull'intelligenza, e che risultano dunque osservazioni sterili. Pensare di ritagliare una qualche attività particolare e verificare se si riesce, solo nell'ambito di quella, a tirar fuori un comportamente intelligente, mi sembra già moltissimo. Il problema nel mio caso era che il gioco del Master Mind è talmente deterministico che non c'è spazio per fare cose in più o cose diverse rispetto a quello che stava facendo il programma. Si trattava di fare solo le cose bene, in modo preciso e senza sbagliare. Questo era richiesto alla macchina. Peraltro la caratteristica del gioco di essere deterministico è anche quella che facilita molto la stesura di un algoritmo e dunque l'implementazione di un programma in un qualche linguaggio.

Forse il punto chiave (o comunque un punto interessante) è proprio "quello che chiedo" alla macchina. Da qui nasce una delle osservazioni più divertenti e al contempo profonde che caratterizzano le molte riflessioni sull'intelligenza artificiale fatte da Alan Turing in alcuni suoi scritti a cavallo tra la fine degli anni quaranta e gli inizi degli anni cinquanta, raccolti in un volume dal titolo "Intelligenza Meccanica". Il punto è che fintantochè chiedo alla macchina di eseguire alla perfezione e senza errori degli algoritmi precostituiti (procedure perfettamente deterministiche) non posso sperare di osservare un comportamento veramente intelligente. Ad esempio si potrebbe prevedere (e tollerare) che la macchina in molte situazioni compia degli errori e faccia nuovi tentativi, perchè forse questo comportamento è essenziale per l'intelligenza molto più di quanto non si pensi. Dice Turing: "E' facile per noi considerare queste sviste [quelle umane] come non rilevanti e dare al ricercatore [all'essere umano] un'altra possibilità, ma alla macchina non viene riservata alcuna pietà. In altre parole, se si aspetta che la macchina sia infallibile, allora essa non può anche essere intelligente".

Un'altra caratteristica del mio computer che giocava a Master Mind, negativa dal punto di vista dell'eventualità di manifestare intelligenza, era il fatto che la macchina aveva "interagito" con l'esterno una sola volta, al momento dell'immissione del programma che le "insegnava" un certo comportamento e la induceva a seguire sempre e solo quello che l'algoritmo prevedeva. Ovviamente nella versione in cui giocava con un avversario il computer riceveva dall'esterno durante il gioco i punteggi delle sequenze "immaginate" ma questo tipo di interazione rimane "all'interno" dell'algoritmo e ne costituisce i dati in input. Anche questo aspetto è stato indagado da Turing, che effettivamente considerava essenziale la possibilità di far interagire la macchina con l'esterno, proprio nel senso di aggiungere istruzioni in memoria, di modificare gli algoritmi già memorizzati (addirittura di farli modificare direttamente dalla macchina stessa). Permettere in qualche misura una "esperienza con il mondo esterno" che consenta di modificare progressivamente i propri algoritmi interni (anche attraverso gli errori, vedi paragrafo precedente) può essere l'equivalente di quello che fa un qualunque cervello biologico. Secondo Turing l'elemento sostanziale non è tanto la struttura fisica di un cervello ma piuttosto i processi che costruiscono il suo comportamento intelligente. Questo giustificava la sua ricerca sui dispositivi elettronico-digitali.

Quando hai davanti una macchina che è in grado di giocare con te ed eventualmente di batterti ti puoi chiedere, anche solo per gioco, se la macchina in qualche modo e in quel particolare momento "stia pensando" (visto che per giocare un uomo ha certamente bisogno di pensare). Se sei in vena (o non lo sei, dipende dai punti di vista) puoi anche tentare di chiederti se in generale le macchine possono pensare. Se lo deve esser chiesto anche Turing, ed è interessante come abbia cercato di evitare la domanda diretta, e forse anch'essa sterile, rimpiazzandola con un gioco: ci sono un uomo, una donna e un terzo soggetto che li interroga; quest'ultimo deve indovinare chi è l'uomo e chi è la donna semplicemente ponendo domande (comunicando con mezzi che non rivelino le identità). Ad un certo punto una delle due persone interrogate viene sostituita da una macchina. La domanda (che rimpiazza quella originale "possono pensare le macchine?") è se la probabilità di indovinare per l'interrogante medio siano significativamente diverse prima e dopo la sostituzione. Questo, presentato da Turing in un suo scritto come "il gioco dell'imitazione" è maggiormente noto come "test di Turing", o meglio così sono note alcune versioni stravolte utilizzate nella letteratura di fantascienza. La caratteristica più interessante è come, attraverso questo gioco, Turing sposti volutamente l'attenzione dalla definizione oggettiva di un essere pensante alla sua percezione da parte dell'uomo che gli sta davanti.

Come ho letto in un saggio su di lui "[Turing] immaginava la macchina [quello che sarà poi il computer] non tanto, o non soltanto, come uno strumento di calcolo, ma come un'opportunità di sperimentare l'intelligenza meccanica" (Teresa Numerico, Macchine non organizzate e simulazione dell'intelligenza nell'opera di Alan Turing, 2004).

sabato 20 agosto 2011

Cifrario perfetto

Come si può facilmente immaginare sono molte le situazioni in cui la comunicazione tra un mittente e un destinatario deve poter essere adeguatamente protetta da possibili intercettazioni di terzi non autorizzati, e questo indipendentemente dalla tecnologia utilizzata per comunicare. Gli esempi attuali sono veramente tanti: Internet, telefonia, paytv, eccetera. La soluzione generale è una sola: l'uso della crittografia. Ovviamente i crittosistemi (o cifrari) utilizzati, sia attualmente che nel passato, sono tantissimi, ognuno con le sue caratteristiche peculiari, e ciò si riflette in una storia della crittografia interessante e a tratti molto affascinante.

Normalmente quando si presenta la crittografia in termini generali si finisce sempre per citare il "cifrario perfetto", chiamato stringa monouso (in inglese one time pad) o cifrario di Vernam, dal matematico che lo ha proposto per primo all'inizio del novecento. Tipicamente si cita e basta, aggiungendo ben pochi commenti, in quanto si tratta di un metodo assolutamente impraticabile. Il suo valore è puramente teorico e che io sappia non ha nessuna applicazione pratica. La questione però secondo me è affascinante e merita un po' di più della semplice citazione.

In generale un crittosistema si può definire come una struttura costituita da un insieme finito M di possibili messaggi (costruiti su un certo alfabeto), un insieme finito K di possibili chiavi di cifratura di lunghezza fissata, e da due funzioni E (encryption) e D (decryption), entrambe dipendenti dalla scelta della chiave, che vanno da M a M e sono l'una l'inversa dell'altra. Ad essere precisi questa è la definizione di un crittosistema simmetrico (a chiave singola) visto che si dà per scontato che la stessa chiave K parametrizza sia la funzione di cifratura E che la sua inversa D, ma questo per il nostro discorso mi sembra abbastanza ininfluente, quello che conta è la funzione di cifratura, ovvero il passaggio dal testo in chiaro P (plaintext) a quello cifrato C (ciphertext). La domanda è: sotto quali condizioni il crittosistema si può considerare perfetto? E, prima ancora, che significa dire che è perfetto? Sottolineo il fatto che i crittosistemi in uso quotidianamente dalle più svariate tecnologie di comunicazione non sono mai perfetti, cioè sono tutti in varia misura attaccabili. E' chiaro che questo è un argomento di principio, in quanto la domanda molto più pratica è: quanto è difficile attaccarli? E l'ovvia risposta è che per molti di essi (praticamente per tutti quelli attualmente utilizzati) è veramente molto difficile farlo, sebbene in teoria non impossibile.

In un cifrario perfetto il testo cifrato non dovrebbe dare più informazioni sul testo in chiaro di quanto non sia già noto, e lo stesso dovrebbe valere per la chiave (almeno nel caso della cifratura simmetrica). In altre parole, l'incertezza sul testo in chiaro dovrebbe essere la stessa sia prima che dopo aver conosciuto il suo corrispondente testo cifrato. Detto questo consideriamo un insieme finito di simboli (alfabeto) con cui costruire messaggi, e consideriamo lo spazio finito di messaggi di lunghezza prefissata. E' abbastanza facile immaginare che ad ognuno di essi è possibile in linea di principio associare una certa probabilità, data ad esempio dalla frequenza con cui quel messaggio si può presentare nella conversazione tra mittente e destinatario (ovviamente questo dipenderà dal tipo di linguaggio utilizzato e da quello che tipicamente si dicono le due parti in comunicazione). Per quanto riguarda la chiave di cifratura essa varierà in un suo spazio in modo del tutto casuale e del tutto indipendente. Adesso a partire da un certo messaggio scelto immaginiamo di costruire tutti i possibili testi cifrati corrispondenti facendo variare la chiave di cifratura su tutti i valori possibili. Se facciamo la stessa cosa su un qualunque altro messaggio scelto cosa otteniamo? Se il cifrario è perfetto dobbiamo ottenere lo stesso insieme di testi cifrati. Questo in pratica ci garantisce la seguente importante proprietà: se abbiamo davanti un testo cifrato questo potrebbe essere con eguale probabilità il risultato della cifratura di uno qualunque tra tutti i messaggi possibili. Quindi seppure la distribuzione di probabilità dei messaggi in chiaro è ragionevolmente non costante (alcuni messaggi saranno sicuramente più probabili di altri), la distribuzione di probabilità dei messaggi cifrati al variare del messaggio e della chiave è rigorosamente piatta.

Purtroppo però questa equiprobabilità dei testi cifrati si può ottenere solo ad una condizione molto "scomoda". E' necessario infatti avere un numero di chiavi pari almeno al numero totale dei messaggi in chiaro definibili. Se così non fosse, dato un testo cifrato non sarebbe possibile invertirlo in uno qualunque dei testi in chiaro scegliendo un'opportuna chiave, esisterebbero cioè uno o più testi in chiaro che non vengono mandati in quel testo cifrato da nessuna delle chiavi. E' evidente che questo significa che il testo cifrato fornisce indicazioni sul corrispondente testo in chiaro. Esprimendo la questione in termini un po' più tecnici significherebbe dire che la probabilità del testo in chiaro condizionata dalla conoscenza del testo cifrato è diversa dalla semplice probabilità del testo in chiaro. Ma se è necessario che il numero delle chiavi eguagli il numero dei messaggi possibili dobbiamo avere chiavi lunghe quanto i messaggi (sotto l'ovvia ipotesi che l'alfabeto con cui costruisco i messaggi e le chiavi sia lo stesso, un tale alfabeto nel caso delle implementazioni di un criptosistema al computer è costituito semplicemente da soli due simboli, 0 e 1). Ovviamente la chiave può essere utilizzata una volta sola altrimenti si viola la condizione di perfezione.

Un algoritmo di cifratura basato su una sostituzione polialfabetica che abbia le seguenti tre caratteristiche: 1. chiave realmente random; 2. chiave della stessa lunghezza del testo in chiaro; 3. chiave utilizzata una volta sola; è completamente sicuro. Di fatto non è tanto importante l'algoritmo impiegato (che tipicamente è un semplice XOR tra il messaggio e la chiave espressi in bit, e ha la comodità di essere simmetrico, ovvero l'operazione di cifratura è identica a quella di decifratura), quanto le caratteristiche della chiave; le ipotesi fatte su di essa sono molto forti e difficili da realizzare nella pratica, e anche inutili (se ho un canale sicuro che mi permette di scambiare una chiave lunga quanto il messaggio che devo trasmettere tanto vale farci passare direttamente il messaggio).

Si noti che un cifrario così definito è effettivamente inattaccabile. Quando il messaggio viene unito alla chiave, esso perde ogni correlazione interna e quindi ogni tipologia di attacco statistico fallisce, visto che il messaggio cifrato non ha nessuna correlazione statistica con il messaggio non cifrato. Anche lo stesso attacco a forza bruta è destinato a fallire, dato che se anche si provassero tutte le possibili chiavi, si otterrebbero tanti potenziali messaggi decifrati quante sono le chiavi utilizzate; tuttavia non ci sarebbe modo di distinguere l'unico messaggio originale tra tutti i possibili messaggi in chiaro ottenuti.

sabato 11 giugno 2011

Referendum

Il referendum di domani è preceduto da altri 6 referendum, dal 1997 ad oggi, che non hanno mai raggiunto il quorum. Speriamo che non succeda la stessa cosa anche per questo. Ci sono almeno due buone ragioni perchè passi, e che passi il SI: la prima è il merito degli argomenti, la seconda è l'impatto negativo che avrebbe sul governo che lo ha osteggiato (e che non ha fatto solo questo di negativo negli ultimi anni). Entrambe queste ragioni sono, credo, da sole sufficienti.
Quello del quorum mi appare come l'argomento più controverso e interessante. Il referendum come si sa è uno strumento di democrazia diretta previsto dalla Costituzione. L'articolo 75 stabilisce che il referendum di tipo abrogativo è ritenuto valido solo se viene votato dalla maggioranza degli aventi diritto al voto ("La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.").
Stante questo principio è chiaro che non presentarsi al voto può essere un modo per invalidarlo e ottenere dunque il risultato politico di non abrogare gli articoli di legge in questione. Cioè non andare a votare può essere una scelta politica legittima. Il guaio è che si tratta di una scelta politica in qualche modo "inespressa", non esplicita, che inevitabilmente si mescola con il non-voto per indifferenza, per astensione (che si somma all'astensione "espressa" tramite scheda bianca) o per mancanza di informazione. Questa somma di atteggiamenti dietro alla rinuncia al voto è sicuramente un problema, in certi casi anche grave, che andrebbe affrontato.
Il non-voto si presenta come un problema etico per il cittadino, in quanto la sua opinione non è chiara perchè si confonde con altri atteggiamenti affatto diversi. Questo almeno vale per il normale cittadino, diversa è la situazione per quei pochi che possono fare dichiarazioni pubbliche su mezzi di diffusione di massa. Il giornalista che scrive che non andrà a votare per tutta una serie di motivi e di convinzioni che si preoccupa di esprimere non ha un atteggiamento equivocabile o confondibile, ma tutti gli altri? E comunque in ogni caso il problema vero è che la mia posizione può anche essere chiara ma la mia eventuale vittoria no. E' chiaro che non vince un'opinione politica espressa dalla cittadinanza.
Infine il problema più grave. In questo referendum (come anche in molti altri nel passato) la parte del NO, che annovera anche il governo, ha fatto spesso leva sull'esortazione al non-voto, con una serie di mezzi che appaiono tutti più o meno deprecabili, dal classico invito ad andare al mare alla mancanza di informazione (quest'ultimo molto più grave). Sebbene formalmente legittimo l'invito a non votare (o il far passare l'argomento sotto silenzio) appare comunque come una forma di inciviltà. Perchè la speranza segreta (manco tanto) è sempre quella di poter accorpare una legittima opinione con la fetta di indifferenza che una cittadinanza ha in ogni caso, e di usare entrambe come strumento di successo politico. Il lato più intollerabile di questo atteggiamento è che inevitabilmente esprime un certo disprezzo per le opinioni del cittadino e per la sua libertà di scelta.
Una soluzione da prendere in considerazione potrebbe essere quella di abolire il quorum, o di ridurlo drasticamente. Il rischio che una piccola parte della popolazione possa prendere decisioni importanti per tutti esisterebbe solo nella misura in cui non venisse fatta informazione sufficiente. Come si vede, il problema dell'informazione nella società moderna gioca un ruolo veramente cruciale. Tra l'altro, come mi è stato fatto anche osservare, è molto probabile che la richiesta del quorum del 50%+1 sia stata pensata dai costituzionalisti all'epoca in cui la società italiana aveva certamente un'ampia fetta di cittadini difficilmente raggiungibile da una corretta informazione. Oggi la capillarità e l'eterogeneità dei mezzi d'informazione giustificherebbe a mio avviso una ridiscussione dell'articolo 75 della Costituzione.

sabato 16 aprile 2011

Sul concetto di destino

Che io ricordi mi pare di aver sempre più o meno pensato che i fatti della vita di una persona hanno una componenete puramente casuale. Questa componente esiste sempre, interviene a tutti i livelli, dai meccanismi di formazione del feto fino alle persone che si incontrano. Ammetto che si tratta di una posizione filosofica, se ne potrebbero avere di diverse, ma è anche una posizione che mi risulta piuttosto spontanea. Non so se questo sia dovuto principalmente alla mia formazione scientifica. La scienza da un certo punto in poi ha introdotto il caso in molte descrizioni dei fenomeni naturali.

L'idea che il caso possa giocare un ruolo importante mi pare però un'idea molto poco accettata dalla maggior parte della gente. E questo è vero da sempre. Ne è prova il fatto che da sempre l'uomo ragiona sul concetto di "destino". Per me la frase più significativa riguardo a questo concetto rimane quella che dice semplicemente che "Il destino viene scritto nel momento in cui si compie e non prima". La domanda interessante in realtà può essere: "perchè il concetto di destino è così naturale per la maggior parte delle persone? E perchè il concetto di caso non lo è?"

Intanto c'è da osservare che il caso sembra un'idea monca, incompleta. L'evento casuale è automaticamente associato ad una qualche mancanza di conoscenza. Questo è vero anche in molte descrizioni scientifiche (non tutte a dir la verità), che sono di carattere statistico proprio nella misura in cui non si riesce ad avere una conoscenza dettagliata del sistema. Quindi un evento casuale ha in realtà una sua causa nascosta, magari imponderabile, che determina completamente l'evento e che se fosse ben conoscibile lo renderebbe "calcolabile", dunque prevedibile, affatto casuale. Così il caso non esiste, tutti gli eventi sono l' effetto di una causa ben precisa, anche se sconosciuta. La casualità è semplicemente l'effetto della mancanza di informazione. Se potessimo avere informazioni sufficienti sulle cause tutto sarebbe calcolabile, perchè di fatto qualsiasi evento è il preciso effetto di una qualche precisa causa, e a sua volta è causa di eventi successivi. Il risultato di queste esatte concatenazioni è che l'universo ha un destino ben preciso determinato a priori, anche se non necessariamente conoscibile.

Credo che la posizione filosofica di molta gente, più o meno consapevolmente, sia questa. Il quadro concettuale in cui ci si muove può portare tuttavia secondo me a delle "degenerazioni". Si può essere portati a voler dare un "significato" a qualsiasi cosa accada, o meglio a pensare che ci sia, pur non avendo nessuna possibilità di conoscerlo. A farsi la classica domanda "perchè proprio a me?" o "perchè proprio in questo modo?", dovendoci essere una ragione ben precisa per tutto, anche se assolutamente inafferrabile. Un vero e proprio vicolo cieco. Spesso si può essere addirittura maggiormente portati ad avere atteggiamenti superstiziosi, che significa poi collegare in maniera bizzarra gli eventi tra loro, nella convinzione che tra gli eventi un qualche rapporto causa-effetto per quanto misterioso ci sarà pure da qualche parte.

Il concetto di destino ha anche un lato affascinante (almeno per me), che è quello che lo collega alla visione stoica della relazione uomo-Natura. Citando Bertrand Russel nella sua Storia della filosofia occidentale: "Tutte le cose fan parte d'un unico sistema, che si chiama Natura; la vita individuale è buona quando è in armonia con la Natura. [...] la vita umana è in armonia con la Natura soltanto quando la volontà individuale è diretta verso scopi che sono quelli della Natura stessa. La virtù consiste in una volontà che sia in accordo con la Natura". La metafora, piuttosto famosa, con cui viene illustrata questa visione è quella del cane legato ad un carro. Il cane ha due possibilità: seguire armoniosamente la marcia del carro o resisterle. La strada da percorrere sarà la stessa in entrambi i casi; ma se ci si adegua all'andatura del carro, il tragitto sarà armonioso. Se, al contrario, si oppone resistenza, la nostra andatura sarà tortuosa, poiché saremo trascinati dal carro contro la nostra volontà. L'idea centrale di questa metafora è espressa in modo sintetico e preciso da Seneca, quando sostiene: «Ducunt volentem fata, nolentem trahunt» («Il destino guida chi lo accetta, e trascina chi è riluttante»).

domenica 10 aprile 2011

O' Prufessore

Ricordo che eravamo appoggiati ad una specie di ringhiera di un marciapiedi che andava un po' in salita, e da lì guardavamo la piazza del paese gremita di gente. Tenevamo d'occhio l'ingresso della chiesa da cui sarebbe uscita la statua di San Rocco, portata a spalla. Il Professore mi parlava in modo pacato di questa tradizionale festa di paese, che lui conosceva da sempre. Io non ero molto familiare con manifestazioni religiose di questo tipo; il paese di mia madre è del centro Italia dove la religiosità ha caratteri piuttosto diversi dai paesi del sud. La festa principale del paese di mia madre è la festa dell'uva, certamente non legata ad un santo patrono (non sono neppure sicuro se ce l'abbia ...).

Quindi ero un po' spaesato e incuriosito e seguivo con interesse il parlato lento e pieno di pause del Professore mentre guardavamo la piazza: la storia del Santo, i particolari della statua, le modalità della festa, le edizioni degli anni passati, prima e dopo il terremoto dell'ottanta che aveva costretto ad usare una chiesa diversa, quella che a circa quindici anni di distanza dal terremoto si stava ancora utilizzando (e che osservavamo in quel momento). La sua grande speranza era di ritornare prima o poi nella chiesa originale.

Quello che mi colpiva molto era l'intensità del discorso, il desiderio di comunicarmi una cosa importante, per lui e per tutti i suoi compaesani. Una tradizione rinnovata ogni anno con grande partecipazione di tutti, anche se si capiva dalle sue parole che l'atmosfera della festa vissuta in gioventù si era un po' persa. I tempi erano cambiati. Però il suo attaccamento a questa tradizione era evidentemente rimasto intatto. Era per lui un tratto distintivo del suo paese, un'espressione genuina della sua cultura. Un vero motivo d'orgoglio.

Una cosa mi infastidiva un po'. Continuava ad intercalare nel suo discorso una frase del tipo: "ma io mi rendo conto che tu queste cose non le puoi capire, tu sei forestiero, solo se sei nato qui puoi sentire veramente questa festa". Io rispondevo puntualmente: "no ma io capisco, capisco ... mi rendo conto". Mi dispiaceva che lui potesse pensare che quel suo discorso fosse un mezzo monologo. Intanto il Santo era uscito dalla chiesa e la processione cominciava a prendere corpo.

Sono passati molti anni, il Professore non c'è più, e io ho continuato in varie altre occasioni ad osservare questa festa, in particolare il suo momento più importante, la processione per il paese. Non c'è niente di intimo in una festa del genere, non ci sono atmosfere raccolte, almeno non mi sembra. La religiosità è esplicitata in forme molto concrete, comunicata con tutti i mezzi, ha toni forti, spesso eccessivi; ha una dimensione sociale. Se non sbaglio c'è anche il solito miracolo del Santo, che non ho mai visto perchè avviene ad un'ora impossibile del mattino, ma l'evento non passa inosservato perchè viene salutato dall'esplosione di petardi! Anche l'uscita del Santo dalla chiesa, per la processione serale, è accompagnata dall'esplosione di vari fuochi d'artificio e da gente che beve innumerevoli bicchieri di acqua miracolata.

La disposizione della processione è particolarmente interessante: autorità religiose (tra cui il vescovo), autorità civili (sindaco e parte della giunta comunale), associazioni religiose di vario genere, uomini, donne e bambini. Da qualche parte è sistemata anche la banda. E' evidente che la disposizione esprime molto chiaramente una gerarchia di valori. Ma è indubbio che esprima anche una grande unità sociale. Si tratta di una festa religiosa ma è scontato che la partecipazione è corale, riguarda la società intera e tutte le sue rappresentanze principali. Il culto del Santo accomuna tutti.

Sono passati molti anni e alla fine devo ammettere che il Professore aveva ragione: non credo di avere la possibilità di capire fino in fondo una cosa del genere.

mercoledì 30 marzo 2011

Un post su Postel

Era la fine del 1998 e io entravo come consulente in una società di formazione tecnologica, la stessa in cui lavoro tuttora (dopo svariati cambiamenti di proprietà e di ragioni sociali). Provenivo da studi scientifici e da ben poca esperienza lavorativa nel settore informatico. Come sempre succede ti guardi intorno e osservi i tuoi colleghi, quello che fanno, come lavorano, che carattere hanno, notando anche cose forse secondarie ma curiose. Una di queste cose curiose era il desktop di un collega un po' più anziano. Una persona un po' sulle sue, che si "barricava" spesso dietro alla sua scrivania con un monitor gigantesco di una workstation Unix. Non era facile osservare il suo desktop.
Quell'immagine però era particolarmente strana per me, e non sapevo come classificarla. Si trattava di un signore barbuto, che non avevo mai visto prima e che al momento mi faceva pensare a qualche specie di santone. Ci ho messo un po' per chiedere al collega di chi si trattava e la risposta mi ha messo un po' in soggezione: "Come chi è? E' Jon Postel! Non sai chi è Postel? ....".
Jon Postel (1943 - 1998) è uno dei più importanti pionieri della rete Internet. E' stato per circa trent'anni l'editor delle RFC (Request For Comments), i documenti che discutono tutte le tecnologie utilizzate in Internet e ne definiscono gli standard. Ha fondato e gestito per lungo tempo la Internet Assigned Numbers Authority (IANA), l'organismo che coordina l'assegnazione degli indirizzi IP e degli AS numbers, che gestisce la Root dello spazio dei nomi DNS, l'assegnazione dei Top Level Domains e il database dei protocol names and numbers. Da questa posizione Postel ha sollecitato e coordinato lo sviluppo delle tecnologie alla base di Internet e la sua stessa crescita. Sue sono le RFC che definiscono le caratteristiche standard del TCP/IP (RFC791, "Internet Protocol", 1981; RFC793, "Transmission Control Protocol", 1981). Sue sono le prime idee sulla struttura gerarchica dei nomi a dominio.
Evidentemente i contributi di Postel si misurano anche dai tributi postumi della comunità Internet (proprio a partire da quel 1998): numerose pagine web commemorative, un premio a suo nome e, cosa molto curiosa, una RFC in sua memoria (RFC2468, "I remember IANA", 1998), scritta all'indomani della sua morte da un altro importante pioniere come lui, Vint Cerf. Un estratto famoso di questa RFC è il seguente: "Someone had to keep track of all the protocols, the identifiers, networks and addresses and ultimately the names of all the things in the networked universe. And someone had to keep track of all the information that erupted with volcanic force from the intensity of the debates and discussions and endless invention that had continued unabated for 30 years. That someone was Jonathan B. Postel, our Internet Assigned Numbers Authority, friend, engineer, confidant, leader, icon, and now, first of the giants to depart from our midst".
Credo che (mi piace pensare che) Postel abbia sempre pensato alla rete come ad un grande progetto di ampliamento delle capacità di comunicare dell'uomo, e che questa filosofia, questa "visione" lo abbia guidato per così tanti anni consentendogli di contribuire in modo fondamentale allo sviluppo di un patrimonio tecnologico così importante. Affascinante una sua frase (rilanciata in tanti punti del web, giustamente) di carattere tecnico: "In general, an implementation must be conservative in its sending behavior, and liberal in its receiving behavior", che successivamente diventa una specie di slogan: "Be liberal in what you accept, and conservative in what you send".
Per la gran parte delle persone le icone dell'informatica moderna sono le miriadi di oggetti di consumo che abbiamo continuamente tra le mani. Non per me.

domenica 27 marzo 2011

Crocifisso: la sentenza di Strasburgo

In questo breve post torno sull'argomento della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche italiane (spero per l'ultima volta). Lo faccio perchè ho letto qualche giorno fa che a Strasburgo la Grande Camera della corte europea per i diritti dell'uomo ha sancito con sentenza definitiva che ciò non costituisce una violazione del diritto alla libertà di coscienza dei ragazzi e alla libertà d'educazione dei genitori (la sentenza è più articolata e sembra animata soprattutto da uno spirito di "non ingerenza" in questioni in cui si ritiene che gli Stati debbano godere di un certo margine di discrezionalità).

In particolare mi interessa sottolineare due cose: la prima è che la corte europea nella sua sentenza fa intendere abbastanza chiaramente di non considerare il crocifisso come un simbolo di indottrinamento ("La Corte deve quindi di regola rispettare le scelte degli Stati contraenti in questo campo, compreso lo spazio che questi intendono consacrare alla religione, sempre che tali scelte non conducano a una qualche forma di indottrinamento"). La seconda è la soddisfazione della Santa Sede per questa sentenza ("La Corte dice quindi che l'esposizione del crocifisso non è indottrinamento, ma espressione dell'identità culturale e religiosa dei Paesi di tradizione cristiana").

Direi che la Santa Sede si preoccupa molto di più delle questioni politiche che non di quelle di fede. E' soddisfatta del fatto che l'esposizione del crocifisso non è considerata indottrinamento, quindi non è visto come un simbolo sacro del cristianesimo bensì come semplice simbolo culturale. Ribadisco (l'ho già detto in un post precedente) che un cristiano dovrebbe ribellarsi a questo modo di considerare i simboli più importanti della sua religione in quanto dà loro una dimensione puramente storica, quasi contingente, certamente non sacra.

Non è necessario essere cristiani per rimanere perplessi di fronte a questi atteggiamenti della chiesa ufficiale, basta essere religiosi, come dimostra una frase del rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni: "Dire che il crocifisso è simbolo culturale è, a mio parere, mancargli di rispetto. E non mi ci riconosco come simbolo culturale".

Questa critica all'atteggiamento della Chiesa la ritrovo espressa bene da Sergio Luzzatto nella chiusura di un suo articolo: "Riesce difficile non giudicare inquietante la soddisfazione espressa dalla Santa Sede a proposito di una sentenza come quella di Strasburgo, che negando al crocifisso un potere di indottrinamento gli nega anche - se le parole hanno un senso - un valore di dottrina. A questi punti è arrivata, evidentemente, la Chiesa cattolica di oggi: a una tale ossessione di presenza nella sfera temporale da trascurare ogni scrupolo di presenza nella sfera spirituale. Fino a disconoscere nel simbolo cristiano per eccellenza il suo messaggio sacro e (per chi crede davvero) il suo valore salvifico, pur di passare all'incasso (tutto politico) di un messaggio pelosamente profano".

venerdì 18 marzo 2011

Il Vespro della Beata Vergine

Il Vespro della Beata Vergine è un lavoro di Claudio Monteverdi del 1610. Credo sia una delle opere musicali più ricche e affascinanti di tutta la storia della musica occidentale. Paragonabile a quello che può essere la Cappella Sistina per la storia delle arti figurative. Se non ho esagerato più di tanto nel fare questo paragone va aggiunta una curiosa osservazione, che distingue in maniera sostanziale queste due grandi opere dell'ingegno: la seconda la conoscono tutti, la prima quasi nessuno (almeno per la mia esperienza).

I motivi possono essere diversi. Sicuramente il più importante è il peso incredibile che ha Michelangelo nella storia della nostra cultura e che certamente Monteverdi non ha. Però l'argomento può risultare un po' circolare, nel senso che forse questo "peso culturale" viene determinato in parte proprio sulla base dell'importanza che una società dà a certe forme d'arte. Michelangelo era un grande pittore, scultore, architetto che con la sua opera ha influenzato enormemente la sua epoca e quelle successive. Monteverdi era solo un musicista.

Un'altra ragione è quella del tempo storico che nel caso della musica sembra sempre enormemente più dilatato (benchè oggettivamente molto più corto, vista la mancanza di fonti). Quando si parla di musica antica, quella precedente il periodo cosiddetto classico (Haydn, Mozart), in genere si giustifica la mancanza di frequentazione con il fatto che si tratta di musica troppo lontana dalla nostra sensibilità moderna. Ma è fin troppo chiaro che questo vale anche per le altre arti. Gli affreschi della Cappella Sistina sono vicini alla nostra sensibilità figurativa? Non credo proprio.

Sicuramente la maggior parte delle persone di media cultura sanno che le arti figurative hanno una storia e una evoluzione del linguaggio, che in buona parte conoscono pure, ma non lo sanno altrettanto bene della musica. Possono riuscire a collocare storicamente un certo dipinto anche se non lo conoscono, ma non riescono a farlo altrettanto bene con un brano musicale. Hanno in media strumenti culturali più incerti nei confronti della musica, minori conoscenze storiche e chiavi di lettura spesso banali. Hanno imparato fin dalla scuola ad apprezzare Michelangelo ma non Monteverdi, di cui al massimo ne hanno nozione.

Infine il brano musicale implica un livello di attenzione continuato nel tempo di esecuzione. Questa è una caratteristica che condivide con il teatro e il cinema, ma a differenza di questi non ha parametri visivi e letterari significativi e non racconta una storia (escludendo il melodramma e poco altro). L'ascolto della musica comporta solitamente un impegno notevole, certamente in media superiore a quello di vedere un film, un lavoro teatrale, di passeggiare in una galleria d'arte o in una chiesa. E questo ha l'effetto di far mantenere le distanze con i grandi capolavori, vecchi e nuovi, facendosene al massimo un'idea retorica (il "motivetto"). Non è un caso che tutte le forme musicali popolari e di largo consumo sono sempre "ibridate" da aspetti letterari e visivi, e hanno tempi di esecuzione non superiori a qualche minuto. Il Vespro di Monteverdi dura più di due d'ore. Pensa che palle!

Nota: due brani di esempio, il Dixit Dominus e il Nigra Sum.

venerdì 4 marzo 2011

Ruby, My Dear (*)

Il cosiddetto "caso Ruby" è l'ultimo procedimento giudiziario dell'attuale Presidente del Consiglio. L'ultimo di una lunga serie, e probabilmente non il più grave. Mi interessa dare un'occhiata agli argomenti e alle tecniche con cui viene tenacemente difeso Berlusconi e ragionarci sopra, come credo farebbe chiunque, indipendentemente dal suo orientamento politico.

1. L'aspetto più tecnico riguarda l'attribuzione delle competenze; in relazione ai tipi di reato contestati e al territorio in cui sarebbero avvenuti non dovrebbe essere la Procura di Milano a procedere ma il Tribunale dei Ministri e la Procura di Monza.
Cercando di approfondire la questione si viene facilmente a capire che passare la competenza al Tribunale dei Ministri non cambierebbe granchè la cosa, se non in un piccolo particolare: il giudizio del Tribunale dei Ministri è vincolato da una votazione della camera di appartenenza dell'imputato. Ovviamente non esiste nessuna dichiarazione ufficiale della maggioranza in merito a questa votazione.

2. Il leitmotiv della difesa berlusconiana è il complotto delle toghe rosse, ovvero l'accanimento su di lui di alcuni magistrati, in particolare di quelli della Procura di Milano, usato come strumento politico.
Il complotto si rivelerebbe in una serie di accuse inconsistenti portate avanti ad ogni buona occasione a partire dal 1994, usate per condurre imponenti processi mediatici più che giudiziari e screditare la figura di Berlusconi. E' interessante notare che l'accusa del complotto è anch'essa condotta interamente sul piano mediatico, senza prove, senza inchieste, senza approfondimenti, ma semplicemente rilanciata così com'è su tutti i media possibili. Il piano mediatico è in assoluto quello preferito. Il piano giudiziario, l'unico veramente efficace per ricostruirsi una reputazione attraverso sentenze di assoluzione, è invece costantemente evitato.

3. Un elemento molto spesso sottolineato è l'inconsistenza dei reati, il fatto che ci sia un'evidente montatura di vicende in tutto o in parte inesistenti. In sostanza non è successo nulla di rilevante, e quindi nulla che possa essere portato ad un processo.
L'osservazione più allucinante in questo senso è che il reato non c'è in quanto le vittime non lo denunciano. Ad esempio Ruby ha sempre negato di aver fatto sesso con Berlusconi. Incredibile che questa argomentazione venga riproposta più volte sui giornali e in televisione. Sarebbe come dire che una violenza sessuale in famiglia non è avvenuta perchè la moglie (vittima) non l'ha mai denunciata e se viene interrogata la nega. Oppure che in Campania non esiste il pagamento del pizzo alla camorra perchè se interrogati gli esercenti negano. Inutile dire che Ruby può avere tutto l'interesse a negare il fatto, magari perchè pensa di ricavarne qualcosa, se non lo ha già fatto (e questo peggiorerebbe di gran lunga la situazione di Berlusconi). E' da notare che questo argomento ribadisce l'inconsistenza giudiziaria dell'episodio e contestualmente ne fa emergere quella puramente mediatica.

4. Rispetto a questo caso si è molto insistito anche sulla violazione della privacy, sul comportamento della procura giudicato scorretto e violento nei confronti di tutti gli indagati, in quanto troppo invasivo rispetto alla sfera del privato.
Questo elemento dipende dal precedente, nel senso che si tiene in piedi solo se non ci sono vere ipotesi di reato. Perchè se invece ci sono il discorso della violazione della privacy non ha più alcun senso. E' chiaro che un reato avviene praticamente sempre all'interno di una sfera privata, ed è altrettanto chiaro che in questo caso le indagini devono entrare in questa sfera per essere svolte correttamente. Se però questo elemento viene presentato isolatamente, evitando l'obiezione appena fatta, acquista una sua efficacia retorica e risulta funzionale alla teoria del complotto.

5. Si tenta regolarmente di minimizzare quanto accaduto, riducendolo ad un insieme di episodi "goderecci", del tutto privati e ammissibili, sullo sfondo dei quali c'è semplicemente un Primo Ministro a cui "piacciono le donne".
Qui c'è da sottolineare un fatto importante: a me pare evidente che ci sono comportamenti privati e perfettamente legali che però sono semplicemente inammissibili per una persona che ricopre importanti incarichi pubblici. Questo non per una questione morale (che pure ci potrebbe essere) ma perchè questi comportamenti potrebbero "esporre a rischi" la funzione pubblica rappresentata. Ed è chiaro che non si tratta di un fatto che si può codificare in qualche modo essendo addirittura legato alla funzione pubblica stessa, in particolare alla sua importanza. Se sono un sindaco di un piccolo comune posso tranquillamente scendere dal palazzo comunale da solo ed entrare nel bar di fronte per prendere un caffè, conversando con i miei concittadini. Se sono Barack Obama una cosa così semplice, innocua e privata non la posso fare. Addirittura in tal caso nessun cittadino mi può avvicinare senza che sia stato preventivamente identificato e autorizzato. Frequentare ragazze non ben conosciute ed ottenere da alcune di loro del sesso a pagamento può essere ammissibile per un qualunque cittadino ma non per un presidente del consiglio, non mi pare un argomento difficile da capire. Tuttavia questa linea di difesa alimenta l'idea di una magistratura persecutrice, di accuse inconsistenti e pure di un uomo potente che si sa godere la vita, idea che esercita il suo fascino su parecchia gente.

6. Molti dei detrattori del presidente del consiglio hanno nel loro passato altrettanti episodi personali "poco puliti" da nascondere.
Questa tecnica evangelica del "chi è innocente scagli la prima pietra" è funzionale ad ingessare tutto il sistema, a fare in modo che nessuno possa puntare il dito contro nessun altro. E risulta essere anche molto efficace in quanto sfrutta il fatto che in Italia il grado di corruzione della classe dirigente è al di sopra della soglia accettabile per un paese civile, esattamente come il grado di evasione fiscale. Si tratta di due indicatori importanti per misurare il grado di maturità di uno stato democratico, e noi certamente non stiamo messi molto bene. Ma volendo usare un'altra metafora evangelica l'attacco che i giornali vicini al presidente fanno a molti suoi detrattori e avversari politici attraverso episodi poco chiari delle loro vite mi suona come l'andare a preoccuparsi delle pagliuzze negli occhi degli altri quando si ha una trave nel proprio. Intendo dire che Berlusconi in questo campo è un vero fuoriclasse, letteralmente imbattibile. Ma nonostante l'evidente sproporzione ciò basta a costruire il pregiudizio del "sono tutti uguali, perchè togliere uno e metterne un'altro?"

In definitiva la linea di difesa mediatica di Berlusconi (chissà se quella giudiziaria la riusciremo mai a vedere) difende l'indifendibile, ma è perseguita con metodo, sistematicità e furbizia da una schiera di politici e giornalisti a lui vicini. L'obiettivo è chiaro, molto preciso, ed è sempre il solito: evitare i processi.

(*) E' il titolo di un famosissimo brano di Monk, di cui esistono molte registrazioni, una molto bella è qui.

domenica 27 febbraio 2011

Una bella lezione

Facoltà di Fisica, anni ottanta, prima lezione del corso di Fisica dei Solidi. Il professore prima di entrare nel vivo degli argomenti del corso ci fa un piccolo cappello, molto interessante.

L'idea è quella di scrivere qualcosa di generale sull'oggetto di studi del corso. Un corpo solido è forse un concetto un po' troppo vasto. Quello che ci interessa di più è lo stato solido cristallino, dove gli atomi assumono posizioni geometricamente precise, che si ripetono con un certo periodo sulle tre direzioni spaziali. Questo è un fatto sperimentale, messo in evidenza dagli studi di diffrazione di raggi X. Normalmente ha senso distinguere nel singolo atomo del reticolo gli elettroni più interni, strettamente legati ad esso, da quelli più esterni, più indipendenti, la cui dinamica viene senz'altro influenzata anche dalla presenza degli atomi circostanti.

Quali sono i principi generali che regolano la dinamica di un sistema del genere? Li conosciamo? Per quanto ne sappiamo l'unica forza che interviene in modo sostanziale è quella elettromagnetica. Quella gravitazionale è 43 ordini di grandezza inferiore, dunque trascurabilissima. La forza forte e la forza debole permettono in pratica l'esistenza e la stabilità dei nuclei ed hanno un raggio di azione enormemente piccolo rispetto alle distanze che caratterizzano il nostro sistema. Quindi il nostro modello è un insieme di elettroni immersi in un potenziale elettrico periodico generato dal reticolo cristallino. Sotto quale legge evolve il sistema? In questo caso, poichè il sistema è di natura quantistica (la dinamica di un atomo non può essere descritta efficacemente nell'ambito dei principi della meccanica classica) possiamo utilizzare l'equazione di Schroedinger.

Quindi il professore scrive l'equazione di Schroedinger per un sistema di N particelle sottoposte ad un potenziale periodico.

Ci fa notare che lo sforzo è quello di avere un approccio il più generale possibile. Si cerca di descrivere al meglio il sistema di nostro interesse (purtroppo con alcune necessarie approssimazioni) e si applica ad esso un'equazione del tutto generale derivata dai principi primi della meccanica quantistica. Molti degli sforzi della fisica vanno proprio nel senso di riuscire a formulare questi principi primi, applicabili poi di peso a qualunque sistema fisico. Quello della ricerca dei principi primi è un atteggiamento tipico di tutta la scienza.

E ora? Lo schema di pensiero che dobbiamo seguire è di tipo deduttivo. Quello che abbiamo davanti è un'equazione da cui virtualmente possiamo ricavare tutto quello che ci serve di sapere sul sistema. Lì dentro c'è tutto quello che dovremo studiare durante il corso (o quasi tutto, viste le approssimazioni che siamo stati costretti a fare). Un pensiero molto affascinante quello di avere sintetizzato in un'unica equazione tutta la fisica dei solidi. Peccato che risulti praticamente sterile! Nel senso che l'equazione a cui siamo pervenuti è matematicamente intrattabile, si riesce a ricavare ben poco dal suo studio analitico. Troppo complicato! Quello di imbattersi in sistemi intrattabili ancorchè "risolti" dal punto di vista dei principi primi è tipico della scienza, della fisica in particolare.

E allora questo corso come lo facciamo? O meglio, tutte le conoscenze, anche importanti, che abbiamo sulla fisica dello stato solido come vengono fuori? (Si pensi anche solo alla fisica dei metalli o dei semiconduttori). Qui il professore sottolinea che l'approccio utilizzato fino a questo momento è certamente affascinante ma si rivela infecondo. Partire dai principi primi e, semplicemente applicandoli, ricavare per deduzione tutta la fisica di sistemi così complessi è una strada impraticabile. Occorre cambiare radicalmente strategia.

La strategia che ci propone è quella dell'approssimazione, proprio quell'elemento che probabilmente ci aveva dato più fastidio nel ragionamento precedente. Le approssimazioni sul sistema che ci avevano in qualche modo ristretto la validità della trattazione possono diventare i sostegni che ci consentono di andare avanti nel processo di conoscenza. Approssimare significa trascurare termini, individuare aspetti del problema non essenziali, capire l'entità relativa delle grandezze in gioco, saper individuare nella complessità del sistema che si ha davanti i pochi aspetti veramente determinanti (che inevitabilmente dipendono da ciò che siamo interessati a descrivere). Attenzione, formulare un'approssimazione non è affatto semplice. Questa deve avere la capacità di semplificare il problema (e renderlo dunque trattabile) senza banalizzarlo, senza cioè togliere quegli elementi essenziali che lo caratterizzano e che lo rendono interessante.

Su questa soglia critica tra semplice e banale nel pensare una possibile approssimazione si gioca gran parte del talento, dell'immaginazione, dell'intuito e della creatività di uno scienziato.

Possiamo cominciare il corso.

giovedì 17 febbraio 2011

Una frase antipatica

In un libro di Feynmann lessi molto tempo fa una frase sull'insegnamento (Feynmann era famoso anche come didatta) che mi è rimasta impressa: "L'insegnamento è quasi sempre inutile, tranne in quei rari casi in cui è quasi superfluo". Sembra un gioco di parole ma ha un suo senso. Purtroppo.

Durante gli studi, qualunque tipo di studi, hai a volte la sgradevole sensazione di non riuscire a padroneggiare l'argomento che hai sotto il naso come vorresti, e che forse non ci riuscirai mai. Contestualmente non puoi fare a meno di notare che alcuni hanno talmente poche difficoltà da sembrare praticamente già "imparati". Per questi ti rimane sempre il dubbio: hanno studiato tanto (ma proprio tanto)? O c'è qualche altra spiegazione?

Quando insegno mi domando spesso quanto può essere efficacie il mio lavoro sulle persone che mi stanno ascoltando. Anche perchè l'insegnamento è faticoso, richiede spesso un certo sforzo. Tuttavia il rischio che lo studente porti a casa solo una piccola percentuale di conoscenze rispetto al "volume di fuoco" che produci è concreto. E che quindi il tuo sforzo sia in buona parte fatica sprecata. Probabilmente conviene orientare l'insegnamento puntando il più possibile sulle cose importanti, focalizzandole, enfatizzandole, anche a costo di risultare un po' ripetitivo, sperando che non siano troppe rispetto alla normale capacità di ricezione di chi ti ascolta.

Purtroppo capita anche spesso di percepire l'inutilità del tuo lavoro per il motivo esattamente contrario, perchè capisci cioè che ti stai rivolgendo ad una platea già "imparata" (per tanti motivi, molti dei quali potrebbero anche non essere contemplati dalla frase di Feynmann) a cui non hai in concreto molto da dare, e questo è ovviamente motivo di una certa frustrazione. La cosa peggiore è che spesso queste due platee ce le hai davanti nello stesso momento.

Quindi l'insegnamento risulta quasi sempre inutile (o comunque uno sforzo improbo) a causa del poco talento dello studente, o delle sue condizioni di partenza, o dei suoi pregiudizi, o delle sue indisponibilità e inerzie. Problemi spesso molto difficili da superare. Può diventare utile con maggiore probabilità nei confronti di soggetti talentuosi, particolarmente predisposti e motivati, con una storia personale che li ha portati ad avere il livello culturale adeguato, la sensibilità giusta, gli strumenti concettuali adatti. Ma in tal caso questo insegnamento non deve costruire quasi nulla, perde forza spontaneamente perchè trova terreno già solido, dove si può cominciare a costruire bene anche da autodidatta.

Insomma, il contenuto di verità di questa frase mi ha infastidito prima come studente, poi come insegnante.

lunedì 24 gennaio 2011

Inspiegabile inerzia

Non ho nessuna voglia di parlare della situazione politica italiana. Non c'è niente da aggiungere. Sarebbe meglio pensare ad altro, per una questione di serenità personale. Seguire le notizie è talmente frustrante ...

Giorni fa però in uno dei tanti dibattiti televisivi inutili (di quelli in cui alcuni parlano di cose scandalose evidenti, su cui non ci sarebbe nulla da dibattere, e altri sbraitano e si agitano, credo al solo scopo di ottenere un clima infuocato, tipico di uno scontro dialettico di sostanza, ma senza la sostanza!) viene mostrato un sondaggio che chiedeva agli italiani di esprimersi su "quale leader politico italiano le ispira più fiducia". Al primo posto di questo sondaggio c'era Silvio Berlusconi. Chi presentava il sondaggio sottolineava il calo di alcuni punti percentuali di questo gradimento, ma la notizia rimaneva che circa un italiano su quattro considera Berlusconi il politico più fidato, lasciando tutti gli altri su percentuali sensibilmente più basse.

Faccio veramente fatica a capire l'inerzia dei cittadini italiani, e questa mia difficoltà rende l'argomento piuttosto interessante. Ricordo che ai tempi della prima repubblica, quando ancora c'era un sistema elettorale proporzionale, ad ogni tornata elettorale stavo lì a sentirmi tutti quei politici che discutevano sul fatto che quel tal partito aveva guadagnato lo 0,8 %, o il tal altro aveva perso lo 0,3 %, e così via. Dietro c'era una situazione politica generale che rimaneva drammaticamente sempre la stessa. Anni e anni di votazioni che non cambiavano nulla nella sostanza. Avevo la sensazione che si fosse in una situazione di democrazia ingessata, in cui la cittadinanza risultava di fatto estromessa dalla concreta possibilità di influenzare il potere.

Ho sempre considerato positivo il passaggio al maggioritario per questo motivo. Sarà una considerazione troppo semplicistica ma mi piace l'idea che il panorama politico (sia in termini di cittadinanza che in termini di rappresentanza politica) sia diviso in due grosse fazioni principali, destra e sinistra. E che la più rappresentativa (in termini di voti) governi sotto il controllo dell'altra, meno rappresentativa ma non così tanto meno (e che alla prossima tornata elettorale potrebbe tranqillamente arrivare a governare). Il buon funzionamento di tutti i meccanismi di controllo di chi esercita il potere è fondamentale in democrazia, e l'opposizione politica rappresentata in parlamento è probabilmente il meccanismo di controllo più importante. Ma fare l'opposizione non può diventare un mestiere, non può essere il fine ultimo di una fazione politica. Idem per l'attività di governo. Ogni fazione deve dare prova ai propri elettori sia di capacità di governo che di opposizione.

Oggi formalmente abbiamo un maggioritario ma lo stato di inerzia se possibile mi sembra addirittura peggiore. L'impressione è che oggi il nostro capo del governo in carica possa fare qualsiasi cosa, anzi, possa non fare qualsiasi cosa. Comunque agisca la prossima tornata elettorale sarà molto probabilmente a suo favore. Gli spostamenti sui sondaggi mi sembrano ancora minimi e tutti recuperabili in fase di campagna elettorale. E' già successo. Il governo in carica ha ampiamente dimostrato un divario enorme tra quello che dice o ha detto e quello che effettivamente riesce a fare, eppure i flussi elettorali da una parte all'altra, che in molti altri Stati si verificano puntualmente, qui sembrano non esserci (o non essere mai sufficienti).

Il degrado morale espresso dall'attuale destra di governo è letteralmente insopportabile. Immagino che molti elettori di destra avranno gravi problemi a riconfermarla tout-court con il prossimo voto. O no? E' mai possibile, pur essendo elettori di destra, sentirsi rappresentati degnamente da molti dei politici attualmente al governo, e in primo luogo dal suo Primo Ministro, soprattutto adesso che una parte della destra si è sganciata e tenta di presentarsi come alternativa? A occhio e croce la situazione dovrebbe essere più che sufficiente per spostare molti voti dall'altra parte. Perchè non succede?

Ecco, quello che mi interessa di più è ragionare su questa inerzia dei cittadini italiani e trovare delle spiegazioni plausibili.

P.S.: mi sembra stia venendo fuori un'altra inerzia, non dei cittadini ma della classe politica, che è quella della destra di governo a cambiare il suo leader; chi ci ha provato è stato allontanato. Ultimamente però è palese che le questioni personali di Berlusconi stanno sempre di più danneggiando la visibilità della politica del governo, e continuare a scommettere su di lui può rivelarsi un serio rischio. Eppure in molte trasmissioni televisive e su alcuni giornali si assiste a delle prese di posizione in difesa del premier che rasentano il grottesco. Ma perchè la destra non mette da parte il suo leader? Può farlo, credo che abbiano (dal loro punto di vista) delle valide personalità politiche alternative. Anche questa è una questione a cui prestare attenzione.

sabato 15 gennaio 2011

Raccolta differenziata e senso civico

Da alcuni mesi nel mio quartiere è stata attivata una nuova raccolta differenziata che include anche l'umido. Si tratta di separare dall'indifferenziato (non riciclabile) un 30% circa di rifiuti alimentari e organici, che possono essere trasformati in compost, un fertilizzante naturale utilizzabile in agricoltura.

Dovrebbe essere ovvio che si tratta di una cosa molto importante. Nelle grandi città quello dello smaltimento e riciclaggio dei rifiuti è uno dei problemi più delicati. Tuttavia l'eccesso di individualismo che si sviluppa in modo naturale proprio nelle grandi città rema contro questo problema (e contro diversi altri problemi). In una società complessa e strutturata tutto quello che riguarda la comunità tende ad essere avvertito come estraneo, anzi, il concetto stesso di comunità è poco percepito. In tal caso le tecniche di raccolta differenziata, con le loro oggettive difficoltà di applicazione, vengono percepite da molti come una gran rottura di scatole. Il problema è quello di tirar fuori il prima possibile la merda dal proprio appartamento, quello che succede dopo è secondario, e soprattutto è una seccatura doverlo prendere in considerazione. Questo almeno fino a che la merda non ti arriva fino al collo (vedi Napoli, ma la situazione di Roma non è poi molto migliore).

Io e mia moglie abbiamo involontariamente raccolto parecchie "voci di malcontento" su questo nuovo metodo di raccolta dei rifiuti, sia da condomini che da persone del quartiere: perchè bisogna rispettare gli orari di raccolta, perchè se ti sfugge l'orario non puoi gettare nè l'umido nè l'indifferenziata e ti devi tenere la busta fino al giorno dopo, perchè "tanto poi si sa che è tutto finto e che non riciclano niente", e via di questo passo. Il giorno seguente la consegna dei cestini areati e delle buste per l'umido abbiamo trovato uno di questi cestini poggiato a fianco al contenitore dell'indifferenziata (che ancora c'era), come un rifiuto qualsiasi ... che simpatico gesto di ironia ...

In questo nuovo metodo di raccolta manca un particolare, di difficile gestione in una grossa città, lo ammetto: ogni singolo cittadino (famiglia) dovrebbe essere controllato nella quantità di rifiuti indifferenziati che produce, e pagare la tassa sui rifiuti in misura proporzionale. Tanto si sa che l'unico valore condiviso è quello dei soldi, e togliere a un po' di gente la possibilità di comprarsi alla fine del mese il cellulare nuovo con cui atteggiarsi a persone civili e tecnologiche può essere un buon incentivo a comportarsi meglio. Anche se è chiaro che il senso civico non è una cosa che può essere estorta col denaro, purtroppo.

martedì 11 gennaio 2011

Modelli sociali vecchi e nuovi

Io ho cominciato a lavorare quando ancora si parlava di yuppismo (ancora per poco, il vero yuppismo era degli anni ottanta). In qualche piccolo frangente della mia attività ho avuto modo di osservare più da vicino questo stereotipo. In particolare ricordo un breve periodo (pochi giorni) in cui mi capitò di veder lavorare alcuni giovani impiegati della McKinsey. Arrivavo che erano già tutti sul posto di lavoro, me ne andavo che erano ancora tutti lì, anzi, stavano carburando ...
I ragazzi non di Roma si informavano sui locali notturni della zona. L'ambiente di lavoro era insopportabilmente competitivo, tutti "facevano team" (come dettato dalla filosofia aziendale) ma senza una vera cordialità (questo spesso si capiva dal livello dei pettegolezzi che giravano). Come si dice: da nessuno di loro avrei mai comprato una macchina usata.
Una delle cose più ridicole che ricordo è che tutti quanti venivano in ufficio in giacca e cravatta (bei completi, molti anche con il panciotto) ma se venivano in ufficio di sabato, e per quello che ho capito succedeva spesso (anche a me capitò una volta, purtroppo), vestivano tutti "casual", che significa, ovviamente, vestiti con maglioncino e scarpe da tennis, ma tutto rigorosamente firmato e costoso. Un delirio.

Effettivamente quello che si percepiva era un vero e proprio modello sociale (supportato da un linguaggio ben preciso, verbale e non) a cui tutti si uniformavano naturalmente, senza troppe difficoltà. Da giovani lo spirito di emulazione e la voglia di abbracciare una qualche filosofia di vita, per quanto aberrante, è sempre molto forte. Ed è su questi istinti che si costruisce un modello sociale.

Ma alla fine, lo scopo principale di tutto ciò qual'era? Quello di far lavorare dei poveri cristi per almeno 12 ore al giorno ... e farglielo fare contenti. Sentirsi fichi nei propri panni è un elemento fondamentale per far digerire un modello sociale. La controparte per questo lavoro da somari? Pochi soldi all'inizio ma promesse di una brillante carriera nel mondo dei "grandi professionisti", che alla fine significa gente che guadagna tanto. E cosa fa un grande professionista dopo 12-14 ore di lavoro? Consuma champagne e va a puttane, non ha tempo per fare molto altro (ah si, va in palestra a coltivare il fisico). Credo che molti di quegli yuppies siano attualmente la nostra classe dirigente, tenacemente abbarbicata alla propria sedia.

Negli ultimi anni mi sembra emergere in Italia un nuovo modo di pensare, altrettanto aberrante, secondo me. Quella del giovane brillante che conosce le lingue e va a lavorare all'estero. La dura realtà credo che sia abbastanza ovvia: un'intera generazione di italiani si prepara ad espatriare per poter campare decentemente, e la generazione precedente (la mia) lo ha già fatto in buona parte. Ma non vorrei che questa cosa, che in sè è disastrosa, si cominciasse a presentare come una cosa da "fichi", come il vecchio yuppismo. Staremo a vedere.