mercoledì 7 settembre 2011

"Io alla Storia non ci credo"

Mio figlio quest'anno frequenterà la terza elementare. Mi pare di capire che a partire da adesso lo studio di alcune materie sarà un po' più strutturato ed approfondito. In particolare credo che comincerà ad affrontare in qualche misura lo studio delle civiltà del passato. Come dicono i programmi ministeriali "a partire dal terzo anno della scuola elementare, si avvierà uno studio che progressivamente porti il fanciullo dall'interpretazione della storia del suo ambiente di vita alla storia dell'umanità e, in particolare, alla storia del nostro Paese".

Credo che dal punto di vista didattico la cosa più difficile sia quella di fargli capire la sostanziale differenza tra una storia raccontata e la ricerca storica vera e propria. Eppure mi pare una cosa essenziale, sin da subito, sin da questa età (comunicandola in modo appropriato, ovviamente). Il pericolo è quello di prendere i fatti storici da studiare a scuola negli anni successivi come una serie di raccontini più o meno interessanti, da leggere su un libro, che è quello che ti hanno fatto comprare. Credo che si tratti di un pericolo concreto, con il quale più o meno tutti noi abbiamo fatto i conti.

Devo dire che quello che mio figlio ha fatto a scuola fino a questo momento sembra promettente. Un giorno tra i compiti da svolgere ce ne era uno che lo invitava a ricostruire la storia della sua infanzia (quella di cui non si ha memoria) facendo domande agli adulti e cercando tra i suoi vecchi giocattoli, gli oggetti usati quando era neonato e ovviamente le fotografie e i filmati. L'idea non era niente male e penso puntasse a far capire il concetto di fonte storica, di reperto storico, per ricostruire avvenimenti del passato di cui non abbiamo avuto (o non conserviamo nella memoria) un'esperienza diretta.

Un concetto da trasmettere che mi sembra cruciale è quello dell'estrapolazione degli avvenimenti a partire dalle fonti, quello della ricostruzione storica, e soprattutto di quanto questa cosa possa essere incerta e soggetta a cambiamento. Non è detto che gli antichi egizi fossero proprio così come li racconta il libro che ho davanti, e questo credo sia importante da tener presente. In relazione alle fonti che ho posso fare solo una serie di ipotesi più o meno plausibili. Certamente un bambino impara attraverso racconti ben definiti ma se deve imparare la Storia è necessario che capisca subito che tutto può essere reinterpretato, riletto diversamente. L'essenza della ricerca storica e della storia stessa è questo. Si tratta di una ricostruzione plausibile a partire da fonti, non di un racconto.

Tanto per prendere un argomento di grande fascino per tutti i bambini: i dinosauri erano proprio così come li troviamo descritti nei libri e nei film? Ma sono esistiti veramente? E come facciamo a saperlo? Un bambino tipicamente tende a non distinguere un dinosauro da un drago, o meglio, tende a considerarli reali entrambi. Quello che sospetto è che se non impara a fare delle distinzioni il prima possibile un giorno tenderà a considerarli (magari inconsciamente) entrambi irreali. Eventualmente tenderà a conservare un vago principio di autorità, l'unica cosa che forse gli è stata trasmessa: i dinosauri sono esistiti perchè ho sempre sentito dire così, ma alla fine chissenefrega.

Insomma in questa prima fase dell'educazione è il concetto di Storia che deve essere comunicato, più dello studio della Storia in sè, e anche se c'è sempre l'occasione di maturare in seguito io vedo il pericolo (spero comunque raro) di mancare a questo appuntamento, e da un certo punto in poi di non avere più modo di recuperarlo appieno.

Quando facevo le scuole medie inferiori avevo in classe due ragazze pluribocciate. Una di loro me la ricordo come una ragazza in gamba anche se totalmente aliena all'ambiente scolastico. Un giorno, per giustificare l'ennesima impreparazione, questa volta in Storia, se ne uscì con una frase intelligente, talmente tanto da lasciare "spiazzata" l'insegnante e non in grado di formulare una buona risposta. Talmente tanto da rimanermi stampata nella memoria. Disse semplicemente: "a professorè, io alla storia non ci credo, so' cose inventate, come fanno a sape' che so' successe?".

sabato 3 settembre 2011

Intelligenza Meccanica

Molti anni fa mi capitò per puro divertimento di scrivere un programma che giocava a Master Mind. Mi era riuscito abbastanza bene, ricordo che arrivava alla sequenza nascosta in genere nel giro di due o tre tentativi (che sono poi quelli che normalmente servono). La cosa carina è che poteva giocare con se stesso "senza saperlo", ovvero si generava la sequenza nascosta, tentava di indovinarla "come se non la conoscesse", si dava i punteggi ad ogni tentativo "come se la conoscesse", infine la indovinava, tutto da solo. Non ricordo più come lo realizzai, e ho ormai da tempo perduto sia il codice sorgente che l'eseguibile. Un giorno forse mi divertirò a riscriverlo.

Quello che mi colpiva era che, a differenza di tutti gli altri programmini che facevo sempre per divertimento, questo mi sembrava dotare il computer di una qualche intelligenza. Il Master Mind è un gioco che richiede una certa dose di riflessione e una certa capacità di ragionamento logico e queste sono indubbiamente caratteristiche che classicamente attribuiamo al comportamento intelligente. Il programma, nella versione che prevedeva la sfida con un giocatore umano, era anche in grado di battermi, specialmente se non riflettevo abbastanza sulla formulazione dei tentativi (e se il punto di partenza era a suo favore). La capacità di giocare è una di quelle caratteristiche che da sempre si riescono ad implementare bene in un computer, si pensi al gioco degli scacchi, e che al contempo colpiscono di più, proprio in relazione all'impressione di "comportamento intelligente" che inducono nello spettatore.

Ricordo che alla fine archiviai la questione con una osservazione che più o meno ricalca un classico della critica all'intelligenza artificiale: il mio programma non faceva niente di più di quanto la mia intelligenza gli aveva detto di fare (questo risultava anche autolusinghiero). Effettivamente la caratteristica principale del computer relativamente al gioco era la capacità di eseguire un calcolo che gli era stato "insegnato" con formidabile precisione, una cosa innaturale per un essere intelligente (cioè per noi, in quanto l'unico modello di intelligenza evoluta di cui disponiamo siamo proprio noi stessi). E al contrario, sempre rispetto a ciò che gli era stato "insegnato" non era in grado di aggiungere assolutamente nulla di originale, una cosa altrettanto innaturale per un essere che si possa definire intelligente.

Poi c'era ovviamente la critica al fatto che l'intelligenza nella sua globalità è una cosa molto più complessa di quella che eventulamente poteva esprimere il computer programmato per giocare semplicemente a Master Mind. Ma questa è una di quelle affermazioni generali che hanno il solo scopo di scoraggiare qualunque indagine sull'intelligenza, e che risultano dunque osservazioni sterili. Pensare di ritagliare una qualche attività particolare e verificare se si riesce, solo nell'ambito di quella, a tirar fuori un comportamente intelligente, mi sembra già moltissimo. Il problema nel mio caso era che il gioco del Master Mind è talmente deterministico che non c'è spazio per fare cose in più o cose diverse rispetto a quello che stava facendo il programma. Si trattava di fare solo le cose bene, in modo preciso e senza sbagliare. Questo era richiesto alla macchina. Peraltro la caratteristica del gioco di essere deterministico è anche quella che facilita molto la stesura di un algoritmo e dunque l'implementazione di un programma in un qualche linguaggio.

Forse il punto chiave (o comunque un punto interessante) è proprio "quello che chiedo" alla macchina. Da qui nasce una delle osservazioni più divertenti e al contempo profonde che caratterizzano le molte riflessioni sull'intelligenza artificiale fatte da Alan Turing in alcuni suoi scritti a cavallo tra la fine degli anni quaranta e gli inizi degli anni cinquanta, raccolti in un volume dal titolo "Intelligenza Meccanica". Il punto è che fintantochè chiedo alla macchina di eseguire alla perfezione e senza errori degli algoritmi precostituiti (procedure perfettamente deterministiche) non posso sperare di osservare un comportamento veramente intelligente. Ad esempio si potrebbe prevedere (e tollerare) che la macchina in molte situazioni compia degli errori e faccia nuovi tentativi, perchè forse questo comportamento è essenziale per l'intelligenza molto più di quanto non si pensi. Dice Turing: "E' facile per noi considerare queste sviste [quelle umane] come non rilevanti e dare al ricercatore [all'essere umano] un'altra possibilità, ma alla macchina non viene riservata alcuna pietà. In altre parole, se si aspetta che la macchina sia infallibile, allora essa non può anche essere intelligente".

Un'altra caratteristica del mio computer che giocava a Master Mind, negativa dal punto di vista dell'eventualità di manifestare intelligenza, era il fatto che la macchina aveva "interagito" con l'esterno una sola volta, al momento dell'immissione del programma che le "insegnava" un certo comportamento e la induceva a seguire sempre e solo quello che l'algoritmo prevedeva. Ovviamente nella versione in cui giocava con un avversario il computer riceveva dall'esterno durante il gioco i punteggi delle sequenze "immaginate" ma questo tipo di interazione rimane "all'interno" dell'algoritmo e ne costituisce i dati in input. Anche questo aspetto è stato indagado da Turing, che effettivamente considerava essenziale la possibilità di far interagire la macchina con l'esterno, proprio nel senso di aggiungere istruzioni in memoria, di modificare gli algoritmi già memorizzati (addirittura di farli modificare direttamente dalla macchina stessa). Permettere in qualche misura una "esperienza con il mondo esterno" che consenta di modificare progressivamente i propri algoritmi interni (anche attraverso gli errori, vedi paragrafo precedente) può essere l'equivalente di quello che fa un qualunque cervello biologico. Secondo Turing l'elemento sostanziale non è tanto la struttura fisica di un cervello ma piuttosto i processi che costruiscono il suo comportamento intelligente. Questo giustificava la sua ricerca sui dispositivi elettronico-digitali.

Quando hai davanti una macchina che è in grado di giocare con te ed eventualmente di batterti ti puoi chiedere, anche solo per gioco, se la macchina in qualche modo e in quel particolare momento "stia pensando" (visto che per giocare un uomo ha certamente bisogno di pensare). Se sei in vena (o non lo sei, dipende dai punti di vista) puoi anche tentare di chiederti se in generale le macchine possono pensare. Se lo deve esser chiesto anche Turing, ed è interessante come abbia cercato di evitare la domanda diretta, e forse anch'essa sterile, rimpiazzandola con un gioco: ci sono un uomo, una donna e un terzo soggetto che li interroga; quest'ultimo deve indovinare chi è l'uomo e chi è la donna semplicemente ponendo domande (comunicando con mezzi che non rivelino le identità). Ad un certo punto una delle due persone interrogate viene sostituita da una macchina. La domanda (che rimpiazza quella originale "possono pensare le macchine?") è se la probabilità di indovinare per l'interrogante medio siano significativamente diverse prima e dopo la sostituzione. Questo, presentato da Turing in un suo scritto come "il gioco dell'imitazione" è maggiormente noto come "test di Turing", o meglio così sono note alcune versioni stravolte utilizzate nella letteratura di fantascienza. La caratteristica più interessante è come, attraverso questo gioco, Turing sposti volutamente l'attenzione dalla definizione oggettiva di un essere pensante alla sua percezione da parte dell'uomo che gli sta davanti.

Come ho letto in un saggio su di lui "[Turing] immaginava la macchina [quello che sarà poi il computer] non tanto, o non soltanto, come uno strumento di calcolo, ma come un'opportunità di sperimentare l'intelligenza meccanica" (Teresa Numerico, Macchine non organizzate e simulazione dell'intelligenza nell'opera di Alan Turing, 2004).