mercoledì 30 dicembre 2009

Astronomia - Settima parte

(leggi la sesta parte ...)

E il concetto di sfera celeste?

La prima sensazione quando si osserva il cielo stellato è che tutti gli oggetti (almeno tutte le stelle puntiformi) siano alla stessa distanza da noi, una distanza imprecisata e impossibile da misurare in assenza di riferimenti. Questa sensazione è alla base del concetto di sfera celeste, un concetto immutato per millenni, accettato sia dalla visione di Tolomeo sia da quella di Copernico. Il punto però è che questo concetto non è necessario e a ben vedere neppure osservabile, cioè non ci sono osservazioni che lo avallano. Dunque si può insinuare il ragionevole dubbio che la sensazione di partenza sia erronea e che in realtà gli oggetti celesti siano disposti in modo da risultare a distanze diverse dalla Terra. Si può immaginare un cielo completamente diverso, non chiuso in una sfera ma aperto, forse anche infinito.

Ma per quale motivo abbiamo la sensazione precisa di uno schiacciamento di tutte le stelle su una ipotetica sfera celeste? E' facile immaginare che se ho vari oggetti immobili posti tutti a grandi distanze (anche se molto diverse tra loro) da me che li osservo, mi risulta praticamente impossibile (in assenza di riferimenti) stabilire qual'è il più vicino e il più lontano tra essi, anzi, addirittura non sò dire neppure se sono a distanze diverse oppure no. E' abbastanza raro in un paesaggio terrestre non avere dei punti di riferimento che ci permettono di fare queste valutazioni, ma nell'osservazione del cielo stellato questa è la norma. Dunque se le stelle sono tutte molto lontane da noi è quasi impossibile accorgersi se sono a distanze diverse oppure no, e ovviamente la loro luminosità può essere un'indicazione fuorviante, nel caso che le luminosità intrinseche varino da stella a stella.

Ma c'è un tipo di osservazione che ci può aiutare, ed è quella della parallasse annuale. La parallasse in poche parole è quel fenomeno che ci permette di valutare le distanze degli oggetti attraverso l'angolo sotto cui le guardiamo. E' il classico fenomeno del treno in corsa, da cui vediamo sfrecciare velocemente gli oggetti vicini mentre quelli lontani sembrano praticamente immobili, in quanto l'angolo di osservazione cambia tanto meno rapidamente quanto più è lontano l'oggetto. Ad esempio per quanto ci si sposti la luna ci appare sempre sotto lo stesso angolo di visuale, come se ci seguisse nel nostro movimento. Questo è indicativo del fatto che la luna è un oggetto estremamente più lontano di qualsiasi altro oggetto terrestre. E' ovvio che la parallasse ci può aiutare a stimare le distanze degli oggetti che osserviamo e di fatto questo è stato il primo metodo di misura delle distanze stellari. Le osservazioni necessarie per utilizzare questo metodo sono piuttosto raffinate in quanto la parallasse degli oggetti del cielo è piccolissima. Si ottengono angoli percettibili misurando la parallasse annuale, che è pari allo scarto angolare di una stella osservata a distanza di sei mesi, cioè dalle due parti opposte dell'orbita terrestre!

Misure di questo tipo fatte in maniera sistematica e paziente ci hanno rivelato un universo incredibilmente grande. Le distanze stellari dalla Terra, lungi dall'essere tutte uguali, rivelano una terza dimensione del cielo del tutto inimmaginabile a prima vista. Le costellazioni sono di fatto costituite da gruppi di stelle lontanissime tra loro, e i loro disegni nel cielo cambierebbero completamente se solo fossimo capaci di spostare il nostro punto di osservazione.

Conclusioni

Tutto quello che ho raccontato ha come punto di partenza un solo dato osservativo generale, quello del cielo stellato. Attraverso la sua capacità di osservare ed immaginare ciò che non è direttamente osservabile l'Uomo ha costruito nel corso dei numerosi secoli della sua Storia una visione coerente del mondo. Certamente incompleta. Si tratta di continuare ad osservare ed immaginare.

venerdì 25 dicembre 2009

Beneficienza

La beneficienza è un chiaro atteggiamento di destra. Nel fare beneficienza non solo non si modifica mai di un millimetro il rapporto di disuguaglianza tra beneficiante e beneficiario ma in un certo senso lo si ratifica. Doniamo una risorsa per noi irrisoria a chi non ha tramite questa nessuna possibilità di riscattarsi, cioè di modificare il proprio status.

E' un gesto umanitario, siamo d'accordo, ma sottintende una visione della società tipicamente di destra. Sappiamo bene che non possiamo portare tutto il terzo mondo al nostro livello di benessere, perchè non ce lo possiamo permettere. L' egualitarismo è un' utopia dannosa. Le cose devono rimanere così, strutturalmente le stesse. La beneficienza alla fine è del tutto funzionale al nostro modello inegualitario di società, e il suo scopo principale è quello di far star bene noi che la facciamo, sia materialmente che moralmente.

sabato 19 dicembre 2009

Lo studio è un valore

Non credo alla fine di aver mai pensato seriamente che il mio lavoro dovesse necessariamente essere legato agli studi fatti, e che questo fosse cruciale per potermi dire "realizzato", o per poter dire di aver fatto scelte "di successo". Probabilmente questo ha contribuito a fare in modo che non avessi al momento giusto la determinazione necessaria per lavorare in un modo o nell'altro nell'ambito degli studi effettuati. Forse.

Ho sempre considerato lo studio un valore in sè. Il mio lavoro non è direttamente collegato con i miei studi ma è un fatto che essi tuttora mi definiscono come persona, costituiscono una parte essenziale della mia storia culturale, formano i miei modi di pensare e con essi ho costruito la mia (imprecisa) visione del mondo.

Non riesco a distinguere lo studio istituzionale che porta a conseguire un qualche grado di istruzione dallo studio in senso lato, inteso come esercizio, riflessione, acquisizione di conoscenze affascinanti. E sono convinto che questa distinzione non vada fatta, finchè è possibile. La costruzione di conoscenze scorporate dal fascino che queste suscitano è innaturale e non lascia nessuna traccia significativa. E' fondamentalmente per questo che il titolo di studio spesso non dice assolutamente nulla di chi lo ha conseguito. Credo che ci si possa laureare in qualsiasi cosa, esame dopo esame, senza che questo costituisca una parte essenziale della propria cultura.

Ho studiato musica senza conseguire alcun titolo e questo non è mai stato un mio rammarico, semmai lo è stato quello di abbandonarla a più riprese. Nessuno sbocco professionale, "solo" conoscenze.

venerdì 11 dicembre 2009

Pollini da Fazio

"Maestro, secondo lei perchè c'è tanto pubblico che frequenta mostre di arte contemporanea, che va a vedere ad esempio Pollock, e che al tempo stesso non si avvicina altrettanto facilmente alla musica contemporanea?" dice (più o meno) Fabio Fazio rivolgendosi a Maurizio Pollini. Successivamente prova anche, provocatoriamente, a domandare che cos'è la musica contemporanea, o meglio qual'è la musica contemporanea, tra le infinite strade che la musica in generale ha percorso in quest'ultimo secolo.

Pollini cerca con difficoltà di organizzare una risposta, e da quello che esce fuori si capisce che è uno che certamente ha imparato molto bene ad esprimersi con la musica ma non altrettanto bene con il linguaggio verbale. Però anche quel poco che dice ha degli aspetti interessanti.

Intanto per Pollini la musica contemporanea è quella che vien fuori dalla lunga tradizione musicale occidentale, ed è curioso che questo debba essere sottolineato. Fazio, forse involontariamente, per fare il parallelo con la pittura cita Pollock, cioè un autore che certamente si colloca nello sviluppo della lunghissima storia delle arti figurative in occidente, e non credo ci possano essere equivoci quando si parla di pittura contemporanea. Ma non ce ne sono neanche quando si parla di architettura contemporanea o di letteratura contemporanea. I grandi della letteratura contemporanea sono spesso elencati addirittura tra i premi Nobel. Non ci si può sbagliare.

Per la musica contemporanea invece la situazione appare più incerta tanto da suscitare dubbi addirittura su che cosa sia. La sua caratteristica più evidente è che non ha pubblico, ed è ciò che infatti voleva sottolineare Fazio nella sua prima domanda. Nella seconda invece abbozzava l'ipotesi che non ha pubblico in quanto quella non è la vera musica contemporanea, cioè la musica del nostro tempo.

Pollini nel proseguire la sua risposta tira fuori un problema che è quello di sempre, cioè l'abitudine all'ascolto, che in definitiva è l'educazione musicale e quindi la cultura musicale. E qui ci infila però un'osservazione molto semplice ma non proprio così peregrina che alla fine lascia intendere che la mancanza di cultura è molto più ampia di quanto non si creda e che non è certo un problema esclusivo della musica. Lui dice: nella pittura posso dedicare ad un certo quadro il tempo che voglio, posso vedere un'intera galleria stando non più di 30 secondi davanti a ciascuna opera. La musica invece ha per sua natura una fruizione più difficile, certamente più impegnativa, obbligata nei tempi e nelle modalità.

Secondo me con questa risposta (ben poco articolata e argomentata) Maurizio Pollini vuole intendere che:
1. buona parte del pubblico che frequenta musei e gallerie ha di fatto una fruizione superficiale dell'arte, che può essere anche del tutto occasionale;
2. buona parte della produzione musicale non permette tanto facilmente una fruizione disinvolta e occasionale, tra queste c'è quella che Pollini intende per musica contemporanea (ma sicuramente non c'è solo quella);
3. la fruizione occasionale della musica porta inesorabilmente verso forme musicali più immediate ma molto spesso (anche se non sempre) ben più scadenti, contribuendo a costruire una cultura musicale media di basso livello (ampiamente sfruttata dall'industria discografica).

Se questo era quello che voleva dire Pollini sono abbastanza daccordo. Non sono sicuro che queste siano le sole motivazioni che hanno allontanato il grosso pubblico dalla musica contemporanea.

domenica 6 dicembre 2009

Conoscenza e mistero

Nel trasmettere conoscenza bisognerebbe sempre fare attenzione al suo vitale rapporto con il mistero. Intendo dire che un grande fascino della conoscenza sta nel delineare quello che si conosce insieme a quello che ancora non si conosce. Qualunque aspetto della conoscenza ha i suoi confini, spesso molto sfumati da tutti i dubbi che si possono sollevare su quello che si pensa di conoscere. Questi confini e questi dubbi sono il carburante che alimenta i progressi in qualunque ramo del sapere. Sarà anche banale ma ritengo che questo sia un elemento cruciale in qualunque insegnamento.

Questo fa sì che anche in insegnamenti di conoscenze assodate, storiche, per così dire istituzionali, il rapporto con "lo stato attuale delle conoscenze" gioca un ruolo fondamentale nel rendere quell'insegnamento vivo e interessante. Mi rendo conto che non è facile (l'insegnamento non è mai facile, di qualsiasi ordine e grado sia) ma credo anche che possa/debba essere applicato praticamente ovunque. Chi riceve l'insegnamento deve costantemente percepire che "l'oggetto conoscenza" è dinamico, pronto a cambiare, al limite anche attraverso un suo personale contributo.

Non mi riferisco solo alla conoscenza tecnico-scientifica anche se sembrerebbe che questo discorso sia applicabile soprattutto a forme di conoscenza a carattere "cumulativo". Secondo me si riesce a rendere interessante lo studio della letteratura, dell'arte, della musica, della filosofia, ecc. solo facendo riferimento a come si scrive, come si fa teatro, come si dipinge, si fa musica o si fa filosofia oggi. E soprattutto facendo capire che queste discipline non vanno solo guardate, ma possono in qualche misura anche essere praticate. L'idea del contributo attivo mi sembra di importanza cruciale. Fa si che chi riceve l'insegnamento si senta personalmente coinvolto nel processo di conoscenza, si senta dentro lo sviluppo della cultura, e che non stia lì semplicemente a subirla. Secondo me un ragazzo che cresce così avrà sicuramente maggiori possibilità di contribuire un giorno significativamente alla cultura del suo tempo.

Un insegnamento che non si pone questo problema rischia sempre di essere acritico, scontato. Nell'insegnamento delle scienze questo modo arido di insegnare è quasi una regola ("questa cosa funziona così, quest'altra cosà, punto", una collezione di nozioni scientifiche messe in fila), ma molte altre aree di insegnamento incappano spesso nello stesso problema. Il fatto scontato (raccontato come tale) rende tutta la conoscenza (e il processo di conoscenza) banale, dunque non interessante e su cui non vale la pena di perder tempo. Inoltre l'istruzione acritica genera una forma mentale nociva, e, cosa ancora più grave, l'abito mentale acritico è esso stesso un dato culturale e in quanto tale viene sistematicamente trasmesso. E' opportuno ricordare che le menti acritiche sono sempre funzionali al potere, di qualsiasi tipo e di qualunque forma.