giovedì 31 dicembre 2015

Fantozzi

I quarant'anni di Fantozzi (1975-2015) non mi hanno lasciato indifferente in quanto quarant'anni fa il suo romanzo fu per me un'esperienza particolare. All'epoca giravano i classici della letteratura per ragazzi: Salgari, Verne, London, Stevenson, ecc. Ottima letteratura per ragazzi (che oggi non si pratica quasi più), certamente migliore di quella di Fantozzi. Però la lettura di quel libro (forse proprio per contrasto con quello che avevo letto fino ad allora) fu particolarmente divertente e in definitiva indimenticabile.

Le disavventure surreali del rag. Ugo Fantozzi erano in sé molto semplici, anche tutte molto brevi e ben poco articolate (quindi adatte alla lettura di un bambino), ma era il modo in cui venivano raccontate a colpirmi. Era proprio il linguaggio usato ad avere su di me gli effetti più spiazzanti e quindi comici. Lo dimostra il fatto che in poco tempo avevo assorbito certe espressioni e le usavo continuamente. Il merito dei film (che uscirono in quel periodo e che furono la vera fortuna del personaggio, ma che io vidi in tv solo qualche anno più tardi) fu anche il fatto di cercare di conservare questa peculiarità dei romanzi, utilizzando a volte una voce narrante fuori campo.

L'anniversario lo festeggio in extremis con questo post raccontando una curiosità che a me colpì abbastanza quando la scoprii non molto tempo fa rileggendo qua e là qualche episodio dei romanzi (è una trilogia) in una edizione acquistata di recente per nostalgia.

L'episodio "fantozziano" per eccellenza, quello che credo si citi più spesso quando si parla di Fantozzi (il film), è quello de "La Corazzata Potemkin". Si tratta di un racconto contenuto nel secondo libro ("Il secondo tragico libro di Fantozzi") che non ha certo l'ampiezza e l'importanza che poi ha assunto nel film. La cosa più singolare è che il senso dell'episodio raccontato nel libro è completamente scomparso nel film. Nel film gli impiegati vengono come al solito vessati dal megapresidente che impone ferocemente le sue fissazioni, in questo caso il "cinema d'autore". Ma nel libro questo contesto non c'è, anzi non esiste proprio l'idea del tragico ambiente "impiegatizio".

Nell'episodio del libro Fantozzi è semplicemente uno che lavora in una cittadina di media grandezza, ma con dimensioni provinciali, con questa sinistra caratteristica: non si scopa mai! Poiché le serate passavano sempre in bianco e scopavano sempre "gli altri" Fantozzi alla fine crolla sulla grande valvola di sicurezza di tutti i paraintellettuali: le serate d'impegno. Si è così trasformato in un intellettuale di sinistra e ha cominciato a frequentare una cineteca.

Un intellettuale di sinistra (siamo negli anni settanta) ha ovviamente la barba, quindi anche Fantozzi. E tutti i sabati sera entra puntuale alle 21 in cineteca insieme a tutte le altre "barbe". Una "barba" domandava alla maschera con una punta di speranza (le barbe sperano sempre in "Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno" o "Mazzabubù ... quante corna stanno quaggiù" con Ciccio e Franco): "Scusi, che danno stasera?". E la maschera implacabile e con voce sarcastica: "La corazzata Potemkin, del grande maestro Sergej M. Ejzenstejn". Qui le barbe hanno un piccolo sbandamento, ma entrano con sguardo duro e risoluto.

Ovviamente la serata non si esaurisce con la visione del film ma con la tragedia del dibattito. Comincia la parte più stimolante ed esaltante della serata: il dibattito! Si alza un tipo di santone con barba e baffi da superintellettuale, sguardo illuminato da una luce interiore, ma in realtà illuminato dalla follia e dalla voglia frustrante di una serata normale a vedere Buzzanca con una bella ragazza appoggiata alla spalla. Qui compaiono quelle frasi storiche sulla Corazzata Potemkin: "... l'occhio della madre ... la carrozzella che scende la scalinata ...". E poi altre espressioni altrettanto famose (usate più o meno anche nel film): "[...] rassegna di film cecoslovacchi con sottotitoli in tedesco!", "Era stato programmato L'infanzia di Ivan: nove tempi!".

Il finale è tutto costruito attorno alla famosissima battuta di Fantozzi utilizzata con grande efficacia anche nel film. Si fa nella sala un grande silenzio, assoluto, magico. Da fondosala Fantozzi alzò il pollice della mano destra e disse timidamente: "Scusi, posso dire una cosa io?", "Prego caro ... finalmente uno nuovo ... venghi" (i santoni cadono sui verbi!). Fantozzi attraversò in un clima di grande suspense la sala, arrivò al microfono, si schiarì la voce e disse: "Per me La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!". Novantadue minuti di applausi! Era un applauso liberatorio con urla di gioia. Uscirono allora tutti come liberati da un incubo e raggiunsero la "maggioranza silenziosa" e alcuni del "blocco d'ordine" che, mangiando cioccolato e gelati, si gustavano l'ultimo film della Antonelli! Fantozzi poi era felice perchè il sabato dopo avrebbe visto il festival di San Remo.

Il Fantozzi che ci è rimasto dopo quarant'anni (anche in seguito all'abuso che ne è stato fatto nei film successivi) mi appare un po' spogliato di alcuni elementi che contribuivano a farne un personaggio di critica della società piccolo borghese dell'epoca. Questo lo ha trasfigurato in un personaggio comico più semplice e per questo più universale.

domenica 27 dicembre 2015

Guerre Stellari

Ancora me lo ricordo il primo film della saga di Guerre Stellari, visto all'epoca in una sala di seconda visione (quando ancora esistevano). Arrivammo anche in ritardo, purtroppo era già iniziato e c'era un pienone decisamente inusuale per quel cinema di periferia. Il resto della saga per me è passato molto più in sordina, gli ultimi tre film in particolare, usciti molti anni dopo, non hanno lasciato traccia e a tutt'oggi non sono sicuro di averli visti tutti interamente. D'altra parte tra la prima e la seconda serie di film è uscita la parodia di Mel Brooks ("Balle Spaziali"), veramente notevole, che ha in buona parte contribuito a cancellare il loro fascino.

Però per l'uscita dell'episodio VII, a distanza di più di trent'anni dalla saga originale, ho voluto fare un ripasso, stimolato anche dall'idea di rivedere i film in compagnia di mio figlio, che ha oggi la mia età di allora. Abbiamo rivisto i primi tre film, quelli che in seguito sono stati rinominati episodi IV, V e VI, di cui quest'ultimo episodio ne è la logica continuazione.

Del film che ho appena visto (l'episodio VII) forse non c'è molto da dire, se non cose piuttosto ovvie. Effetti speciali del livello a cui siamo ormai molto ben abituati da una produzione massiccia di film di genere che ne fanno grande uso. Continuità con i temi dei film precedenti. In particolare un uso piuttosto intelligente di questa continuità: i personaggi, gli oggetti e le situazioni di tanti anni prima sono presentati con un'aura di mito che aggiunge un certo fascino alle situazioni del film (soprattutto per gli spettatori "vecchietti" di allora).

Il ripasso invece forse mi ha colpito un po' di più. I film mi sono sembrati piuttosto "bruttini", e mi hanno annoiato abbastanza, seppure li ho riguardati con una certa curiosità dal momento che a parte il primo e alcune scene qua e là, non me li ricordavo granchè. In alcuni momenti sono proprio inguardabili: dialoghi, situazioni, personaggi, trama. Tutto mi sembra irrimediabilmente banale (solo due esempi: le macchiette odiose tra i due droidi, i dialoghi scemi tra Han Solo e la Principessa Leila). Aggiungerei che mi infastidisce (questo anche all'epoca) l'equivoco del film di fantascienza. Guerre Stellari è un film di "cappa e spada", con principesse e imperatori, guerrieri e spadaccini, dove la presenza di qualche drago non avrebbe sfigurato affatto. L'ambientazione nello spazio (peraltro totalmente finto) e l'uso di astronavi non è certo sufficiente a classificarlo come film di fantascienza. Insomma senza farla troppo lunga mi risulta proprio difficile trovare in questi film le qualità che ne hanno fatto un mito per tanti della mia generazione. Molto più facile trovarci gli innumerevoli spunti per farli diventare una parodia, come effettivamente è stato fatto.

Non avendo molto altro da osservare devo dedurre che certe caratteristiche del film sono proprio quelle che ne hanno determinato l'enorme successo. E questa è forse la cosa più interessante. Probabilmente questa saga è un esempio di arte popolare di grande efficacia, diventato per questo un fenomeno di massa. I suoi ingredienti, elaborati poco, con poca profondità e spessore, sono ben individuabili. Temi semplici e diretti come la lotta tra il bene e il male, il carattere di saga "familiare", all'interno della quale il bene e il male si confrontano. L'ambientazione "spaziale" estremamente affascinante per l'epoca anche se realizzata con mezzi tecnici in parte inadeguati (per stessa ammissione di George Lucas). Lo sfondo mistico-religioso di una non ben definita "forza" che pervade tutta la galassia.

Ma soprattutto la presenza nei film di alcune invenzioni che hanno avuto la capacità di colpire in modo duraturo l'immaginario del pubblico. Semplici ma evidentemente di grande forza. Queste invenzioni sono diventate i simboli della saga, gli elementi da commercializzare e ciò che è rimasto nella fantasia di tutti fino ad oggi. Sono la vera cifra della saga, le sue impronte digitali, e non a caso mi sembra siano state più o meno tutte riprese nel nuovo episodio. Ci si può divertire ad individuarle. L'esempio per eccellenza è la famosissima spada laser, che in un certo senso sintetizza tutta l'assurdità e il fascino di Guerre Stellari.

Nota: rimane il fatto che per me il vero capolavoro di Guerre Stellari sono le "trombe" di John Williams.

Nota 2 (questa seconda nota è stata aggiunta successivamente alla pubblicazione del post): sempre con mio figlio abbiamo completato la visione dell'intera saga; probabilmente non avevo mai visto per intero tutti i film, o lo avevo fatto a pezzi e bocconi attraverso i vari passaggi televisivi, sta di fatto che solo ora realizzo che la saga originale è la storia di Anakin Skywalker, dai primi momenti della sua infanzia, alla sua tragica morte. Non solo mi appare chiaro che si tratta del personaggio principale attorno a cui ruota tutta l'intricata vicenda ma è anche la figura in cui il bene e il male convivono drammaticamente fino alla fine. Probabilmente il motivo per cui questa cosa (non da poco!) mi era sfuggita è che per me Guerre Stellari è rimasto da sempre quel primo film che ho visto (unico) al cinema. Un film autosufficiente (a parte qualche dettaglio che lo innesta in una saga più ampia ma che si può anche trascurare) in cui invece il bene e il male stanno più o meno ognuno per affari suoi.

lunedì 30 novembre 2015

Cura dell'ambiente digitale

"Plinn ...". Un messaggio su un gruppo di whatsapp. Uno di quei gruppi creati per veicolare informazioni di servizio tra persone accomunate da una stessa circostanza ma che in buona parte non si conoscono o si conoscono poco. Apro e leggo una delle solite frasi che ti avvisano che certi cattivi (ormai solitamente degli extracomunitari) usano una tecnologia subdola per fregare la gente. Questa volta però si tratta di una cazzata talmente palese che mi chiedo come facciano le persone a rilanciare certe zozzerie. Mitiga un po' questa mia stizza il ricevere dopo un po' (dopo vari ringraziamenti, sorrisini e pollici alzati di altri "astuti" contatti del gruppo) una ragionevole risposta che recita più o meno così: "tranquilli, ho fatto un po' di ricerche in rete e sembra essere una bufala".

Ho già scritto in un altro post che internet e' una tecnologia che si accompagna ad una nuova forma di inquinamento e questo episodio, sebbene di piccolissime conseguenze, mi sembra che lo confermi molto chiaramente. La rete è prevalentemente uno spazio pubblico e in questo senso andrebbe trattato nel rispetto di tutte le persone che lo frequentano. Non si gettano cartacce in mezzo alla strada o in una piazza, così come  non si dovrebbero mandare cazzate in giro per la rete senza averci pensato bene prima. Se non si ha tempo per pensarci meglio lasciar perdere. È proprio una questione di cura dell'ambiente, un fatto ecologico.

venerdì 13 novembre 2015

Confondono le idee?

Non è la prima volta che mi capita di sentire che la frequentazione di persone omosessuali o semplicemente l'osservazione dei loro comportamenti "confonderebbe le idee" ai bambini. Questo implica che i bambini dovrebbero farsi le stesse idee sul mondo che presumibilmente si sono fatte i loro genitori.

Capisco. Un genitore non vuole solo trasferire i suoi geni ai figli ma anche le sue conoscenze, le sue convinzioni, la sua morale, in poche parole la sua visione del mondo. Mi sembra giusto.

Però sappiamo bene che è importante poter cambiare questa visione, è di fatto il nostro più grande punto di forza. Quindi quando un genitore trasferisce una propria conoscenza o convinzione dovrebbe sempre contemporaneamente poter dare ai propri figli la possibilità di metterla in discussione, confrontandola con la realtà.

Dire che il bambino non è preparato ed è troppo piccolo per elaborare l'informazione che gli si vuole nascondere è troppo spesso un'ipocrisia, come credo si possa dire in questo caso. Un genitore che nasconde una parte della realtà al figlio con la scusa che è troppo piccolo per poter capire poi finirà per evitare sempre l'argomento, finché sarà possibile.

E poi nascondere esplicitamente una realtà al figlio non significa quasi mai omettergli una cosa (che in molti casi potrebbe anche essere una buona strada, o almeno la più facile in quel momento) bensì comunicargli una cosa. La censura esplicita è a tutti gli effetti un insegnamento di per sè. E non credo sia mai un buon insegnamento.

sabato 7 novembre 2015

Due volte stupido

"Quanto viene il lavoro?"
"Sono 1200 euro ... ma facciamo la fattura? No, perchè così arriviamo quasi a 1500. Che facciamo?"
"No, guardi, mi faccia la fattura, altrimenti la dovrei pagare in contanti ... giusto?"
"Eh beh ..."
"Allora preferisco farle un bonifico, per me è più facile, mi faccia la fattura"
"Certo che è un peccato, magari le fatturo solo 200 euro ..."
"No, guardi, vale lo stesso discorso, preferisco il bonifico che faccio prima"
"Vabbè, io lo dicevo per lei ....".

Lo dicevi per me? LO DICEVI PER ME?!?!

Ieri mattina alla radio un giornalista faceva un discorso molto semplice. Immaginiamo un lavoratore dipendente, che paga obbligatoriamente tutte le sue tasse allo Stato. Supponiamo che si senta uno stupido nel farlo, e per questo motivo preferisca far fare i lavori in nero, almeno si risparmia l'iva e per quel che può lo Stato per quelle volte riesce a fregarlo.

Consideriamo adesso il professionista che esegue il lavoro in nero, e che fa questo regolarmente. Costui riesce ad evadere interamente le sue tasse, intasca tutti i suoi soldi e non contribuisce a finanziare nessun servizio pubblico. Ma molto probabilmente quei servizi pubblici che non finanzia saranno disponibili (per quel poco che valgono) molto più per lui che per il lavoratore che invece le tasse le paga.

Riuscirà a piazzarsi prima nelle graduatorie per l'assegnazione dei posti all'asilo nido. Riuscirà a non pagare o pagare di meno le mense scolastiche. Riuscirà a sfruttare di più il servizio sanitario nazionale, riceverà cure, analisi, farmaci. Riuscirà più facilmente a farsi assegnare una casa popolare se ne avesse bisogno. Quel poco che un servizio pubblico, scarso anche per colpa sua, può offrire al cittadino, lo offrirà di più a lui. Quando un giorno andrà in pensione, risultando nullatenente, e senza aver mai sostenuto il sistema pensionistico, riceverà una pensione sociale finanziata da chi paga le tasse, dunque dal lavoratore dipendente e con buona probabilità anche da suo figlio.

In conclusione quel lavoratore che paga le tasse e che preferisce pagare i lavori in nero è due volte stupido, perchè paga le tasse e perchè permette a chi gli fa dei lavori di non pagarle, dicendo pure che gli sta facendo un piacere. Il primo "stupido" fa rabbia, perchè è un'inciviltà definire stupido un cittadino che paga le tasse. Il secondo "stupido" è giusto, ma suggella definitivamente questa inciviltà.

domenica 1 novembre 2015

Un punto di vista, non tutta la realtà

Mi ha sempre colpito leggere in contesti scientifici frasi del tipo: "in natura non è possibile che possa succedere questo, o quest'altro". Frasi del genere sono ragionevolissime e in genere anche del tutto giustificate. Il senso è sempre che un certo fatto in natura è impossibile che si verifichi in relazione a quanto ne sappiamo del suo funzionamento fino a questo momento. La precisazione può sembrare del tutto inutile, si tratta però di ribadire che una cosa è la natura e una cosa è l'immagine che ce ne siamo fatti.

E' vero che molte volte il grado di conoscenza raggiunto è talmente consolidato che sembra superfluo distinguere ciò che conosciamo da ciò che è. Qualche anno fa venne fuori la notizia che ci fosse un'evidenza sperimentale di neutrini superluminali. La gran parte della comunità scientifica reagì con un certo scetticismo e, sebbene la prova sperimentale è sempre l'ultima parola, era anche vero che una cosa del genere metteva praticamente in crisi tutto l'edificio della Relatività. Piuttosto improbabile, visto il secolo di successi sperimentali di questa teoria. Non che la meccanica di Newton non abbia subito lo stesso destino ma in quel caso il quadro sperimentale che la metteva in crisi era certamente più complesso, non una semplice misura in aperta contraddizione con la teoria.

Sta di fatto che nell'episodio specifico il gruppo di ricerca ha in seguito evidenziato degli errori nelle misure e la bolla si è sgonfiata. Certo, episodi del genere fanno sempre pensare un po' a questioni di epistemologia. Chi indaga la natura (sia in modo sperimentale che teorico) cosa si aspetta di trovare? Cosa non si aspetta? Cosa è pronto ad accettare immediatamente e cosa no? Quanto influisce questo atteggiamento "parziale" sull'avanzamento delle conoscenze? In relazione a questo ho sempre pensato un paio di cose abbastanza ovvie: prima di tutto che il procedere delle conscenze non è così lineare come magari tende ad essere raccontato a posteriori, e poi che spesso questo procedere è determinato da mille fatti contingenti di natura completamente diversa. Materiale interessante per gli storici.

L'ultima volta che ho letto una frase che tende a confondere la realtà con come la conosciamo è stato qualche giorno fa e riguardava il principio di conservazione dell'energia. Stranamente la frase nel momento in cui l'ho letta mi è suonata tanto più dissonante in quanto si riferiva ad una asserzione ad oggi veramente indiscutibile (o a cui sarebbe veramente difficile rinunciare), che è appunto la conservazione dell'energia: "L'ambizione di questo enunciato è enorme: esso si propone come una legge universale ed eterna, valida in ogni luogo, in ogni tempo, sempre e dovunque. Come una vera legge, questo principio ci dice cosa non deve e non potrà mai succedere". In relazione a quello che stava raccontando la frase era particolarmente efficacie ma a me è subito tornata in mente una bella frase di Stephen J. Gould, che tempo fa mi ero appuntato e che casca proprio a proposito: "L'impossibile generalmente è un frutto delle nostre teorie e non una realtà della natura". Credo che l'atteggiamento che sta dietro a quest'affermazione possa sempre risultare fecondo per uno scienziato.

lunedì 26 ottobre 2015

Astrazione e generalizzazione

Normalmente si indica il rigore del ragionamento logico come l'aspetto più caratterizzante della matematica. È anche l'elemento che solitamente la fa classificare da chi non la conosce come una disciplina meccanica e quindi piuttosto arida.

Effettivamente il ferreo concatenamento logico che porta da certe premesse a certi risultati, tipico delle dimostrazioni dei teoremi, ha l'aspetto di qualcosa di inevitabile, dunque di meccanico. Tanto è vero che le costruzioni assiomatiche di certi periodi relativamente recenti della storia della matematica possono portare ad accostarla metaforicamente ad una scatola di costruzioni, dove si parte da una serie di mattoni non modificabili e da una serie di regole con cui combinarli assieme. Da questo gioco di combinazioni meccaniche vengono fuori tutte le verità matematiche, intese come tutte le asserzioni sintatticamente corrette del linguaggio, dunque accettabili in quanto dedotte dal materiale di partenza. Sarebbe solo un problema di pazienza, essendo tutte le asserzioni possibili in qualche modo già contenute negli assiomi e nelle regole di inferenza (come dire che i tipi e la quantità di mattoncini a disposizione determinano già in modo completo tutto quello che posso costruire, che in un certo senso è vero). Definito un sistema assiomatico un computer potrebbe derivarne facilmente tutte le verità (affermazioni corrette) contenute in esso (teoremi di Goedel a parte ...).

Però la cosa che veramente colpisce della matematica, per chi la studia un po', non credo che sia questo, almeno per me non è stato questo. Certo, il fascino di alcuni procedimenti dimostrativi, soprattutto di quelli studiati durante gli anni universitari, me li ricordo molto bene. La necessità di introdurre definizioni molto precise (anche se apparentemente pedanti) è un altro ricordo molto chiaro, tra l'altro lo sforzo di comprendere al meglio tali definizioni ha certamente migliorato di molto la mia comprensione della disciplina, penso soprattutto all'analisi matematica.

Ciononostante è il grado di astrattezza e il conseguente carattere di grande generalità delle affermazioni che mi ha sempre impressionato di più. Questa sua caratteristica rende la matematica estremamente "portabile" (per utilizzare un'espressione in uso nella tecnologia del software) e dunque estremamente potente. La conseguenza è che gli oggetti che definisce e le affermazioni che ci fa sopra possono tornare utili per le applicazioni più disparate, spesso in campi enormemente distanti tra loro (almeno apparentemente). In questo senso la matematica gioca anche un ruolo in qualche modo "unificante", getta ponti tra discipline che sembrano non avere nulla a che fare tra loro. Un grande merito, indubbiamente.

La prima volta che ebbi l'occasione di riflettere su questo è stato durante i corsi di matematica dei miei primi anni di studio universitario. Ricordo che la generalità delle affermazioni era un obiettivo costantemente perseguito nella disciplina, anche quando questo non sembrava a prima vista così necessario o così utile, almeno ai fini pratici. Un esempio (non l'unico) fu quello delle equazioni differenziali (ma varrebbero le stesse considerazioni per le equazioni algebriche, anche se di questo me ne sono reso conto molto tempo dopo). Come è noto si tratta di equazioni in cui l'incognita da determinare non è una variabile ma una funzione. Il punto è che tali equazioni sono tipicamente molto difficili da affrontare e le soluzioni in forma analitica sono calcolabili solo in un sottoinsieme molto ridotto di tutti i casi possibili.

Ma il calcolo delle soluzioni è l'obiettivo principale che ci si pone? O meglio, è l'unica cosa veramente interessante su cui ragionare? Per un matematico non è affatto detto che sia così. Si possono studiare proprietà di questi oggetti che non hanno a che fare con la costruzione diretta delle loro soluzioni ma che portano comunque a risultati molto interessanti, e soprattutto molto generali. Ad esempio ci si potrebbe chiedere se le soluzioni effettivamente ci sono oppure no, in quali casi e sotto quali condizioni. E non è affatto detto che per rispondere a questa domanda si debbano esibire delle soluzioni esplicite. Anzi, potrebbe essere del tutto inutile. Spesso la costruzione esplicita di una soluzione presuppone (vista la grande difficoltà dell'argomento) la necessità di mettersi in un caso particolare. Ma l'obiettivo più importante del lavoro rimane il risultato generale.

Nella teoria delle equazioni differenziali ordinarie viene impostato un problema detto di Cauchy. Ricordo come fosse ieri le lezioni (più di una) impiegate dal professore di analisi per definire, illustrare e dimostrare il risultato più importante intorno a questo problema: "dato un problema di Cauchy la sua soluzione esiste sempre ed è unica". La generalità stava nel fatto che per come era impostato non si trattava affatto di un singolo problema (non avrebbe avuto dignità sufficiente) ma di una classe di problemi, ovviamente in numero infinito. L'ulteriore fascino stava nel fatto che questa dimostrazione non era costruttiva, cioè non dimostrava l'esistenza delle soluzioni costruendole, anzi, non diceva proprio nulla sulla loro costruzione.

Per noi studenti di fisica il problema di Cauchy rappresentava la formalizzazione della famosa equazione di Newton F=ma, che esprime l'altrettanto famosa seconda legge della dinamica. Il significato di questo risultato era che dato un corpo di una certa massa sottoposto a forze, la conoscenza della sua posizione e della sua velocità in un certo istante ne determina univocamente la sua traiettoria passata e futura. Non male, valeva lo sforzo delle lezioni fatte.

Effettivamente il problema appena descritto non è poi così "portabile" e a pensarci bene neanche è stato proprio il primo esempio che mi ha fatto riflettere in modo così preciso su certe caratteristiche della matematica (probabilmente prima di esso c'è stato lo studio dell'algebra degli spazi vettoriali). Però è l'approccio allo studio di quel problema e la generalità del risultato a cui porta che mi è rimasto particolarmente impresso. Penso che sia prorio questo, la grande capacità di astrazione e di generalizzazione nell'approccio ai problemi, il punto di forza (e di grande fascino) della matematica, e che sia principalmente questo che la rende ormai indispensabile o anche semplicemente utile in quasi tutti i campi del sapere costruiti dall'uomo.

domenica 13 settembre 2015

Scattone e il suo diritto

Che poi uno dice: "ma tu lo manderesti tuo figlio a scuola con Scattone come professore?". Secondo me la risposta più corretta sarebbe: "io non dovrei neanche saperlo che mio figlio ha (uno come) Scattone come professore". Per essere più chiari Scattone dovrebbe avere la possibilità di esercitare la sua professione senza portarsi appresso tutta la sua "fama", cioè in realtà il fardello del reato per cui è stato condannato e del quale ha regolarmente scontato la pena. Questa "fama" non è altro che un pesante giudizio morale di cui a occhio e croce non si libererà più, almeno non fino a che certi giornali continueranno a prendersi la briga di "seguirlo" nella sua vita normale. Questo è un comportamento da stato etico, è inutile girarci intorno.

Lo Stato dovrebbe sottrarre il colpevole alle sue vittime (e al loro comprensibile istinto vendicativo) per sottoporlo ad un processo in cui possa avere tutte le possibilità di difendersi.

Lo Stato dovrebbe formulare in tempi relativamente brevi una sentenza di giudizio ed una eventuale pena corrispondente (appellabile).

Lo Stato dovrebbe garantire al condannato una detenzione in condizioni di rispetto dei diritti fondamentali della persona.

Lo Stato dovrebbe garantire al colpevole di un reato che ha scontato la sua pena il diritto di poter rientrare a pieno titolo nella società.

L'ultimo "dovrebbe" non è affatto secondario visto che in fondo rappresenta proprio il punto di arrivo dei primi tre. Per Scattone al momento questo punto di arrivo l'abbiamo mancato.

Nota: Scattone è stato condannato nel 2003 per l'omicidio colposo di Marta Russo avvenuto nel 1997 e attualmente ha scontato la sua pena; la Cassazione ha cancellato l'interdizione all'insegnamento e ha accordato la riabilitazione penale, con revoca dell'interdizione dai pubblici uffici e restituzione dei diritti civili e politici (fonte Wikipedia). Quest'anno Scattone ha ottenuto una cattedra in una scuola romana e la notizia riportata dai giornali ha sollevato subito una discussione sulla "opportunità" di questa assegnazione. In seguito al clamore e alle proteste Scattone ha rinunciato all'incarico.

sabato 5 settembre 2015

Nativi digitali

Credo di aver capito un po' meglio il senso dell'espressione "nativo digitale" o se vogliamo la sua importanza. Fino a questo momento penso di averla un po' fraintesa. Si usa ormai molto frequentemente come appellativo per le nuove generazioni, ovvero per tutti quegli individui che sono nati dopo l'ondata della diffusione dei computer domestici, avvenuta soprattutto nella seconda metà degli anni novanta, parallelamente alla diffusione del web, o addirittura dopo l'ondata degli smartphones. Sono nativi digitali tutti coloro che hanno avuto a che fare con i potenti dispositivi tecnologici di calcolo attuali fin dalla nascita. Che non hanno visto trasformarsi le loro vite dall'avvento dei computers e di internet perchè quando questo succedeva loro ancora non c'erano. Che non hanno dovuto fare i conti con dispositivi mai visti prima, perchè per loro non c'è stato un prima. Non hanno potuto essere nè entusiasti sostenitori della rivoluzione digitale nascente nè infastiditi spettatori succubi. Ci sono semplicemente nati dentro.

Questa espressione però è spesso associata alle abilità istintive che hanno  le nuove generazioni nell'utilizzo dei nuovi dispositivi, alla loro capacità di muoversi bene nelle nuove tecnologie, di trovarsi a loro agio con esse, di saperle gestire bene, in modo quasi innato, naturale. Di capirle. Ma tutto questo in parte è ovvio, banale, e in parte è semplicemente falso.

Posso anche capire il padre sorpreso e commosso nel vedere il proprio figlio di due anni che "sfoglia" tranquillamente le foto del touch screen del tablet, ma si tratta di un'azione che fa pure una scimmia, siamo noi che la interpretiamo come un'azione evoluta in quanto la associamo ad uno strumento evoluto (ma uno strumento tecnologicamente avanzato, proprio perché è tale, può essere utilizzato da chiunque). Ovviamente quello stesso innocente bambino fa esattamente la stessa cosa sullo schermo del televisore o su qualunque superficie che mostri un'immagine.

Posso capire quel misto di ammirazione e timore che i genitori provano per i propri figli adolescenti vedendoli whatsappare freneticamente come loro non sapranno mai fare, vuoi perchè non sanno muoversi velocemente su una tastiera di uno smartphone, vuoi perchè non sanno proprio che scrivere. Ma a parte il mero utilizzo del dispositivo l'ignoranza di fronte alla tecnologia è esattamente la stessa. La differenza è che per un genitore questo può essere motivo di timore in quanto rappresenta un'ulteriore perdita di controllo nei confronti dei figli e di quello che fanno, mentre per questi ultimi è semplicemente una figata.

Insomma se il termine nativo digitale si riferisce (come spesso mi sembra che faccia) semplicemente alle migliori attitudini che hanno le nuove generazioni ad essere utilizzatori finali della tecnologia la cosa mi appare del tutto ovvia e poco interessante. Certamente questo termine non si riferisce al grado di consapevolezza della tecnologia in uso, e non vedo come potrebbe. Le nuove generazioni da sempre non capiscono la tecnologia preesistente, la danno per scontata. Mio padre e mio zio hanno costruito un televisore, io ho sempre e solo fatto zapping. Quando un nativo digitale è infastidito perchè scopre che dove si trova "non c'è campo" non ha la più pallida idea di cosa stia dicendo. I nostri ragazzi utilizzano quotidianamente e per i più svariati motivi sistemi di calcolo programmabili eppure la stragrande maggioranza di loro non solo non scriverà mai una sola riga di codice (come invece è capitato di fare a noi, e ben prima che per alcuni di noi certe attività "ludiche" diventassero parte della professione) ma probabilmente non avrà mai molto chiaro neanche il concetto di calcolatore programmabile (quest'ultima però la definirei una lacuna culturale piuttosto grave, soprattutto nel nostro mondo).

Ma allora il termine nativo digitale può avere un significato non solo banale? Può avere senso utilizzarlo in modo interessante? Forse si. La vera grande novità culturale dei nostri tempi, ovviamente legata in modo stretto alla rivoluzione digitale, è l'accesso all'informazione. Questo aspetto da solo determina secondo me una società profondamente diversa che i nativi digitali ereditano dalla generazione precedente. E non tutte le conseguenze di questo sono immediatamente positive e ben gestibili. Le nuove generazioni, probabilmente molto più di noi oggi, avranno a che fare con l'enorme quantità di informazione sempre crescente che nessun cervello umano potrà mai pensare di processare e su cui sarà sempre più difficile potersi orientare. Una nuova forma di inquinamento, nata da una nuova grande rivoluzione tecnologica. I nativi digitali saranno le prime generazioni ad avere seriamente a che fare con le grandi potenzialità e i grandi rischi della nuova società digitale, che li obbligherà senz'altro a definire nuovi strumenti, nuove tecniche di elaborazione e di analisi, nuove linee di ricerca, nuove modalità di approccio praticamente in tutte le discipline. Nuove idee. I nativi digitali di oggi sono forse la prima generazione di una società molto diversa.

La rivoluzione è appena cominciata.


lunedì 31 agosto 2015

Reducetariano

Ho sempre considerato quello del vegetariano un atteggiamento di tipo fondamentalista. Per questo non mi è mai piaciuto molto. Certamente un comportamento così radicale è più facilmente comunicabile, può diffondersi come una moda, riesce a fare tendenza, ma non mi pare poi che in tutti questi anni si sia effettivamente diffuso così tanto. Anzi, ultimamente leggevo che alcune statistiche fatte in merito a questa abitudine alimentare riportano che una buona percentuale dei vegetariani smette di esserlo, almeno rigorosamente, durante la sua vita. Ed effettivamente anche per esperienza personale mi è capitato di conoscere vegetariani che non lo sono più o che hanno reinterpretato in maniera più morbida questo comportamento.

Inoltre le motivazioni del vegetariano sono spesso quelle etiche riconducibili al principio del diritto degli animali a non essere sfruttati dall'uomo, e quindi prima di tutto a non essere mangiati. Questo concetto lo trovo veramente molto controverso, credo che possa portare ad ulteriori e più gravi forme di fondamentalismo irrazionali e pericolose (vedi le crociate contro qualunque forma di sperimentazione animale), e alla fine lo trovo anche abbastanza ipocrita. Quali forme di vita hanno diritto ad esercitarla indisturbati, e quali no? E come facciamo i conti con il fatto che alla fine la vita si ciba della vita?

Tuttavia esistono delle ragioni serie per ridurre drasticamente il consumo di carne su scala mondiale. Sicuramente delle ragioni di salute, non tanto per gli individui in crescita quanto per le persone adulte. L'eccesso di consumo di carne porta con maggiore probabilità ad una serie di patologie che abbassano il livello di salute media della popolazione in età avanzata.

Un'altra ragione importante (forse la più importante) è l'iperproduzione di carne a cui stiamo assistendo negli ultimi decenni. Iperproduzione di bovini, iperproduzione di foraggi per la loro nutrizione, coltivazioni e allevamenti sempre più intensivi. Un problema di inquinamento di dimensioni preoccupanti. Inoltre, non ultimo, anche il trattamento degli animali negli allevamenti intensivi è un fatto incivile e intollerabile. Insomma l'eccessivo cosumo di carne nelle società sviluppate si sta traducendo in uno squilibrio ambientale, uno dei tanti purtroppo.

Per un problema su scala mondiale va cercata una soluzione che possa diffondersi altrettanto su scala mondiale. E non credo che questo possa essere lo stile alimentare vegetariano. Per due motivi. Anzitutto è troppo drastico e senza mezze misure per avere un'ampia diffusione nella società. E poi perchè non è proprio necessario. Anzi, a me pare abbia anche aspetti negativi, esistono ottimi prodotti alimentari (molti italiani) basati sulla carne, prodotti di qualità che andrebbero difesi e valorizzati sul resto della produzione di massa. La riduzione del consumo di carne dovrebbe essere una riduzione selettiva, non totale.

Il termine che dà il titolo a questo post l'ho letto da qualche parte su Internet. Il suo senso è più o meno quello che ho appena scritto. La sua probabilità di diffusione su scala globale è forse maggiore della dieta vegetariana o addirittura vegana. Il suo obiettivo è importante. Mi piacerebbe essere reducetariano nel mio stile alimentare.

sabato 22 agosto 2015

Uffa, 'ste famiglie.

Non c'è niente da fare, la famiglia come nucleo sociale rischia sempre di sviluppare delle patologie. Non sto parlando di quelle gravi, che portano al divorzio o a conseguenze ben peggiori, perché direi una cosa purtroppo ovvia. Non so neanche se quello a cui sto pensando sia definibile come una patologia o forse come una fisiologia con potenziali effetti negativi.

Sto pensando a una sorta di cristallizzazione dei rapporti, un po' tra tutti gli elementi della famiglia. Probabilmente è il tempo e il vissuto che porta a questo. E forse anche la vecchiaia dei suoi componenti, sempre meno capaci di rinnovarsi o semplicemente di provare a cambiare qualcosa.

Il risultato è una specie di "rito" nei rapporti interpersonali, probabilmente dovuto ad etichettature che ciascuno costruisce all'interno della famiglia, pregiudizi cronici ma essenziali per il generale "equilibrio" famigliare. Ognuno ha un suo ruolo, ognuno pretende in un certo senso un ruolo dagli altri (positivo o negativo, non ha molta importanza, è questo il bello), quello che consente di renderlo riconoscibile.

Questo determina l'assistere a delle vere e proprie pantomime, il ritorno sempre alle stesse cose fatte allo stesso modo, sempre agli stessi litigi, con le stesse parole, con le stesse modalità, con lo stesso modo di risolverli. Anche agli stessi modi di cercare il divertimento e la tranquillità. Ripeto, probabilmente è più un aspetto fisiologico che patologico, ma è certo che sulle questioni irrisolte può diventare veramente problematico, i rapporti difficili e le incomprensioni possono avvitarsi all'infinito.

venerdì 3 luglio 2015

Il 60% non basta

Tempo fa ho avuto occasione di rivangare i tempi dell'Università con un paio di amici ed ex-compagni di studio. Per l'ennesima volta è tornata a galla dai ricordi uno degli aspetti peggiori e più sofferti di quei tempi, l'atmosfera pesante che si respirava all'epoca nel corso di laurea in fisica, chissà quanto peculiare di quella facoltà e di quegli anni oppure no. La didattica aveva degli aspetti allucinanti, dai corsi pesantissimi ed enciclopedici, difficilissimi da contenere per uno studente, ai professori che prendevano sotto gamba l'insegnamento o vessavano più o meno consapevolmente la platea degli studenti. Soffrire a lezione, passare ore a cercare di ricostruirla, rovistare su appunti tuoi o di altri alla ricerca di passaggi comprensibili, erano la quotidianità. Su tutto questo la didattica, la struttura dei corsi e gli atteggiamenti refrattari e poco disponibili degli insegnanti avevano un peso determinante. Le cose sarebbero potute andare molto meglio su questi fronti. Rimaneva il grande fascino per questi studi, ma conservato ad un prezzo sempre più alto col passare del tempo.

Era purtroppo molto frequente la sensazione che la difficoltà degli argomenti, oltre ad essere oggettiva, fosse anche in un certo senso ostentata da alcuni insegnanti, e qualche volta anche usata per scoraggiare gli studenti. Questo contribuiva a costruire un mondo chiuso, dove potevi starci a certe condizioni o non starci. Forse l'anticamera del mondo ancora più chiuso della ricerca scientifica professionale (e forse il risultato di questo).

Di seguito alcuni episodi che danno un po' l'idea. Sono in ordine cronologico.

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Il professore entra in aula, non ricordo bene se comincia regolarmente la lezione ma ad un certo punto, richiamando il risultato di una lezione già fatta in precedenza, comincia a chiedere agli studenti se si ricordano l'argomento. Le richieste diventano subito insolitamente insistenti, fatte direttamente alle singole persone. L'atmosfera, anche un po' surreale, comincia a diventare imbarazzante e fastidiosa per noi. Non sembra esserci nessuna necessità di un simile interrogatorio ma il professore non molla. Alla fine (e trascorre un tempo lunghissimo), non ottenendo risposta, anziché riprendere rassegnato la lezione come tutto sommato sarebbe normale fare, decide per un'azione plateale (e sinceramente anche un po' ridicola): abbandona l'aula. Niente lezione per quel giorno.
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Durante la lezione il professore introduce un teorema e ne comincia la dimostrazione con una serie di passaggi alla lavagna. Non si capisce niente, l'uso della lavagna è completamente disordinato, i passaggi sono incerti. Torna indietro più volte, cancella, riscrive. Sembra che quella di essere chiaro non sia una sua preoccupazione. Sembra capitato in aula per caso. Addirittura a un certo punto si ferma pensoso con il gesso a mezz'aria e dice: "ah, ecco cos'è che non va, me so' dimenticato un'ipotesi, sennò non funziona". Trova un angolino sulla lavagna e scrive l'ipotesi tralasciata fino a quel momento. Poi prosegue tranquillamente la sua lezione incomprensibile. Mortacci sua.
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È la parte finale del corso, e come spesso succede nei corsi avanzati il professore tratta delle appendici non contenute nel manuale (se ce ne è uno), indicandoci una bibliografia che può consistere in estratti di manuali (da andarsi a fotocopiare in biblioteca), in articoli pubblicati su riviste specializzate (sempre da andarsi a fotocopiare) o, nei casi migliori, mettendo a disposizione delle dispense scritte ad hoc per il corso. Fortunatamente quest'ultimo è il nostro caso, si tratta di andare semplicemente a ritirare gli appunti all'ufficio dispense. Che non eravamo poi cosi fortunati ce ne siamo accorti quando ce li abbiamo avuti in mano. Una fotocopia di un testo scritto a mano, in inglese (?!), la cui originaria destinazione d'uso sembrava diversa dal nostro corso. Il testo sembrava scritto all'impronta, tanto era poco curato e costellato di cancellature, generalmente i miei appunti si presentavano meglio. Peraltro una correzione sull'anno accademico faceva capire chiaramente che il documento così come era stato scritto la prima volta era stato riciclato per più anni. Si stentava a crederlo. Lo studio su quegli appunti ci ha reso la vita veramente difficile e ci ha inevitabilmente smorzato l'interesse dell'ultima parte del corso. Preparare il materiale con un po' più di cura e di attenzione no, eh? Lavorare un po' sulla didattica che giustifica una parte consistente del tuo stipendio no, eh? Inqualificabile.
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Era un corso difficile, veramente difficile, probabilmente il più duro che mi è capitato di fare. Lo era per tutti quei pochi che lo seguivano. C'erano alcuni testi di riferimento per studiare ma tutti complessi e molto più estesi degli argomenti trattati nel corso. Insomma si doveva studiare sugli appunti e seguire al meglio possibile le lezioni, non era possibile fare altrimenti. La dipendenza dalle lezioni del professore era tale che io per la prima volta cercavo di lavorare sugli appunti "sbobinati" di un amico che aveva seguito il corso l'anno precedente. Tutta la comprensione degli argomenti e l'interesse per essi dipendeva dal professore. Anche la fiducia in noi stessi e in quello che facevamo dipendeva molto da lui, dal momento che si trattava quasi certamente per tutti di uno degli ultimi esami che ci avrebbero orientato per il prossimo futuro (tesi, dottorato, ecc.). Ho avuto l'istinto di alzarmi e andarmene quando, nel bel mezzo di una lezione particolarmente incomprensibile, per "rassicurare" tutte quelle facce attonite e ovviamente preoccupate, se ne uscì con una frase secondo me micidiale: "non vi preoccupate se molte cose non le capite, mi rendo conto che sono difficili, mi accontento che riusciate a capire il 60% di quello che vi sto dicendo". Ma cosa stava dicendo? Ma di che 60% stava parlando? Ma no che non basta, cazzo! C'era di che stare preoccupati per il futuro. La preparazione di quell'esame, pur sapendo della relativa semplicità con cui quel professore lo conduceva (almeno questo), fu il momento psicologicamemte peggiore della mia carriera di studi.
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Per la discussione della tesi di laurea si dovevano portare due tesine di argomenti diversi da quello della propria tesi, una a carattere sperimentale e l'altra a carattere teorico. In sede di discussione veniva chiesto al candidato di esporne una, scelta al momento. Tradizionalmente la commissione sceglieva la tesina di carattere opposto a quello della tesi, cioè se la tesi era di carattere sperimentale la tesina chiesta era quella di carattere teorico, e viceversa. Nel mio caso quindi era molto probabile discutere la tesina teorica (così infatti successe). Per ottenere l'assegnazione della tesina occorreva andarsi a cercare un professore. Ricordo che anche quella semplice cosa mi metteva un po' a disagio per il semplice fatto che solitamente uno studente arrivato alla laurea, quindi dopo molti anni di frequentazione dell'istituto, non aveva ancora molta dimestichezza con il corpo docente. Decisi di provare con un giovane, uno conosciuto durante le ore di esercitazione di fisica 1 e 2 qualche anno prima. Mi sembrava più facile piuttosto che rivolgersi a professori più anziani con chissà quali e quanti incarichi e così poca disponibilità verso gli studenti. Poi era uno bravo, e faceva cose interessanti. Ricordo che non mi fece neppure entrare completamente nella stanza dove si trovava. Rimasi sulla soglia a fare capolino, con un suo collega che mi guardava imbarazzato avendo capito la situazione di difficoltà mia.
"Buongiorno, sto per laurearmi, sono qui per una tesina teorica", "No, non c'ho tempo, non se po fa .... Quand'è che te laurei?", "A settembre", "No, all'inizio de settembre parto, sto fuori", "Io ho la data della discussione a fine settembre", " È uguale, non ce sto, non se po fa", "Va bene grazie lo stesso, arrivederci". Tutto questo alzando giusto un paio di volte la testa dal computer su cui stava lavorando. Nei giorni vicini alla mia sessione di laurea l'ho visto più volte girare in istituto. Niente male, giovane ma già molto disinvolto nel fare lo stronzo con gli studenti.

domenica 7 giugno 2015

#Romasenzatomica

Sono passato quasi per caso all'ex-mattatoio di Testaccio, in realtà non tanto per caso, volevo dare una sbirciatina alla mostra "Romasenzatomica" che si tiene in uno di quei locali. Ho pensato di portarci Flavio, la mostra è piccola, non impegnativa, dedicata anche ad un pubblico giovane. Quindi per lui andrebbe bene.

Vorrei che riflettesse sull'uso delle armi, sulle guerre, sul disarmo (soprattutto ma non solo quello nucleare), sul concetto di sicurezza. Alla sua età (dodici anni) credo che sia già possibile farlo.

Vorrei discutere con lui il fatto che la conoscenza è libertà ma che la libertà è anche responsabilità di scelta, e che questo vale prima di tutto per il singolo ma anche per la società,  e che le scelte di una società ne determina i destini.

Vorrei discutere con lui il fatto che la sicurezza di un popolo non può passare per lo sviluppo di capacità offensive e non può basarsi solo sulla logica della deterrenza. La base della sicurezza sociale può essere solo l'integrazione, lo scambio culturale, la tolleranza.

Vorrei che si soffermasse a leggere questa frase: "Il bene che assicuriamo a noi stessi è in realtà precario e incerto fino a quando non sarà garantito a tutti quanti e diventerà parte della nostra vita comune" (Jane Addams, 1860-1935, premio Nobel per la Pace 1931).

Vorrei riflettesse (o cominciasse a riflettere) su tutto questo.
Mi piacerebbe farlo senza rompergli troppo i coglioni.

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La manifestazione si è chiusa e io non sono riuscito a portarci Flavio. Troppe cose da fare. Se la vita ci permettesse a tutti di essere un po' più bighelloni impareremmo tutti di più, avremmo tutti le idee più chiare e saremmo tutti dei cittadini migliori.


sabato 16 maggio 2015

Sicurezza computazionale

Fissati due numeri primi distinti p e q è molto facile e veloce calcolare il loro prodotto N, anche se i numeri in questione sono molto grandi. Per essere più precisi il numero di passaggi che servono per calcolare il prodotto di due numeri primi cresce con la grandezza degli stessi in modo solo lineare (quindi cresce, ma non poi così tanto). È sempre possibile, in virtù di un teorema che dimostra che un numero intero qualsiasi ammette sempre una scomposizione in fattori primi e che questa è unica, recuperare dalla sola conoscenza di N i due numeri primi p e q che lo compongono. Il fatto sostanziale è che questo tipo di calcolo risulta essere intrinsecamente difficile. Per dirlo meglio il numero di passaggi per calcolare una scomposizione in fattori primi cresce esponenzialmente con il numero N. Questo in pratica vuol dire che se si sceglie N sufficientemente grande (non occorre neanche esagerare troppo) si riesce facilmente a fare in modo che il tempo di calcolo sia insopportabilmente lungo, anche per un computer estremamente potente. Quindi c'è una sostanziale disparità tra chi conosce p e q (e quindi N) e chi conosce solo N. La disparità è di tipo squisitamente computazionale, cioè in linea di principio (e anche in pratica) tutti possono calcolare tutto ma alcuni calcoli hanno inevitabilmente tempi di esecuzione inaccettabili. Non riuscire a calcolare in tempi ragionevoli una cosa (ad esempio prima che qualcuno possa prendere ulteriori provvedimenti per difenderla o più semplicemente prima che il passare del tempo l'abbia resa inutile) significa non poterla conoscere. Con idee del genere, opportunamente elaborate in algoritmi crittografici da macinare al computer, si può realizzare un passaggio sicuro delle informazioni da un mittente ad un destinatario con la ragionevole sicurezza che un ipotetico intruso che intercetti il messaggio in transito non sia in grado di capirlo perché semplicemente non è in grado di calcolare in tempi sufficientemente brevi i parametri numerici che servirebbero per leggerlo. Si tratta di una sicurezza tutta poggiata sulle difficoltà di calcolo, una sicurezza computazionale. Tutta la sicurezza informatica attuale è fondata su questa idea semplice ma potente. C'è da dire però che nessuno può escludere che se un calcolo risulta difficile con tutti gli algoritmi conosciuti fino ad ora non possa esistere un qualche algoritmo non ancora formulato che renda quel calcolo addirittura banale. Non ci sono certezze in merito a questa possibilità. Per questa cosa vale solo l'esperienza. Molti problemi di calcolo sono rimasti difficili, hanno resistito a numerosi tentativi di semplificazione e non sembrano poter cedere così facilmente. La scomposizione in fattori primi è uno di questi. Curiosamente la complessità computazionale di molti problemi di calcolo non è quasi mai garantita a priori (cioè attraverso teoremi generali) ma la sicurezza computazionale che da essa deriva per quanto "non assicurata" è lo strumento più potente che abbiamo per proteggere le nostre informazioni su internet.

Nota: rileggendo questo post prima della sua pubblicazione mi accorgo che rimane oscuro un passaggio che però (soprattutto a fini pratici) va certamente sottolineato: chi mi fornisce i due numeri primi p e q molto grandi? E quanti ce ne sono di questi numeri? Se fossero dieci in tutto un algoritmo di sicurezza informatica poggiato su di essi non avrebbe senso. La risposta alla seconda domanda è forse scontata ma è troppo importante per non dirla: i numeri primi sono infiniti, anche se la loro densità scende mano mano che si va avanti nella serie dei numeri naturali. La risposta alla prima domanda è meno scontata e anche questa va detta: i cosiddetti test di primalità, cioè i metodi per stabilire se un numero è primo o no, e quindi anche i metodi per ricercare numeri primi, sono basati su algoritmi molto più veloci di quelli che si conoscono per la fattorizzazione. E' essenzialmente su questo che si basa la disparità di natura computazionale di cui parlo nel post.

venerdì 8 maggio 2015

Catastrofi naturali

Mi colpisce sempre che a tutt'oggi di fronte a disastri naturali come quello del recente terremoto in Nepal ci sia sempre qualcuno nei mezzi di informazione che si chiede "il perché di tanta sofferenza", senza però far riferimento alla colpevole mancanza di azione preventiva, vera causa del grande tasso di mortalità in questi eventi, e alle sue tante e significative motivazioni, come quelle che potrebbero essere suggerite dal fatto di riscontrare sciagure di questa entità quasi esclusivamente in paesi del terzo mondo.

Il "perché di tutto ciò, di tutta questa sofferenza" è invece posta sempre come una domanda metafisica, dunque in questo caso è del tutto inutile. Si tratta di un classico esempio del farsi domande che non possono portare a niente, neanche se ci pensi per intere generazioni (come tutto sommato è successo). In genere viene usata da chi professa un credo religioso per suggerire la presenza, da qualche parte, di una logica superiore che però non possiamo conoscere, ma che c'è e sappiamo in fin dei conti di che si tratta. Insomma non è neanche usata come una vera domanda, è appunto un suggerimento (spesso pure inconsapevole). Inoltre dietro a questo suggerimento c'è secondo me una presunzione che ha del tragicomico.

Migliaia e migliaia di intere colonie di innocenti formiche sono scomparse sotto le scosse di terremoto. Migliaia di animali avranno fatto la stessa fine dei nostri sfortunati simili (sofferenze comprese). Innumerevoli specie viventi sono scomparse dalla faccia della terra a causa di cataclismi, drastici cambiamenti climatici e meteoriti giganti. Chissà quante civiltà aliene sono state annientate da esplosioni di supernove o da eventi naturali altrettanto spaventosi presenti nell'universo. Perché tutto ciò? Perché tutta questa sofferenza?

Abbiamo fatto molta strada in questi millenni di civiltà. Potremmo anche cominciare a farci le domande giuste su certe cose.

domenica 3 maggio 2015

Manifestazioni contro, ma contro cosa?

Si è aperta l'esposizione internazionale di Milano (Expo 2015). Cerimonie per tutta la mattinata con la presenza delle istituzioni nell'area espositiva e contemporaneamente manifestazione di segno contrario nel centro della città.

Entrambe queste due cose mi sembrano del tutto normali. E' normale che un evento del genere, che sembra così importante per l'immagine internazionale dell'Italia e che risulta così costoso, abbia un'apertura ufficiale di grande risonanza. E' anche normale che sia accompagnata da movimenti di protesta di una parte della società. L'Expo potrebbe essere discutibile sotto vari punti di vista e che venga contestata è prevedibile, direi anche che è cosa auspicabile in una società democratica eterogenea. La dissidenza quando c'è è sempre un elemento positivo, fa riflettere, chiarisce le idee.

Quello che non mi sembra normale è ad esempio il movimento di protesta, come ha agito e come se ne è parlato. La manifestazione cittadina ha subìto l'infiltrazione violenta e distruttiva dei cosiddetti Black Bloc. Ormai succede praticamente sempre, ad ogni manifestazione contro tutte quelle cose che sono percepite in varia misura come una qualche forma di degenerazione del capitalismo. Ormai è anche ben evidente l'effetto che questo produce: distruzione dell'arredo urbano e distruzione dei temi della protesta. Fino al punto che uno si chiede se questi ultimi c'erano davvero.

E quello che non mi sembra normale è che i mezzi di informazione non vadano a spulciare le idee della protesta se queste ci sono, e non provino a tirarle fuori dal polverone degli estremisti violenti, anzichè indugiare scandalizzati di fronte alle vetrine rotte (a che serve? che giornalismo è?), o intervistare ragazzi sprovveduti che non hanno ben capito neppure dove si trovano.

E quello che non mi sembra normale è che passi in secondo piano il racconto dell'Expo, di come è fatta, di cosa effettivamente espone, di come è organizzata e di quali sono i suoi veri temi al di là delle luminarie e dei costumi folkloristici (e anche al di là degli scandali che ci sono stati per la sua organizzazione).

Se ci sono delle idee importanti promosse da un evento del genere, uniche a giustificarlo, e uniche a giustificare un'eventuale protesta, che venissero fuori, chiare e forti, e se ne discuta. Ma ci sono?

martedì 28 aprile 2015

Imparare e capire

Ecco, ho trovato il modo per sintetizzare il disagio che a volte provo quando mi confronto con le giovani generazioni. Questa sintesi me l'ha data un vecchio professore di fisica che ai miei tempi ancora insegnava, il prof. Carlo Bernardini, in un'intervista trovata su YouTube in cui dice tante altre cose.

Il mio personale disagio è relativo al fatto che i ragazzi in generale sono molto bravi, non gli si può rimproverare granché, vanno bene a scuola, fanno bene tante attività extra scolastiche, insomma imparano tanto. Ma spesso trovo che siano indifferenti a tutto quello che imparano, più di quello che mi aspetterei (un po' è normale), e inoltre ho la sensazione che non mettono insieme quello che imparano, cosa che secondo me genera un feedback con la loro indifferenza. Soffro il fatto che non mi sembra si facciano troppe domande.

Il punto è forse quello che dice Bernardini: imparare e capire sono due cose differenti. Purtroppo si può imparare tanto senza capire, o senza farsi troppe domande (che mi sembra la stessa cosa). E visto che le domande sono importanti me ne faccio qualcuna io: è un fatto educativo? Dipende pure questo dalla scuola? O più in generale dai contesti culturali che frequentano? Si muovono in una societa' che chiede loro di imparare troppe cose? Mi sbaglio io e non è vero niente?

martedì 21 aprile 2015

Bullismo e società futura

E' di pochi giorni fa la notizia di un ennesimo episodio di bullismo, questa volta avvenuto durante una gita scolastica. I particolari che si leggevano erano veramente sconcertanti, sia per il numero di ragazzi coinvolti contro un solo malcapitato sia per il numero e il tipo di violenze perpetrate. L'altra cosa sconcertante era che i vari articoli riportavano tutti le proteste di molti genitori di quei ragazzi contro la decisione della preside di sospenderli e di metter loro una grave insufficienza in condotta, con il rischio di perdere l'anno.

Ci sarebbe da chiedersi quanti genitori tra tutti noi avrebbero tentato lo stesso comportamento giustificatorio nei confronti dei figli (basterebbe meno di quanto si pensi: "mio figlio non ha fatto materialmente nulla, era solo presente, si trovava lì perché c'erano tutti", ecc.). Ma la cosa ben peggiore è immaginare quante persone in cuor loro pensano che molto probabilmente quei ragazzi "vivaci" e "un po' spericolati" avranno in media più successo nella vita rispetto al "povero sfigato" che hanno trattato in quel modo.

Io ho paura che alcuni di quei ragazzi (quel tipo di ragazzi) potranno essere in grado di trasformare la loro stronzaggine, il loro disprezzo per le persone in vero e proprio "pelo" con cui ottenere, in una società che sostanzialmente li giustifica e li favorisce, posizioni di potere e di responsabilità. Ho paura che questi continueranno a usare violenza su persone, cose, ambienti, patrimoni, dove potranno e finché gli sarà possibile. La scuola prima di tutto e poi la società civile non dovrebbero mai permetterlo.

domenica 12 aprile 2015

Come funziona?

Come funziona un gioco per computer? Come si fa a farlo?
Boh, comunque c'è gente che lo fa, io ne posso comprare quanti ne voglio.

Come funziona un computer? Con che logica è costruito? Quali sono le sue caratteristiche essenziali?
Non so, comunque ce ne sono tanti in giro, più potenti, meno potenti (che vuol dire esattamente?), con più memoria, meno memoria (cioè?), quando mi servono li compro e li uso.

Come funziona Internet? O meglio, esattamente che cosa è? Da cosa è costituita? Come fa a fare quello che fa?
Bah, comunque col wireless di casa esco su internet quando mi pare (se funziona) e ci faccio un sacco di cose.

Come funziona un libro? Cioè come si fa a scrivere un libro? O semplicemente a scrivere qualcosa? Come si scrive un romanzo o un saggio? Da dove si parte?
Non c'ho mai pensato, ne ho anche letti pochi di libri e non ho mai scritto una riga, comunque ce ne stanno tantissimi, quando mi va (già, quando mi va?) vado in libreria e ne compro quanti ne voglio, ci faccio spesso dei regali quando non ho altro di meglio in mente.

Come funziona un film? Cosa serve per farlo? Come si fa a girare tutte quelle scene? E dopo? Come si mettono assieme?
Oh, troppo difficile, poi che m'importa, al cinema ne vedo tanti, un sacco di gente fa film, più di quanti ne possa vedere, tante volte li scarico da internet (a proposito, in che modo?) ma poi non li guardo.

Come funziona un brano musicale? Come è costruita una canzone? In che senso è fatta su un giro di accordi? Che cosa è una tonalità? In che modo potrei scrivere una musica?
Si, buonanotte, è arabo, tutti segni strani. Accendo la radio e via. Questa mi piace, questa non mi piace, questa mi ricorda quando ero giovane.

E una poesia? E un palazzo? E un televisore? Un laser? Una città? Una rete di metropolitane? ....

.... ma tu che conosci? Cosa fai?
Io costruisco selle per ippogrifi, so a menadito come si fanno, per filo e per segno, ho pure studiato in una scuola specializzata per imparare a farle. Ci campo, e mi basta. Tutto il resto al massimo lo compro e lo uso se mi serve, ma di conoscerlo non me ne frega un cazzo.

martedì 7 aprile 2015

Il matematico e l'ingegnere

Ho sempre pensato che l'informatica sia in sostanza una branca della matematica applicata, oppure, come mi è capitato di leggere, che la matematica sia il linguaggio dell'informatica (parafrasando una storica frase di Galileo). Non credo sia un caso che i contributi storici più importanti alla cosiddetta computer science, come la chiamano i popoli di lingua inglese, provengano da matematici, formulati in periodi in cui i computer come li conosciamo adesso non esistevano. Anche i contributi maggiori portati dagli ingegneri hanno spesso un carattere essenzialmente matematico. Non si tratta di stabilire chi è più fico tra matematici e ingegneri, casomai di capire sinceramente di cosa sono fatte e da che cosa sono maggiormente ispirate tutte quelle tecnologie che ci stanno trasformando la vita. Mi piace riportare una storiella appena letta su matematici e ingegneri che sottolinea in modo simpatico questo aspetto della paternità dell'informatica. Senza troppe pretese, senza offendere categorie. Ma di un qualche significato. Che differenza c'è tra un matematico e un ingegnere che cuociono un uovo al tegamino? L'ingegnere prende l'uovo dal frigorifero, lo poggia vicino al fornello, prende il tegamino, l'olio e il sale, accende il gas, mette il tegamino sul fornello, aggiunge l'olio e il sale e infine ci rompe dentro l'uovo. Come procede invece il matematico? Esattamente allo stesso modo. Ma supponiamo adesso che l'uovo non si trovi nel frigorifero, bensì sul tavolo. Cosa fa l'ingegnere? Prende l'uovo dal tavolo, lo poggia vicino al fornello, prende il tegamino, l'olio e il sale, accende il gas, mette il tegamino sul fornello, aggiunge l'olio e il sale e infine ci rompe dentro l'uovo. E il matematico invece? Il matematico prende l'uovo dal tavolo, lo mette nel frigorifero e così si riconduce al caso precedente. Il resto lo fa una macchina, o un ingegnere. ;-)

venerdì 27 marzo 2015

Sforzi di pensiero e pseudoscienza

Spesso l'atteggiamento di molte persone nei confronti delle conoscenze scientifiche mi sembra paradigmatico dell'atteggiamento nei confronti della conoscenza in generale. La conoscenza è un processo non una condizione. Non è che una cosa si sa o non si sa, non è che se una cosa la so non c'è altro da dire, sennò me la dici così la so. Posso trattare così le informazioni non le conoscenze. Ci sarà pure un motivo per cui si usano due termini distinti. La conoscenza delle cose è un rapporto che si costruisce col mondo, e per farlo ci vuole tempo, continuità, impegno, sforzo di pensiero.
In questa confusione tra conoscenza e informazione negli ultimi anni è sopraggiunta un'aggravante, la possibilità di informarsi velocemente su internet. La velocità di reperire notizie può scalzare l'idea della conoscenza come costruzione e può sostituirla con "se questa cosa non la so la cerco su internet e quindi poi la so". È chiaro che per le pure e semplici informazioni questo ragionamento funziona ed è di grande potenza e utilità. Se voglio ricordare il regista di un vecchio film o l'anno in cui è uscito mi bastano trenta secondi di smartphone. Ma ad esempio per gli argomenti di scienza, per capirne e dibatterne le implicazioni che spesso e sempre più ci circondano e costruiscono il nostro mondo, non è affatto così. Se voglio cercare di costruirmi una conoscenza scientifica ho bisogno di tempo. Tempo per costruire, appunto. E ovviamente tutto questo riguarda qualsiasi tipo di conoscenza. Internet mette le notizie tutte lì, su uno stesso tavolo immenso, dove qualunque cosa appare legittima e degna di attenzione come qualsiasi altra. E ovviamente a nessuno deve essere consentito di fare una selezione delle "cose buone" al posto nostro. È facile rendersi conto che l'unico setaccio possibile (e auspicabile) è costituito dalle nostre conoscenze, e quindi dalla nostra libertà. Ma se non ce ne rendiamo conto? Se non capiamo l'importanza di costruire una nostra conoscenza delle cose? Se non capiamo che questa costruzione non può passare per la lettura veloce ed estemporanea di quello che capita su Internet? Succede allora che ci beviamo le cazzate che passano in rete (quantomeno non le distinguiamo dal resto), le veicoliamo sui social e sul web ad una velocità vertiginosa e contribuiamo a montare falsità clamorose (e anche banali) che attendono al varco altre persone impreparate e pronte a veicolarle a loro volta. Direi che la cosiddetta pseudoscienza che spesso imperversa su internet (di argomenti fake ce ne sono purtroppo sempre di più) ha questa semplice ma drammatica origine.

sabato 21 marzo 2015

Belle parole (e pericolose ideologie)

Lella Costa, attrice di teatro, esponente di una "sinistra colta e intellettuale" (sembrerebbe chiamata a questo ruolo da chi l'ha invitata in trasmissione) dialoga in TV con Matteo Salvini, segretario della Lega e leader emergente della destra sociale. La discussione fa emergere una sinistra idealista contro una destra pratica e pragmatica. Un momento clou è quello in cui l'attrice, sottolineando una matrice culturale comune tra lei e Salvini, recita dei versi di una famosa canzone di Fabrizio De André sui Rom a cui Salvini risponde immediatamente a tono dicendo che tutto ciò sarebbe certamente bello ma che la realtà è purtroppo molto diversa da questa idealizzazione poetica e chiama ad una soluzione pratica ed efficiente.

La sintesi è questa: quelle di Lella Costa, di Fabrizio De Andrè, di tutta una storia culturale italiana che anche Salvini ha praticato e non nega, sono solo "belle parole". Dipingono un mondo che non esiste. Sarebbe bello, dice Salvini, ma non esiste. C'è invece una dura realtà con cui fare subito i conti, da affrontare, per cui bisogna "fare qualcosa".

E' su questo "fare qualcosa" che passa tutta la spietata ideologia di quel tipo di destra che Salvini si appresta ad utilizzare in futuro. E' un'ideologia che abbassa lo sguardo e punta dritta al "risultato". Si spoglia dei "fronzoli" di ragionamenti su un mondo complesso per applicare le solite barbare semplificazioni, che come sempre funzionano e fanno presa sul solito onnipresente cocktail di paura e ignoranza.

Un episodio televisivo indubbiamente istruttivo, sia per constatare la debolezza della cultura italiana, sia per toccare con mano a chi e a cosa questa debolezza lascia il campo.

domenica 11 gennaio 2015

Libertà e tolleranza

La strage di Parigi si presenta esteriormente così: un giornale satirico francese disegna (tra le tante altre cose) vignette che hanno come oggetto la religione islamica. Il contenuto di queste vignette viene ritenuto offensivo e dunque non tollerato dal mondo dell'Islam integralista. Per questo il giornale nel passato è stato più volte minacciato. La mattina del sette gennaio due persone armate di kalashnikov fanno irruzione al grido di "Allah akbar" nella redazione riunita del giornale ed eliminano i principali redattori.

A dispetto della semplicità con cui può essere raccontato è molto difficile secondo me leggere bene questo episodio. Analizzarne le cause, individuarne i veri responsabili, prevederne le conseguenze. Anche semplicemente spiegarne la dinamica. Troppe le domande. Come spesso succede, e come anche mi è capitato di leggere, sarà solamente la prospettiva storica a dare un'interpretazione a questo e ad altri episodi analoghi in un quadro complessivo di ampio respiro (e col senno di poi, purtroppo). È proprio il motivo per cui si dice che la Storia è maestra di vita.

Ma pur attenendomi ad una lettura diretta e forse anche un po' astratta mi vengono in mente due semplici osservazioni che si collegano direttamente a come pensare il modo più giusto di reagire ad un fatto del genere (se ne parla tanto in questi giorni).

Non tollerare la satira (comunque venga fatta) fino a pensare di eliminare fisicamemte chi la fa è simbolico di un attacco inequivocabile alle libertà fondamentali che una società deve secondo me conservare a tutti i costi. Si tratta di un patrimonio storico dell'Occidente, che già noi stessi facciamo gran fatica a conservare ma che attualmente si scontra con i valori della società islamica, almeno quella di area mediorientale (parlare di tutto l'Islam come di una cosa omogenea mi pare un'assurdità) la quale probabilmente mette in primo piano i principi religiosi e in subordine le libertà dell'individuo e per questo mal sopporta gli atteggiamenti dissacranti. Questo sembra essere un pensiero diffuso anche in chi ovviamente non reagirebbe mai sparando (e altrettanto diffuso in molte altre culture religiose, forse tutte). Quindi a me sembra veramente fondamentale ribadire in ogni nostra possibile reazione la difesa di queste libertà, e non invece negandole a nostra volta imponendo delle restrizioni generali assurde in nome della nostra sicurezza. È ovvio che i cittadini devono essere protetti ma le nostre società sono sempre più complesse e fragili, renderle veramente sicure è a mio parere una chimera. Difenderne la libertà è il nostro vero obiettivo.

Un assassinio di cittadini liberi europei ad opera di altri cittadini europei ma di origine e cultura islamica mediorientale, motivato dalle questioni di principio appena discusse, alimenta lo scenario di uno scontro tra civiltà, tra oriente e occidente, come dice Giuliano Ferrara in un modo disgustoso ma molto chiaro "una guerra tra oriente islamico e occidente cristiano-giudaico". Ma la società del futuro, quella del cosiddetto mondo globalizzato, dovrà essere costruita sul valore della convivenza pacifica tra culture diverse, sul valore della tolleranza. Non possono essere contemplate altre soluzioni. Sul piano del credo religioso l'unica vera soluzione è la società laica, verso la quale l'Oriente islamico dovrà col tempo approdare, e a cui anche noi dovremo tendere sempre di più nel futuro.

I segnali sinceramente non sono incoraggianti, leggo cose bruttissime in giro, strumentalizzazioni di ogni tipo, guerre sante, attacchi indiscriminati all'Islam, razzismi, purtroppo anche pericolose critiche alla libertà di espressione.

Ma quella che ho scritto a me sembra l'unica via di un futuro possibile.