venerdì 25 settembre 2009

Astronomia - Quinta parte

(leggi la quarta parte ...)

Aguzziamo la vista: non tutte le stelle fisse sono veramente fisse

Non è molto facile accorgersene, le osservazioni devono essere proprio molto metodiche e attente, ma quello che si può osservare è che esistono nel cielo stelle "non fisse", ovvero stelle che non si muovono solidali con tutta la sfera celeste e che hanno invece un moto proprio di natura molto simile a quella del sole e della luna. Di simile hanno il fatto che questi oggetti si trovano tutti in prossimità dell'eclittica. Di diverso hanno invece il fatto che il loro moto sulla sfera celeste non avviene sempre nello stesso verso, da ovest verso est, ma ogni tanto cambia direzione (e viene chiamato retrogrado). Per questo motivo sin dalla loro scoperta sono stati chiamati pianeti. Pianeta è un termine derivato dal greco, che significa errante, proprio in riferimento a questi movimenti poco prevedibili descritti nel cielo. I pianeti visibili ad occhio nudo (e quindi conosciuti sin dai tempi antichi) sono cinque: mercurio, venere, marte, giove e saturno. Per le qualità del loro moto si dividono in due gruppi: i pianeti inferiori (mercurio e venere) e i pianeti superiori (marte, giove e saturno). I pianeti inferiori rimangono sempre piuttosto vicini al sole e realizzano una specie di oscillazione intorno ad esso, sono quindi visibili tipicamente bassi sull'orizzonte poco dopo il tramonto o poco prima dell'alba. I pianeti superiori invece riescono ad allontanarsi dal sole fino a mettersi in opposizione ad esso, ma nel fare questo prima hanno un moto diretto più lento del sole, e il sole si allontana, poi lo invertono, poi torna ad essere diretto ma sempre più lento del sole, e quindi il sole li raggiunge e li supera.

Il sistema del mondo di Tolomeo

Il sistema coerente che abbiamo appena costruito tramite la capacità di osservare e immaginare è praticamente identico nelle sue linee essenziali a quello che nella storia è noto come sistema Tolemaico, conosciuto in parte già ai tempi di Aristotele, definito con grande precisione e ricchezza di particolari da Tolomeo e Ipparco nel secondo secolo dopo Cristo e sopravvissuto fino alla seconda metà del cinquecento. Sottolineo che questa concezione del mondo è albergata nella mente di innumerevoli generazioni pressochè intatta per quasi 1500 anni. Le caratteristiche principali di questa concezione sono: la Terra è un corpo sferico immobile; una seconda sfera concentrica alla Terra ma molto più grande ha un moto diurno da est a ovest e sulla sua superficie contiene tutte le stelle fisse; tra queste due sfere principali ve ne sono altre intermedie, sempre concentriche, che ospitano il sole, la luna e i cinque pianeti. Queste sfere partecipano del moto diurno della sfera più esterna (sono "trascinate" da essa) ma hanno un moto relativo in senso contrario, da ovest verso est (in un certo senso "perdono terreno" rispetto alla sfera delle stelle fisse). Questa grandiosa costruzione mentale nel corso dei secoli si è dovuta adattare al progresso delle osservazioni, e la sua semplicità è venuta meno, lasciando il posto ad una selva di sfere secondarie, chiamate epicicli e deferenti, che adattavano il modello alle misurazioni sempre più precise. In particolare a complicare decisamente tutto il sistema contribuisce il tentativo di spiegazione del moto retrogrado dei pianeti, per il quale vennero storicamente introdotti per la prima volta gli epicicli e i deferenti. Il libro di Tolomeo, l'Almagesto, è un po' la summa di tutto questo.

Proviamo a far andare l'immaginazione in direzioni diverse

Nel sistema di Tolomeo (che, sia ben chiaro, descrive bene le nostre osservazioni) ci sono due elementi importanti che derivano puramente dall'immaginazione. Uno è sicuramente il concetto di sfera celeste. E' da notare infatti che la sfera delle stelle fisse così come quelle del sole, della luna e dei pianeti, nonchè tutte le sfere secondarie, non sono osservabili, sono solo il frutto dell'immaginazione e del bisogno di utilizzare concetti unificanti, come quello appunto della sfera. Di fatto noi osserviamo solo spostamenti angolari, a cui forse è intuitivo associare la rotazione di una sfera, ma non certo necessario. Un altro elemento è quello della Terra immobile. Nessuna osservazione del cielo ci suggerisce in modo inequivocabile che la Terra è immobile. Anche questo ovviamente è intuitivo, e per secoli è stato anche corroborato da una fisica, quella aristotelica, fondamentalmente sbagliata. D'altra parte se non c'è nessun dato osservativo che ci dice che la Terra è immobile non ne esiste neanche nessuno che ci dica che la Terra è in movimento (almeno non osservazioni semplici). L'immaginazione è uno strumento potentissimo di conoscenza ma occorre essere consapevoli che a volte può portare a deduzioni sbagliate, oppure può portare a concetti inutili, non necessari, addirittura inutilmente vincolanti per il ragionamento. Quindi spesso serve altra immaginazione per andare avanti, o in altre parole può essere utile far andare l'immaginazione in direzioni completamente diverse rispetto a quelle seguite fino a quel momento.

(leggi la sesta parte...)

domenica 20 settembre 2009

I limiti della crescita

Ho letto ultimamente un articolo comparso su Le Scienze sulla questione dei limiti della crescita, ovvero sul rapporto tra crescita demografica e consumo delle risorse, in particolare il petrolio. E' un problema che secondo gli autori di questo articolo (Charles A.S. Hall e John W. Day, Jr.) è stato già ben individuato negli anni sessanta ma sottovalutato per molto tempo, e che sta riemergendo in questi ultimi anni in cui sembra che la produzione di molte materie prime e in particolare del petrolio, fondamentale per l'apporto energetico, avrebbe già raggiunto il massimo e inizierebbe a declinare.

La vera questione riguardo al petrolio non è quanto ne rimanga da estrarre, ma quanto sia estraibile con un significativo vantaggio energetico. E' evidente infatti che ciò che conta è il costo da sostenere per sfruttare una risorsa; uno degli obiettivi è ricavare molto di più di quanto si è investito. Lo studio degli autori mostra che questo rapporto si sta progressivamente abbassando. Ciò significa che si dovranno impiegare quantità sempre maggiori di energia per ricavare l'energia necessaria al normale funzionamento dell'economia.

La conseguenza più pericolosa della progressiva mancanza di disponibilità di greggio a buon mercato viene individuata dagli autori nella produzione alimentare che ad oggi, essendo altamente tecnologizzata, necessita di enormi quantità di energia ("ci vogliono dieci calorie di petrolio per produrre una caloria del cibo che mangiamo", "circa il 19% dell'energia usata negli Stati Uniti finisce nel sistema alimentare").

L'articolo lamenta anche una sottovalutazione dei problemi connessi con la crescita della popolazione in relazione alla intrinseca limitazione delle risorse: "l'idea di un collasso di una parte consistente della civiltà è tanto estranea alla mentalità dei nostri leader che siamo quasi del tutto impreparati".

Infine l'articolo non vede soluzioni a breve termine tramite il ricorso alla tecnologia, all'economia di mercato o alle fonti di energia alternative. Fa invece un discorso più ampio, e forse più radicale, indicando la strada del dibattito, portandolo anche a livello universitario, che (mi sembra di capire) coinvolge anche la possibilità di rivedere interamente il nostro modello di crescita e forse il nostro modello di società sviluppata ("Se vogliamo risolvere questi problemi ... è necessario riportarli al centro della formazione universitaria ... Sarà poi necessario insegnare l'economia non solo da una prospettiva sociale, ma anche biofisica. Solo allora avremo qualche possibilità di capire e risolvere questi problemi.").

Questa lettura mi ha fatto ripensare a Maurizio Pallante e alla sua tesi sulla decrescita, che mi ripropongo di descrivere in un prossimo post.

domenica 13 settembre 2009

Il giornalismo in Italia

L'indipendenza dell'informazione è sicuramente uno degli indicatori essenziali del buon funzionamento di una democrazia. Il regime democratico è sempre molto difficile da mantenere, e non è mai garantito solamente dalla semplice presenza di strumenti essenziali quanto formali che lo caratterizzano, come ad esempio le libere elezioni a suffragio universale, o la presenza di una carta costituzionale. La capacità di far circolare le informazioni, che alza il livello di consapevolezza dei cittadini e rende la democrazia più reale (nel senso che fornisce le chances per una reale partecipazione), è in buona parte sulle spalle della categoria dei giornalisti. Questi ultimi hanno il compito di esercitare la loro professione essenzialmente in autonomia (per quanto possibile) da qualsiasi potere, pena la produzione inevitabile di un'informazione al servizio di quest'ultimo. L'informazione dovrebbe essere uno strumento di conoscenza della società fornito al cittadino attraverso tutti i media possibili.

Purtroppo la classe dei giornalisti in Italia dà l'idea di essere in buona parte largamente compromessa con il potere tanto da rendere il sistema di informazione complessivamente molto scarso (il suo carattere di contropotere, così essenziale, viene meno). Ovviamente tra le file di quelli che appaiono compromessi si nota un largo spettro di qualità e capacità professionali, dallo scalzacani all'ottimo giornalista. E questo non sarebbe sorprendente. Quello che sorprende e che preoccupa è che più o meno indipendentemente dalle loro qualità questi giornalisti stanno tutti ugualmente in vista, su posizioni di carriera spesso invidiabili (è il motivo per cui sono compromessi).

Ovviamente i più "pericolosi" sono quelli in gamba, anche se pure gli scalzacani, messi opportunamente in posizioni strategiche, svolgono la loro "importante funzione".

Ultimamente un importante giornalista "di razza" è passato a dirigere un giornale di proprietà della famiglia del presidente del consiglio, che come si sa, in virtù di scandalosi (per una democrazia) vuoti legislativi in tema di conflitto di interessi, si trova nella condizione di poter controllare, direttamente o indirettamente, gran parte dei media nazionali.

Non ci sono ambiguità o interpretazioni possibili: questo giornalista ha deliberatamente scelto di assumere il ruolo di "picconatore giornalistico" del premier, ed è andato nell'unico posto dove ha la piena libertà di farlo. Si tratta di un giornalista capace, aggressivo, incisivo nei suoi editoriali ed estremamente astuto. Un giornalista che ha un suo pubblico, un suo bacino di lettori. Il suo ruolo di picconatore è giustificato dall'esigenza di gestire sempre più efficacemente i critici del governo, da qualunque parte provengano.

Costui ha già cominciato brillantemente il suo lavoro ed utilizza una tecnica da sempre efficace, quella di screditare chi punta il dito contro il capo (chiunque può essere screditato). Ovviamente il capo si prende il lusso di mantenere le distanze dal picconatore che lavora per lui, un gioco delle parti che consente da una parte di gettare fango sugli avversari senza assumersi dirette responsabilità e dall'altra di fare un uso politico e ricattatorio delle affermazioni pubblicate. Tutto molto chiaro.

Purtroppo questo non è un episodio isolato del giornalismo italiano e anzi mi sembra emblematico di quello che sta succedendo negli ultimi anni.

giovedì 10 settembre 2009

Povere vittime

Prendiamo ad esempio la moda ormai molto diffusa di portare i pantaloni ben al di sotto della vita, mostrando automaticamente l'elastico delle mutande, e non solo. La scomodità di questo modo di vestire è evidente, basta guardare questi ragazzi mentre camminano. Questo in fin dei conti non ha nulla di strano, vestirsi "bene" o comunque in un modo particolare spesso comporta delle scomodità.

Quello che invece colpisce negativamente è che ti accorgi che in questo modo viene mostrato un indumento (la mutanda) che altrimenti rimarrebbe nascosto. Un indumento nascosto non rientra nel "look" e quindi su di esso c'è piena libertà di scelta. Al contrario così vestendo noti che tutte le mutande esibite sono rigorosamente firmate (sui grossi elastici, in modo ben evidente). Sembrano degli sponsor, in cui però è chi li porta che paga e non il viceversa. Insomma è un esempio di come queste mode apparentemente "alternative" e "spontanee" sono in realtà dettate dai media, oppure da essi colte al volo e subito rilanciate, funzionali alla società dei consumi di cui i nostri adolescenti portano inconsapevolmente il vessillo.

Questa cosa (e molte altre dello stesso tipo) mi ricorda un paio di articoli scritti da Pasolini e pubblicati nella raccolta "Scritti Corsari". Uno è quello famoso sui capelloni, l'altro è quello sull'acculturazione (entrambi del 1973). Pasolini analizza il significato dei capelli lunghi, quelli che nascono negli anni della contestazione. Secondo lui ciò che esprimono con il loro linguaggio non verbale questi capelli lunghi è esattamente il contrario di ciò che dicono a parole (solo a parole) i ragazzi contestatori che li portano. Il loro aspetto, molto più che le loro parole, rivela chi sono:

"Le maschere ripugnanti che i giovani si mettono sulla faccia, rendendosi laidi come le vecchie puttane di una ingiusta iconografia, ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre....Essi sono in realtà andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre".

Oggi la differenza tra quello che molti giovani esprimono a parole e quello che esprimono visivamente sembra colmata. L'appiattimento sui modelli televisivi, e dei media in genere, quando c'è è totale.

"...i capelli lunghi dicono...le 'cose' della televisione o delle réclames dei prodotti".

Questi comportamenti rivelano un'assoluta mancanza di libertà, di capacità di scelta al di fuori di ciò che i media propongono.

"La loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è più difendibile, perchè non è più libertà".

L'omologazione è totale, i modelli non prevedono alternative, non prevedono particolarismi culturali, vengono imposti dai media in modo autoritario e assoluto, contro cui nessuna istituzione culturale (meno che mai la scuola) può competere.

"(la televisione) Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di 'un uomo che consuma', ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo".

Molti giovani, così pronti per loro natura ad assorbire i modelli sociali di comportamento, sono vere e proprie vittime delle forze omologanti della nostra società.