domenica 10 maggio 2020

Degenerazioni umanistiche

Un po' perchè siamo in quarantena per un'epidemia, un po' perchè ultimamente è stato più volte intervistato a questo proposito dai telegiornali della Rai, sono andato a rileggere alcuni passaggi del bel saggio di Alessandro Vespignani "L'algoritmo e l'oracolo". Vespignani è un professore di fisica e informatica alla Northeastern University di Boston, uno degli scienziati più quotati nel campo della teoria delle reti e della complessità. Ovviamente italiano emigrato, laureatosi all'Università "La Sapienza" di Roma qualche anno prima di me con il prof. Luciano Pietronero che in quegli anni insegnava (anche a me) Fisica dei Solidi.

Il libro parla delle capacità predittive che l'elaborazione statistica di grandi quantità di dati, insieme ad algoritmi appropriati, ha fornito a scienziati e ingegneri di tutto il mondo in questi ultimi anni. La capacità di raccogliere grandi quantità di dati su vari aspetti che riguardano la vita dell'uomo è una conseguenza dell'infrastruttura di rete informatica globale nata alla fine degli anni sessanta e che ha ormai raggiunto una capillarità elevatissima e su piani diversi della comunicazione: prima l'e-mail e il Web sui computer desktop, poi le apps (chat e social) sugli smartphones fino alle potenzialità del cosiddetto IoT (Internet of Things), dove qualsiasi dispositivo può essere collegato alla rete e comunicare dati.

In particolare il libro racconta un episodio interessante vissuto in prima persona dal protagonista nel 2014 e che risulta estremamente pertinente con il particolare momento che stiamo vivendo adesso (il motivo per il quale ho ripreso in mano il libro, già letto qualche tempo fa). Si tratta di come è stata affrontata l'epidemia di Ebola, nata nel febbraio del 2014 in un piccolo villaggio della Guinea, diffusasi velocemente in buona parte dell'Africa occidentale, e dichiarata ufficialmente terminata nel gennaio del 2016, con un bilancio di oltre 11000 morti.

Il compito dello staff di Vespignani è stato quello di creare delle simulazioni più fedeli possibili dell'espansione dell'epidemia sul territorio in modo da suggerire per tempo le mosse giuste al sistema sanitario locale, permettendo di giocare d'anticipo sul virus. "Un lavoro molto complesso che ha coinvolto una grande mole di dati raccolti sul territorio, anche tramite lo studio di foto satellitari di Google Maps, e che ha riunito un gran numero di competenze (biologia, matematica, economia, scienze sociali) per un totale di una mezza dozzina di gruppi di ricerca sparsi tra Europa e Stati Uniti". I modelli elaborati al computer fornivano previsioni sulla diffusione del virus analogamente a come i modelli metereologici forniscono le previsioni del tempo.

Ma rileggendo qua e là tratti di questo saggio mi sono imbattuto di nuovo in una osservazione che già all'epoca della prima lettura mi aveva colpito e che adesso voglio commentare personalmente. L'autore ad un certo punto, parlando del suo lavoro e delle potenzialità future delle tecniche da lui utilizzate scrive: "Purtroppo molto spesso studi di questo tipo sono invece sottovalutati o ridicolizzati". E chi cita ad esempio? Un giornalista italiano, ovviamente. Si riferisce infatti ad un breve articolo pubblicato su La Stampa il 6 novembre 2013, di Massimo Gramellini. Il pezzo si intitola "Abbasso gli algoritmi" ed accusa i due autori di una ricerca (Backstrom e Kleinberg) di essere "maschi intellettuali con il cuore a forma di granchio e gli occhi a forma di dollaro, che non riuscendo più a sentire niente si illudono di domare le loro insicurezze con una serie di algide formulette attinte dalla marea di dati personali che le nuove tecnologie mettono a disposizione".

La questione, tragicomica, è questa: il giornalista legge di uno studio fatto allo scopo di ottenere algoritmi predittivi sul tipo di relazioni sociali che ci sono tra gli utenti di un social, non lo capisce e ne coglie solo l'aspetto superficiale esterno, e pensa bene di criticarlo in un modo che può anche risultare d'effetto (ad un lettore di pari ignoranza sull'argomento) ma che è del tutto fuori luogo. "In sintesi: chi ha molti amici e li condivide con il proprio partner costruirà un legame resistente, mentre chi separa la sfera degli amici da quella del partner farà morire il rapporto d’asfissia. Ebbene, ci voleva un algoritmo per scandire questa ovvietà? Bastava il buon senso....." (quanta saggezza!). Secondo Gramellini lo studio non fa che predire una cosa ovvia sulle dinamiche sociali delle relazioni di coppia, ma gli sfugge totalmente che a fare questa predizione su un dominio di competenze squisitamente umane è un "algido algoritmo" che macina dati, ed è proprio questo il risultato spettacolare dalle implicazioni profonde.

Per me questo è un caso di "degenerazione umanistica", che è un modo simpatico per sottolineare quella tendenza delle persone di cultura umanistica ad ignorare ostentatamente tutto quello che riguarda la scienza e la tecnologia, considerate culture di second'ordine, per poi ovviamente permettersi di criticarle senza rendersi conto di cosa effettivamente hanno davanti, facendo leva solo su una scialba retorica d'effetto. Che però raggiunge e convince tutta quella popolazione di lettori (e secondo me ce ne sono tanti) che soffrono dello stesso complesso di superiorità su cose che non conoscono affatto.

La cosa comica è che il giornalista evidentemente non ha neppure la benchè minima idea di quanto gli algoritmi tanto odiati siano importanti nella nostra quotidianità (oltre che nella storia della nostra conoscenza) in quanto diffusi in tutti i dispositivi che lui, come tutti, usa e sfrutta come potenti strumenti di ausilio, nella vita e nel lavoro, e a cui di certo non rinuncerebbe così facilmente. Lascio le parole conclusive ad Alessandro Vespignani, se le merita: "Questo argomentare è il più deleterio esempio di un'arrogante cultura antiscientifica che critica senza capire ed esprime una classe dirigente incapace di comprendere il mondo circostante".

sabato 2 maggio 2020

Primomaggio

Ieri mattina mio figlio mi faceva notare come il silenzio di queste giornate di quarantena permetteva di ascoltare i canti degli uccelli, insolitamente presenti in sottofondo, tanti e vari. Ci domandavamo quante specie fossero a cantare insieme.

La quarantena ci ha costretti in molti a cambiare abitudini di lavoro (per chi riesce ancora a lavorare) in modo drastico e certamente in molti casi problematico e magari poco efficiente. Il cosiddetto "smart working" nella maggior parte dei casi non si può certo organizzare dall'oggi al domani in risposta ad un'emergenza sanitaria come questa senza conseguenze più o meno gravi sulla produzione (e dunque sugli stipendi). Però non può essere giudicato negativamente per questo. Dovrebbe invece sollevare un dibattito serio nella nostra classe dirigente.

Perché è innegabile che nel futuro il modello di sviluppo, e con lui anche i modelli di produzione e dunque di lavoro, dovranno cambiare. Il lavoro è un valore fondamentale, permette l'indipendenza economica delle persone, la loro libertà, il loro benessere. Quindi permette il benessere sociale e tutto quello che ne consegue. Ma è innegabile che, per come lo concepiamo oggi, ha un impatto ambientale che può essere, soprattutto nelle aree ad alta concentrazione di popolazione, di una certa gravità. La mobilità giornaliera che comporta, estesa a grandi masse di lavoratori, è una forma seria di inquinamento, che provoca traffico, stress, problemi di qualità dell'aria, consumi energetici, tempo di vita impiegato male.

Per il lavoro e per molte altre attività umane, così come le abbiamo sempre concepite, dovremo porci sempre più da qui in avanti il problema del loro impatto ambientale, e non per salvare una "natura incontaminata" (poverina, quanto soffre), ma per salvare noi stessi. Il dramma della quarantena che stiamo vivendo per una complicata epidemia virale di portata planetaria, e tutte le conseguenze che provocherà in termini di problemi economici e ulteriori squilibri sociali (come se già non ce ne fossero abbastanza) è solo uno dei possibili fatti che ci dice che stiamo progressivamente perdendo il controllo dell'habitat naturale che ci ospita in questo pianeta.

Ieri ad esser sinceri non ho festeggiato come si doveva il primo maggio, perchè dovevo necessariamente finire un lavoro utilizzando delle risorse in rete disponibili solo fino a ieri. Però diciamo che l'ho festeggiato oggi, non lavorando ed augurandomi che nel futuro, con i tempi necessari ad una trasformazione simile, i lavoratori (almeno sempre più categorie di lavoratori) possano gestirsi il tempo del proprio lavoro con sempre maggiore libertà e autonomia, mantenendo tutti i diritti già acquisiti. Credo sia la prossima importante conquista da fare nel mondo del lavoro.

Buon Primo Maggio a tutti quelli che passeranno di qui.