sabato 10 marzo 2018

Scienza e Democrazia

Ci sono espressioni che hanno una fortuna eccessiva sui media. Probabilmente perchè si ricordano bene e quindi sono facili da rilanciare ad ogni buona occasione. Purtroppo però il loro destino è anche quello di diventare degli stereotipi che dopo un po' non servono più a niente e rischiano spesso di far danno, soprattutto perchè sotto la loro semplicità nascondono delle realtà ben più complesse. Basti pensare che da un po' di tempo a questa parte non si uccidono più le donne per mille diversi motivi, si compiono solo dei "femminicidi", tutti uguali in un certo senso. Si sa, i termini con cui ci si esprime sono importanti e un linguaggio povero impoverisce inevitabilmente anche le idee che veicola. Bisognerebbe starci più attenti.

Una sentenza che ultimamente ha avuto un picco di diffusione notevole è quella che dice "la scienza non è democratica", credo introdotta nel dibattito sui vaccini, il cui scopo era in realtà quello di far capire che per poter fare delle affermazioni scientifiche bisogna essere preparati, e che quindi non tutti possono entrare nel merito di un dibattito scientifico. Una cosa ovvia, che non riguarda certamente in modo peculiare la scienza. Si potrebbe fare la stessa affermazione, con lo stesso senso, in qualunque attività specialistica che necessita di studio e preparazione.

Mi dispiacerebbe però che questa frase venisse abusata, perchè secondo me contiene dei potenziali fraintendimenti che proprio non mi piacerebbero. Mi riferisco alla possibilità di creare artificialmente una distanza tra cultura scientifica e cultura democratica, un obiettivo certamente non contenuto negli scopi di chi ha formulato e usato questa espressione la prima volta. Ma le semplificazioni sui media sono una brutta bestia.

D'altra parte ci mancherebbe pure questa, cioè che la scienza passasse per qualcosa di elitario che favorisce naturalmente organizzazioni sociali oligarchiche e tecnocratiche. Anche perchè secondo me ci sono delle buone ragioni invece per pensare proprio il contrario, cioè che scienza e democrazia sono due costrutti culturali in qualche modo complementari e che per questo hanno probabilmente bisogno l'una dell'altra.

A me pare che l'operare di una comunità scientifica sia sempre intrinsecamente democratico, e che questo sia addirittura imprescindibile in quanto direttamente collegato alla sua efficienza e ai risultati che può produrre. Non sto parlando di una democrazia formale, ovviamente non si fanno scelte a maggioranza, non si mettono ai voti le decisioni. Sto parlando di una democrazia sostanziale, cioè di un modo di intendere il lavoro in comunità basato su valori che richiamano quelli del vivere democratico: il rifiuto dell'autoritarismo, la tolleranza verso l'espressione di punti di vista diversi dal proprio e il rispetto per l'oggettività dei dati di fatto.

Chi lavora in ambito scientifico e ne ha assorbito gli atteggiamenti culturali sa che non ha senso dare valore a un'idea solo considerando chi l'ha prodotta ma in quanto si dimostri oggettivamente funzionale ad una spiegazione di fatti sperimentali noti e condivisi da tutti. L'idea deve essere convincente in sé e non perché è stata formulata da questo o quell'altro grande scienziato. Il principio di autorità viene naturalmente rifiutato perchè ci si accorge subito che danneggia il lavoro scientifico ostacolando il passaggio a nuove conoscenze. Richard Feynmann diceva: "Science is the belief in the ignorance of experts". Al contrario è ovvio che una buona idea può venire da chiunque, e la bravura è saperla cogliere. E siccome chiunque può far avanzare con una buona idea il livello di conoscenza generale la condivisione delle informazioni assume un valore primario per la comunità.

Trattare con lo stesso identico rispetto tutti gli individui di una comunità che persegue uno stesso scopo, informare tutti di quello che si sta facendo e dello stato di avanzamento delle conoscenze, predisporsi all'ascolto di qualsiasi idea avendo come unica discriminante il confronto con dati di fatto oggettivi e anch'essi condivisi e accessibili a tutti, esporsi a qualunque critica sensata e ben argomentata da chiunque sia in grado di formularne una. Tutto questo a me sembra individuare un nocciolo di valori che hanno molto a che fare con quella che dovrebbe essere in generale una comunità democratica.

L'accostamento tra scienza e democrazia sembrerebbe avere anche una sua giustificazione storica. Molti sostengono che nel passato si siano formate buone società democratiche là dove parallelamente si sviluppavano all'interno delle società stesse altrettanto buone comunità scientifiche, e che questo sia stato anche il risultato di un feedback positivo. Gilberto Corbellini, ad esempio, nell'introduzione del suo saggio Scienza, quindi democrazia, citando Timothy Ferris (The Science of Liberty) scrive: "Ferris ricorda che la rivoluzione democratica moderna è stata guidata in larga parte da individui con una formazione scientifica che è avvenuta nell'età dell'Illuminismo ed è scaturita dagli stimoli intellettuali e sociali creati dalla rivoluzione scientifica". D'altra parte "l'accrescimento della ricchezza economica e la domanda di competenze tecniche hanno stimolato i sistemi democratici moderni ad investire in modo crescente nell'educazione dei cittadini e nella ricerca scientifica, creando e alimentando in questo modo un circolo virtuoso che, attraverso l'istruzione, promuove la libertà individuale, rendendo le persone più autonome e capaci di autodeterminazione".

C'è un'altra cosa che secondo me accomuna la scienza e la democrazia. Sono entrambi sistemi di convivenza complessi, direi innaturali, e per questo molto delicati. I sistemi di valori su cui si basano possono essere solo tipici di una società avanzata, di una società con livelli di ricchezza e di istruzione sufficientemente alti e omogenei. Questi valori non solo vanno costruiti ma anche conservati, e questo è tutt'altro che scontato. Una società che abbia raggiunto uno stato avanzato di conoscenza scientifica e convivenza democratica non è detto che abbia la capacità di mantenerli, non è detto che non vadano persi. Insieme.

venerdì 2 marzo 2018

Vangeli e Costituzione

Matteo Salvini che brandisce in un suo comizio i Vangeli e la Costituzione Italiana è forse il momento peggiore che mi è capitato di vedere di questa campagna elettorale. Ovviamente sono stati tantissimi i commenti a questa uscita barbara del peggior politico italiano di questi ultimi tempi, tutti convergenti ad una stessa critica, la più ovvia: i messaggi morali contenuti nei Vangeli non sembrano essere molto in sintonia con quelli che ispirano la politica di Salvini e del suo gruppo, tanto che viene il dubbio se li abbia mai letti. Ma faccio notare che Salvini si definisce un appassionato di Fabrizio De André. Gli uomini oltre che paraculi possono essere sinceramente complessi e contraddittori.

Tanti possono essere i motivi opportunistici (soprattutto opportunistici) per tirar fuori quei testi. E' chiaro che sono utilizzati come elementi di identificazione sociale, e quindi di distinzione dagli "altri". In questo senso trovo che sia più forte il segnale dato dai Vangeli che dalla Costituzione. Il primo è un rafforzativo del secondo. La Costituzione è un trattato di convivenza sociale a cui tutto sommato ci si può uniformare piuttosto facilmente ma i Vangeli sono certamente qualcosa di più, capaci di creare un solco ben più profondo tra le persone, e quindi risponde meglio al messaggio del "noi e voi" che è l'obiettivo cercato.

I Vangeli però sono la Buona Novella per tutti, non per un popolo (come succede per altri monoteismi). Ciononstante possono essere utilizzati come elemento che distingue, che separa, che esclude. Ed è stato già fatto in tantissime occasioni nella storia del Cristianesimo. Salvini è solo l'ultimo arrivato, nessuna pretesa di originalità. Questa dunque non è una semplice "contraddizione" di una personalità "complessa" ma più seriamente una caratteristica a cui le religioni si prestano particolarmente bene. Anche i nostri tempi lo testimoniano, purtroppo.

Probabilmente un tratto caratterizzante di qualsiasi credo, di qualsiasi religione della storia, è quello di creare una coesione sociale di una forza particolare, senza confronti con altri fattori culturali, in quanto legata ad elementi sovrumani e sovrannaturali. Il gruppo sociale trae giustificazione direttamente da essi e non da semplici accordi tra uomini. Questo ovviamente da una parte favorisce comportamenti altruistici verso chi condivide lo stesso credo ma dall'altra tende a generare comportamenti aggressivi e minacciosi, di potente alterità, verso i cultori di altre credenze o verso i miscredenti in generale. Dal punto di vista evolutivo (oltre che storico) credo che queste caratteristiche abbiano avuto grande importanza, dunque ce le portiamo senz'altro appresso come un dato che può avere grande influenza sul comportamento istintivo, non elaborato razionalmente. Solleticare queste funzioni primitive in un discorso politico, che dovrebbe invece fare affidamento sulle capacità più razionali e nobili di ogni individuo, è cosa tanto facile quanto ignobile. Una rovinosa caduta di valori umani, sociali e civili. Complimenti.

(per non parlare della solita mancanza di valori laici, altro aspetto oscurantista di cui in Italia non ci si vuol liberare; da questo punto di vista l'accostamento dei Vangeli e della Costituzione in un comizio politico è di per sè un gesto tristemente eloquente).