mercoledì 28 dicembre 2022

La dottrina

Oh, capiamoci, il mondo l'ha fatto Dio, e noi siamo il meglio del meglio del meglio della sua creazione. Questo deve essere ben chiaro, altrimenti che facciamo?

Si ma gli altri animali, per esempio quelli che ci fanno compagnia durante la nostra vita?

I cani? I gatti? Beh, si, sono i nostri compagni, vivono con noi, ma siamo noi i prediletti, noi i predestinati, a noi tocca un posto oltre la morte. E poi siamo noi i loro padroni, siamo noi che mettiamo loro il guinzaglio, non viceversa. Sono loro che sono fatti per noi, non noi per loro. Una bella differenza in fin dei conti. Non ti pare?

E tutto il resto? Tutto quello che c'è là fuori?

Quale resto? E' tutto per noi, il creato è fatto per noi da Dio. Può essere complesso quanto ti pare ma è nostro. In fondo solo questo dobbiamo capire. Noi siamo il vertice della sua creazione, il nostro è un destino eterno, come il suo. Ma attenzione, noi siamo comunque parte del suo disegno, noi agiamo secondo le sue imperscrutabili volontà.

Ma lui ci ha dato la capacità di decidere, di scegliere, di farci domande, come quelle che ci stiamo facendo. Perché?

Perché ci dobbiamo arrivare da soli, o almeno avere la sensazione di arrivarci da soli, come quando dici ad un figlio di scegliere ma in realtà gli hai già suggerito la scelta, e sai che da lì non si muoverà, se hai fatto bene il tuo lavoro di genitore.

Quindi non ha senso farsi domande?

Più che altro non è la cosa importante. La cosa importante è andare a leggere le risposte. Che si trovano dappertutto, nei cosiddetti testi sacri, nei nostri genitori, nelle persone che incontriamo e nei loro comportamenti (più che nelle loro parole), nella società, nella natura. Le risposte, ovunque ti sembri di trovarle coglile. Le risposte sono rassicuranti, indicano il percorso, giustificano le tue scelte ancora prima che tu le faccia. Le risposte sono il disegno divino.

E le domande?

Le domande sono insidiose, cariche di mistero, di responsabilità, aprono strade ignote, piene di incertezze, piene di errori, anche fatali. Sei sicuro di voler voltare l'angolo senza che qualcuno prima non ti abbia detto cosa troverai?

Mi puoi fare un esempio?

Prendi la famiglia. Quante domande ti potresti fare? Come può essere composta per essere chiamata famiglia? Che ruoli distribuisce e perché? E perché si forma una famiglia? Perché anche io dovrei formare una famiglia? E con chi? Come scelgo? Posso fare diversamente? Posso vivere senza? Posso avere comunque dei figli? Posso vivere con uno del mio stesso sesso? E' sempre una famiglia? Ma è così necessario definirla? Ma è veramente la cosa importante? Mettile tutte insieme queste domande e diventi matto, ti rendi la vita inutilmente complicata. Guarda invece quello che fa la maggior parte delle persone e leggi nei loro comportamenti le risposte che ti servono, quelle che ti tranquillizzano, ti rendono la vita facile, ben inquadrata. Se hai qualche problema rivolgiti ai nostri testi sacri, loro ti illumineranno.

Ma se mi capita di osservare comportamenti strani?

Lo vedi che lo riconosci tu stesso? Vedi che da solo distingui le cose strane da quelle giuste? E' Dio che te lo suggerisce. Le cose strane non ti danno le risposte che ti servono, le cose strane ti danno problemi, fanno paura. Dietro le cose strane c'è tutto quello che noi chiamiamo peccato. Impara a riconoscerle e ad evitarle. In fondo il libero arbitrio serve per giustificare il peccato, e viceversa.

Ma Dio mi proteggerà in questo percorso?

Sempre, perché noi siamo il suo disegno, e anche se non lo conosciamo sappiamo che siamo fatti per questo. Bello no?


mercoledì 21 dicembre 2022

Neghentropia, il cibo dei viventi

Un sistema termodinamico è una qualunque porzione di spazio sede di materia ed energia e di processi che scambiano materia ed energia tra le varie parti del sistema o tra esso e l'esterno. Il sistema si dice isolato se non permette scambi di materia ed energia con l'esterno, altrimenti si dice aperto. Per un sistema termodinamico si possono enunciare due principi generali, il primo riguarda l'energia, il secondo l'entropia. Il primo principio afferma che la quantità totale di energia in un sistema isolato si conserva sempre. I processi interni possono trasferire quantità di energia da una porzione all'altra del sistema, possono trasformare l'energia nelle sue varie forme, ma in qualsiasi momento la somma di tutti i contributi rimane costante. Un principio del genere è estremamente potente in quanto stabilendo l'esistenza di una quantità rigorosamente conservata limita fortemente le possibilità di evoluzione del sistema, ci dice in pratica cosa il sistema non potrà mai fare.

Il primo principio però ci fornisce una condizione necessaria ma non sufficiente per l'evoluzione del sistema. Un processo è possibile se conserva l'energia totale ma non tutti i processi che conservano l'energia sono possibili. Molti processi che rispettano la conservazione dell'energia in realtà non possono avvenire. In un certo senso il primo principio è troppo permissivo ed evidentemente non basta a caratterizzare in modo completo quello che può succedere all'interno di un sistema termodinamico. Serve un vincolo ulteriore e questo viene introdotto con il secondo principio.

Il secondo principio ha diverse formulazioni, tutte ovviamente equivalenti ma che mettono in luce aspetti leggermente diversi. Ad esempio "l'energia meccanica di un sistema può essere interamente trasformata in calore ma il calore non può essere interamente trasformato in lavoro meccanico", e questo nonostante queste trasformazioni in entrambe le direzioni rispettino la conservazione dell'energia. Altro esempio "il calore fluisce sempre spontaneamente dai corpi caldi ai corpi freddi, cioè non è possibile che un sistema in equilibrio ad una certa temperatura ceda spontaneamente calore ad un sistema ad una temperatura più alta", e questo nonostante i passaggi di calore, sia dai corpi caldi ai freddi che viceversa, rispetterebbero tranquillamente la conservazione dell'energia del sistema complessivo. Queste due definizioni ci dicono che il secondo principio stabilisce un verso particolare ai processi laddove il primo principio non lo fa. Tecnicamente si può definire una funzione di stato detta Entropia e in tal caso il secondo principio ci dice che in un sistema isolato, in cui avvengono trasformazioni che portano da uno stato all'altro del sistema, l'entropia complessiva non diminuisce mai, rimane stazionaria o (più frequentemente) aumenta, sottolineando ancora in un'altra forma la direzionalità dei processi possibili. Un sistema termodinamico che evolve spontaneamente all'equilibrio rende massima la sua entropia totale.

L'interpretazione microscopica dell'entropia fornisce un'ulteriore formulazione del secondo principio: l'aumento dell'entropia può essere interpretato come il passaggio da uno stato del sistema relativamente ordinato ad uno di maggiore disordine, dove il grado di disordine è associato all'aumento del numero di configurazioni microscopiche che realizzano lo stesso stato macroscopico, che per questo motivo diventa uno stato estremamente probabile. Da questo punto di vista il secondo principio della termodinamica può essere riformulato dicendo che qualsiasi processo spontaneo di un sistema isolato aumenta il disordine del sistema stesso (raggiunge le configurazioni macroscopiche più probabili).

Un organismo vivente dal punto di vista termodinamico può essere definito come un sistema altamente organizzato e quindi ordinato. Questo però è un problema, perché lo stato di ordine deve essere assolutamente conservato, pena la morte dell'organismo. Se questo fosse un sistema isolato il secondo principio lo farebbe evolvere inesorabilmente in un sistema completamente disordinato massimizzando la sua entropia. Sarebbe un'evoluzione spontanea verso il degrado di tutti i meccanismi vitali organizzati, un'evoluzione verso la morte. Un organismo vivente deve quindi essere necessariamente un sistema aperto, che possa scambiare materia ed energia con l'ambiente. Il sistema da considerare ai fini del secondo principio diventa quindi l'organismo più l'ambiente, che complessivamente aumenterà la sua entropia, mentre l'organismo è un sottosistema che singolarmente può anche diminuire la propria entropia o mantenerla stazionaria a scapito del sistema totale (la diminuzione locale dell'entropia non contraddice il secondo principio). Dunque tutti gli organismi viventi sulla terra utilizzano l'energia (in ultima analisi sempre fornita dal sole, direttamente o indirettamente) non soltanto per reintegrare quello che spendono verso l'esterno ma anche per mantenere basso il proprio valore di entropia e "nutrire" costantemente di ordine, ovvero di "entropia negativa" le proprie strutture vitali. Come diceva Erwin Schroedinger "l'organismo si alimenta di entropia negativa" (neghentropia), o come diceva più poeticamente Ilya Prigogine "siamo isole di ordine in un mare di disordine".

NOTA 1: per mantenere un certo livello di ordine in un sistema serve energia, lo sanno tutti i ragazzi che sono costretti ad ordinare la propria stanza. In effetti quando si vive dentro una casa e al suo interno si svolgono varie attività quotidiane si sta utilizzando energia per eseguire processi che hanno specifici obiettivi ma che hanno sempre come effetto secondario la produzione spontanea di un certo grado di disordine. Se dopo una qualsiasi attività casalinga (come ad esempio cucinare) voglio ripristinare l'ordine precedente devo spendere energia appositamente per questo obiettivo. Il motivo di ciò sta nel fatto che le configurazioni della casa che reputiamo ordinate dal nostro punto di vista sono in numero enormemente inferiore a quelle che invece reputiamo disordinate. Questo fa sì che qualunque attività porti il sistema verso una configurazione di disordine con grande probabilità. E' un fatto puramente statistico.

NOTA 2: dal punto di vista chimico il corpo umano (come quello di qualunque altro essere vivente) è costituito sostanzialmente da acqua e da sostanze come carbonio, azoto, zolfo, calcio, sodio, fosforo e alcuni metalli, tutti presenti in percentuali varie. Praticamente l'equivalente di un bidone di acqua sporca. La differenza con quest'ultima sta proprio nell'alto grado di ordine di tutte queste sostanze organizzate in strutture complesse e processi altrettanto complessi. Questo ordine strutturale viene ricavato dalle informazioni contenute nel codice genetico, risultato di milioni di anni di evoluzione. Di per sé un organismo vivente rappresenta uno stato la cui probabilità di esistenza spontanea è sostanzialmente nulla. E' per questo motivo che si dice che l'evoluzione (responsabile della complessità di questi organismi) può essere definita come il meccanismo che rende possibili configurazioni altamente improbabili.


domenica 4 dicembre 2022

HeLa e la natura del cancro

La storia di HeLa è bella sotto vari aspetti. Racconta della prima linea cellulare umana che è stata in grado di sopravvivere e di riprodursi all'esterno del corpo umano, a tutt'oggi ancora attiva in tanti laboratori nel mondo. Le sperimentazioni su di essa hanno consentito grandi progressi nella comprensione di malattie fondamentali quali la poliomielite, l'aids, il cancro. Racconta anche del destino sfortunato della sua inconsapevole donatrice, Henrietta Lacks, afroamericana, figlia di schiavi, morta di cancro alla cervice uterina nel 1951, a poco più di trent'anni. All'insaputa sua e dei suoi familiari (all'epoca si poteva fare) le fu prelevato un campione di cellule tumorali che in seguito, messe in coltura, hanno cominciato a proliferare, dando vita ad HeLa, la sua "parte immortale". Nei decenni successivi tanto diventava famosa HeLa quanto rimaneva sconosciuta la sua donatrice, il cui nome veniva spesso addirittura riportato in modi sbagliati. La ricostruzione particolareggiata di questi eventi scientifici e umani è raccontata nel bel libro di Rebecca Skloot La vita immortale di Henrietta Lacks. Una sintesi molto ben raccontata la fa il podcast di RaiPlay "La scienza e il cuore", di Francesco Graziani, nell'episodio dal titolo "La vita breve e infinita di Henrietta Lacks".

L'idea affascinante è che la linea cellulare ricavata da un campione di tessuto prelevato ad Henrietta Lacks l'abbia resa in qualche modo immortale. HeLa è attualmente ancora attiva e non sembra dia segni di invecchiamento, almeno fintantoché le colture verranno alimentate. Non è certo il tipo di immortalità che un essere umano auspicherebbe, ma la cosa è interessante per il fatto che si tratta di cellule cancerose. E' questo aspetto (anche questo poco auspicabile per un essere umano) che rende la linea cellulare potenzialmente infinita. Le cellule normali, non cancerose, non crescono e non vivono all'infinito, né in coltura né nel nostro organismo. Il loro processo di duplicazione cessa in maniera fisiologica dopo una cinquantina di duplicazioni (si chiama limite di Hayflick), alla fine delle quali le cellule normali entrano in una fase di senescenza cellulare che le porta alla morte. Questa può avvenire in vari modi, la più interessante delle quali è l'apoptosi, il suicidio volontario della cellula. Il limite di Hayflick e l'apoptosi sono meccanismi di autoregolamentazione della popolazione di cellule dell'organismo e hanno senso solo in organismi pluricellulari, garantendo la sopravvivenza dell'individuo a scapito di unità biologiche "minori" (le cellule) che vengono sacrificate.

Evidentemente le cellule cancerose riescono a bypassare i meccanismi che regolano l'interruzione del processo di duplicazione e la morte programmata della cellula. Come sappiamo i tipi di cancro sono tantissimi (tanti quanti sono i diversi tessuti dell'organismo, a occhio e croce) e le cause altrettanto numerose. Ma il meccanismo che scatenano è sempre lo stesso, ed è riconducibile ad una serie di mutazioni genetiche concomitanti (bisogna pure essere un po' sfigati) che sappiamo peraltro essere fenomeni intrinsecamente casuali, anche se ovviamente possono essere favoriti sia da predisposizioni genetiche che da fattori esterni ambientali, e che portano la cellula a "liberarsi" da una serie di meccanismi di autoregolazione che la fanno stare in modo "disciplinato" all'interno dell'organismo a cui appartiene.

C'è un aspetto di questa malattia che appare un po' strano ma forse anche significativo. Nessuno ci guadagna dallo sviluppo della malattia perché non c'è un vero e proprio agente esterno che la provoca. Se ci ammaliamo a causa di un qualche microorganismo (batterio o virus) è un agente esterno che usa il nostro corpo e le nostre funzioni vitali per duplicarsi e diffondersi ad altri individui. Questa cosa può anche portare l'organismo ospitante alla morte ma l'obiettivo dell'agente esterno è quello di utilizzarlo il più possibile come vettore efficacie di diffusione. Invece il cancro non è affatto un'entità esterna, né si diffonde tra individui, è una parte di noi stessi che sviluppa comportamenti sbagliati e autodistruttivi. Il cancro, uccidendo l'organismo uccide anche la nicchia ecologica dove sta proliferando, e muore anche lui. Sempre che abbia senso dare al cancro una sua individualità, scollegata dall'organismo in cui si sviluppa.

Ma perché succede questo? Perché noi uomini, e in realtà tutti gli organismi superiori, ci portiamo appresso questo "cancro" da sempre? Il tentativo di spiegazione di tipo evolutivo che mi è capitato di leggere in un libro di Telmo Pievani è affascinante.

In un lontano passato la vita era unicellulare, le singole cellule si dividevano all'infinito e la morte fisiologica non esisteva. Ogni cellula era totalmente indipendente dalle altre e se la sbrigava da sola nelle difficoltà della vita. Ad un certo punto della storia evolutiva subentrò la cooperazione cellulare, cioè la convenienza a stare insieme in colonie, e contestualmente anche la differenziazione cellulare, cioè la convenienza a dividersi i compiti (sembra la nascita di una società umana). Questo evidentemente dava dei vantaggi indiscussi nella possibilità di sopravvivenza della singola cellula membro della colonia e nella sopravvivenza della colonia stessa. Ma forse c'era anche un prezzo da pagare. Ora le singole cellule facevano parte di uno stesso organismo, non potevano più farsi gli affari propri, dovevano collaborare tra loro e differenziarsi nelle varie funzioni necessarie nel modo giusto. Erano necessari meccanismi di sorveglianza sia contro attacchi esterni che contro cellule interne che non si comportavano correttamente (sembra sempre la nascita di una società umana). Se tutto funzionava i vantaggi ottenuti erano ben maggiori dei prezzi da pagare, e questo ha determinato la direzione evolutiva che ha prodotto organismi sempre più complessi, tra cui noi.

Ma la natura è perfetta? Direi di no. L'antica libertà delle cellule è evidentemente ancora scritta in qualche modo da qualche parte, soppressa da meccanismi sviluppati nel corso di milioni di anni. Alcune mutazioni che si possono accumulare in una stessa cellula possono indurla a disobbedire alla logica cooperativa del nostro corpo pluricellulare, tanto faticosamente costruita in milioni di anni di evoluzione. Questa cellula ritorna ad uno stadio primigenio che risale a miliardi di anni fa, torna alle sue origini e al suo comportamento fondamentale, quello di moltiplicarsi indefinitamente. Quando cellule del genere imparano anche ad aggirare i meccanismi di sorveglianza che tenderebbero a sopprimerle, la loro attività di suddivisione diventa incontrollabile e produce masse che soffocano progressivamente gli organi alterando le loro funzioni fisiologiche.

Ultima osservazione: se il cancro è una malattia che muore assieme al suo ospite, come può aver fatto ad evolversi? Dov'è il suo vantaggio evolutivo? La risposta è che il cancro non si è mai evoluto, è sempre stato lì, con noi. Sono i controlli del corpo pluricellulare che si sono dovuti evolvere per contrastare i comportamenti di base delle cellule e quindi a dover fare i conti con un avversario ben più antico. "Se questi controlli che tengono a bada le pulsioni di anarchia delle cellule per qualche ragione saltano, una forza primordiale silente si sprigiona e semina lo scompiglio. Può cominciare tutto da una singola cellula, che a caro prezzo per la salute del collettivo di cui fa parte va a prendersi il sogno proibito dell'immortalità" (Telmo Pievani).


venerdì 25 novembre 2022

Mia nonna e i suoi conigli

Mia nonna era una contadina. Era anche una brava casalinga, sapeva cucinare. Tra le cose che sapeva cucinare meglio c'era il coniglio, una carne abbastanza consumata in toscana. Del coniglio credo che riuscisse ad utilizzare tutto, compreso il cervello che faceva fritto, le frattaglie con cui faceva il battuto per il sugo e il fegato che usava per i crostini. Roba da leccarsi i baffi. Se non ricordo male usava in qualche modo anche la testa (dopo aver tolto gli occhi). La cosa non finiva lì, perché mia nonna i conigli che cucinava non li comprava, li allevava lei stessa in piccole gabbiette sistemate in un capanno vicino casa.

Governava i suoi conigli ogni giorno, cioè li nutriva e si prendeva cura di loro. Li faceva figliare, cioè riprodurre, mettendo i cuccioli appena nati in piccoli nidi fatti con l'ovatta, probabilmente per mantenerli in caldo. Per nutrirli si sobbarcava un lavoro che io ho sempre giudicato faticosissimo, rimaneva ore china nei prati di erba medica a falciare senza sosta con un fazzoletto in testa e riempiva balle incredibilmente grandi che si caricava sulla schiena per centinaia di metri prima di sistemarli sul tettuccio della vecchia cinquecento. Mia nonna pesava a dir tanto cinquanta chili, era un fascio di nervi.

La guardavo spesso mentre puliva le loro gabbiette, li sistemava separando i maschi dalle femmine, isolando le femmine con i cuccioli, facendo in modo che non si azzuffassero. E mentre faceva questo ci parlava, ci si arrabbiava perché non si facevano prendere, come se avesse a che fare con una classe di bambini irrequieti e un po' impauriti. Stava con loro, li controllava, li curava, li nutriva, li accompagnava per la loro breve vita. E poi li uccideva, uno a uno.

"Vado ad ammazzare il conigliolo", usciva di casa con un pezzo di filo di ferro, un pentolino, un recipiente più grande (tipicamente una bacinella) e un lungo coltello, che lei chiamava coltella (il coltello era la posata da tavola, la coltella era un arnese decisamente più grosso). Lo spettacolo non era censurato, i bambini potevano assistere, ovviamente senza intervenire. Apriva le gabbiette con cautela per non spaventare gli animali e spesso ne apriva più d'una perché per scegliere aveva spesso bisogno di palpeggiare per capire chi era più grasso. Questi controlli li faceva anche quando erano tutti intenti a mangiare i mazzi di erba medica fresca che gli portava, insieme ad altre cose (si, anche carote, quelle che non mangiavamo noi). Certe volte sapeva di dover scegliere certi soggetti in base alla loro età altrimenti invecchiavano e non erano più buoni. Nel fare queste operazioni parlava con loro per tranquillizzarli, in alcuni casi li carezzava per poi prenderli per le orecchie o per le zampe e tirarli via con uno strattone.

L'operazione era cruenta e oggi non saprei se riuscirei ad osservarla come facevo allora, visto che mi disturba un po' anche ricordarla. Prendeva l'animale per le zampe posteriori e lo faceva stare a testa in giù. Era importante che non si divincolasse e qualche soggetto faceva penare più degli altri. Con un bastone corto e tozzo fendeva due o tre colpi alla testa. Il coniglio sotto questi colpi aveva dei tremori e non so bene in che stato di coscienza si trovasse. Fatto sta che mia nonna una volta stabilito che i colpi avevano fatto il loro lavoro, sempre tenendo il coniglio in verticale per le zampe posteriori gli bloccava il collo a terra con lo stesso bastone (usando i piedi) e con uno strattone gli rompeva l'osso del collo. Fine.

Mi domandavo come avesse mai fatto ad imparare una roba del genere. Certe volte agli occhi dei bambini i grandi appaiono come dei semidei che sanno fare da sempre cose impensabili. Comunque io, relativamente a questa operazione, pur diventando grande, non sono mai succeduto a mia nonna nell'olimpo.

Consumata la parte drammatica, cominciava quella più tranquilla ma non meno impressionante: lo scuoiamento dell'animale. Sempre a testa in giù (dopo la rottura dell'osso del collo cominciava a sanguinare dal muso), appeso alla maniglia della porta all'ingresso delle gabbie tramite un filo di ferro (a questo serviva), la nonna faceva un taglio sulle zampe posteriori per poter cominciare da lì a prendere un lembo della pelliccia che tirava via a forza lungo tutto il corpo (qui si aiutava con il lungo coltello). L'animale scuoiato era incredibilmente più piccolo. A questo punto seguiva lo svuotamento delle interiora (e domande alla nonna "questo cos'è?" "e quest'altro?") che venivano riposte nel pentolino (a questo serviva) e infine il taglio della testa, anch'essa riposta nel pentolino. Il restante coniglio veniva posto nel recipiente grande e portato in casa dove avrebbe fatto presto la conoscenza del rosmarino e dell'olio buono.

Io non sono del tutto sicuro, ma ho la sensazione che tutto questo sia stato un grande insegnamento per me, per le mie idee sull'uomo e sulla natura.


domenica 30 ottobre 2022

Su certe cose sono un puritano

Non mi ricordo di aver mai fatto un regalo a mio figlio a valle di un suo buon risultato a scuola. Quello che mi sorprende è che sentirlo da altri mi procura un certo fastidio. Tutto sommato la cosa costituisce un'usanza abbastanza diffusa e dietro c'è un meccanismo che scatta abbastanza spontaneo in un genitore. Ma è proprio quel meccanismo che mi disturba. 

Forse i meccanismi sono addirittura due. Entrambi secondo me fuori luogo rispetto a quello che il ragazzo sta effettivamente facendo. Il primo è il "premio della gara", cioè a scuola hai ottenuto un certo punteggio, "ti sei piazzato bene" o anche "sei arrivato primo", ti meriti un trofeo, un segno tangibile della vittoria. Il secondo è forse ancora peggio, hai fatto bene quello che ti è stato chiesto quindi meriti un premio.

Entrambi questi meccanismi secondo il mio (strano) modo di vedere tolgono valore allo studio. Il primo gli dà un valore agonistico inappropriato (la vera meta da premiare è il piazzamento all'interno del contesto umano in cui ti trovi casualmente), il secondo addirittura puzza di addestramento (ti è stato assegnato un compito, l'hai svolto bene, ottieni un premio).

Mi rendo conto che tutto ciò non è niente di particolarmente grave, possono pure essere meccanismi che rientrano in possibili incentivi a studiare (forse non per tutti) o in riconoscimenti che addirittura possono aiutare i ragazzi dal punto di vista psicologico e della formazione del carattere (forse non tutti). Ma nel mio (strano) caso credo che questi atteggiamenti "tocchino" un qualche mio senso del sacro. Se c'è qualcosa che mi stimola in qualche misura un senso del sacro certamente una di queste cose è lo studio, inteso come costruzione personale e collettiva della conoscenza. E una cosa sacra non ha secondi fini, secondi obiettivi, mete precise da raggiungere al di fuori di essa, come lo sono i premi e le ricompense. Una cosa sacra è fine a sé stessa, basta da sola, altrimenti finisce per essere uno strumento di qualcosa o per qualcosa.

Questa visione è proprio da rompicoglioni e tremendamente pesante, ma ci ricasco ad ogni occasione, deve essere proprio un mio modo di vedere la cosa. Quindi non mi rimane che rivendicarla in questo mio diario di osservazioni personali. E come ciliegina sulla torta cito un episodio al limite del possibile, quasi incomprensibile, che può far scattare addirittura reazioni derisorie ma che secondo me rivela una grande nobiltà nel rifiutare drasticamente dei possibili (anche se non così gravi) secondi fini alla costruzione della conoscenza, conseguenza di un atteggiamento direi proprio sacrale nei suoi confronti, un atteggiamento quasi religioso.

Grigorij Jakovlevič Perel'man, un matematico di San Pietroburgo, dimostra la famosa Congettura di Poincaré, dopo un centinaio di anni dalla sua prima formulazione e dopo altrettanti anni di tentativi di dimostrazione da parte di schiere di matematici. Nonostante la risonanza del risultato che lo rende immediatamente famoso in tutto il mondo Perel'man rifiuta i premi più prestigiosi che gli vengono assegnati qualche anno dopo (il tempo necessario per le verifiche della dimostrazione da parte di specialisti nel campo). A seguito del rifiuto del premio da un milione di dollari assegnato dal Clay Mathematics Institute per aver risolto uno dei Millennium Problems pare che abbia commentato: "Se la dimostrazione è corretta, allora non c’è bisogno di altri riconoscimenti".


domenica 23 ottobre 2022

Due famiglie tipo

In questi decenni mi è sembrato di incontrare prevalentemente due tipologie di famiglia. Ovviamente quella che sto per fare è una feroce semplificazione, che estremizza una situazione con mille sfumature diverse (per fortuna).

La prima tipologia familiare è quella in cui uno dei due genitori o addirittura entrambi hanno un impiego pubblico. In questo nucleo normalmente si ha più tempo, si riesce a tornare a casa presto, si riesce ad andare a prendere i bambini a scuola, a portarli in palestra, in piscina, alle gare sportive, ecc. Una situazione che permette di ottenere un certo equilibrio e in cui le cose, nell'ambito familiare, riescono a marciare abbastanza bene. Probabilmente una tipologia che sta progressivamente scomparendo, vista la sempre più scarsa disponibilità di posti pubblici.

La seconda tipologia è quella in cui il "maschio alfa" ha da sempre puntato alla carriera e per farlo lavora 12 ore al giorno. Questo gli permette di portare a casa un buono stipendio e consente alla moglie di stare a casa o al più lavoricchiare con impieghi part-time, per periodi di tempo limitati, ecc. Anche questa è una situazione che ha un suo equilibrio, sebbene secondo me è molto meno adatta alla costruzione di un ambiente familiare sano ed equilibrato. E anche questa forse è una tipologia di famiglia che sta scomparendo (fortunatamente), mi sembra di incontrare più "vittime" di una ideologia iperproduttivista che "protagonisti".

Probabilmente è possibile tipizzare in questo modo la famiglia italiana, anche se con grande approssimazione, a causa delle fasi storiche che si sono succedute dal dopoguerra ad oggi. Il modello più funzionale di famiglia secondo me lo abbiamo avuto negli anni della crescita economica. Le donne erano ancora prevalentemente rappresentate con la "parannanza", ma il fatto significativo era che la famiglia poteva sostenersi senza troppi problemi con un solo normale stipendio. Questo fatto economico si sposava bene con la cultura della donna in casa e permetteva di costruire famiglie ben equilibrate, almeno fintantoché questa condizione della donna non veniva percepita come una insopportabile subordinazione.

L'emancipazione della donna ha cambiato le cose nella famiglia. Ma secondo me a cambiarle è stata soprattutto quella stessa crescita economica, che ha portato inevitabilmente a dei modelli di consumo sempre più insostenibili e sempre più necessari. Il risultato è stato che il monoreddito non era più un modello di famiglia sostenibile. Le donne hanno cominciato ad andare a lavorare per emanciparsi e per contribuire a supportare i livelli di consumo imposti dalla società. Questo cambiamento secondo me è ancora un problema non risolto.

L'emancipazione della donna, in realtà la sua necessità di essere soggetto attivo in tutti i sensi (sia soggetto produttivo che soggetto di consumo), ha portato ad un disequilibrio del nucleo familiare che a tutt'oggi costituisce molto spesso un problema, soprattutto perché al progressivo aumento della necessità di avere ricchezze private disponibili non ha fatto da contraltare un parallelo aumento delle ricchezze pubbliche disponibili, tutt'altro, vista anche la grande evasione fiscale e il livello di corruzione che negli anni è considerevolmente cresciuto. E la famiglia in questo quadro non ha avuto a disposizione strumenti di sostentamento che le permettessero di trovare una nuova forma di equilibrio, adeguati al suo vero benessere, che non può essere solo quello di avere dentro casa i più diffusi beni di consumo.

Le due tipologie di famiglie attuali di cui parlavo sono il riflesso di questa situazione. Da una parte l'impiego pubblico, cresciuto a dismisura negli anni della crescita economica a causa di meccanismi mafiosi e clientelari, fa ancora da cuscinetto a molte famiglie e gli regalano un modello di vita magari modesto (comunque in linea con la classe media) ma tutto sommato abbastanza in armonia con la sfera privata. Dall'altra l'esigenza sempre più pressante di produttività ha generato modelli culturali aberranti dove il lavoro è l'unico orizzonte possibile. In questa categoria si incontrano spesso le situazioni familiari più disarmoniche e difficili. Anzi, questi modelli non solo disarticolano la famiglia ma in molti casi la rendono proprio impossibile, soprattutto nella misura in cui entrambi i genitori pretendono di avere una vita professionale di questo tipo. Non a caso ho visto spesso negli anni persone single (ancora prevalentemente maschi) dedite alla professione, con la compagna da qualche parte, anche lei molto impegnata, e con il "tempo libero" occupato sempre e solo dalla cura della propria persona.

Ovviamente come ho già detto all'inizio la mia è una estremizzazione utile al discorso. Un in bocca al lupo a tutte le persone che (come me) si barcamenano in una delle tante vie di mezzo.


domenica 16 ottobre 2022

Atteggiamenti sinistri

Sembra che a seguito della sue sconfitta elettorale il PD, attualmente il più importante partito della sinistra in Italia, preveda in tempi brevi un congresso dove si parlerà, oltre che dello scontato cambio di segretario, addirittura dello scioglimento del partito. Probabilmente c'è da sperarlo. La crisi della rappresentanza politica di sinistra in Italia mi sembra arrivata ad un punto critico da cui forse potrebbe uscire solo con eventi traumatici.

In attesa di terremoti faccio un piccolo appunto a certi atteggiamenti un po' infantili, forse un po' inconsci ma secondo me anche diffusi che caratterizzano il pensiero di una parte dei tradizionali elettori del PD, e che nel loro piccolo reputo significativi e poco edificanti.

E' chiaro che si tratta di una pura sensazione non razionalizzata e non espressa in modo palese ma molte persone di sinistra secondo me reputano semplicemente di stare dalla parte "giusta". Forse addirittura dalla parte dei "buoni", contro il pericolo della destra, cioè evidentemente di una parte "sbagliata", o addirittura "cattiva". E' inevitabile osservare che un atteggiamento del genere rivela inconsapevolmente un pensiero fondamentalmente antidemocratico. La democrazia si sostiene con la dialettica di molti e diversi modi di pensare la società, tutti da ritenere legittimi e pertinenti nel dibattito politico se rimangono entro i limiti dei principi costituzionali. In un quadro del genere non può essere accettata la demonizzazione dell'avversario poiché contribuisce solo al degrado della politica. E' da notare che questo è praticamente quello che è avvenuto nell'ultima campagna elettorale (e non solo in quella), in cui il PD ha pensato bene di cavalcare proprio questo sentimento. Sono abbastanza sicuro che ciò faccia presa su un nocciolo duro di elettori della sinistra, oggi però in numero sempre minore.

Un altro strano sentimento che serpeggia negli elettori di sinistra e certamente utilizzato come un elemento di positiva distinzione è la convinzione che la sinistra sia costituita prevalentemente da persone colte, istruite, che hanno una buona preparazione, un buon livello di conoscenze. Questo al contrario della destra che invece alberga elementi perlopiù ignoranti, incolti, impreparati, non istruiti e in definitiva incoscienti. Anche in questo caso è inevitabile osservare che se questo fosse vero la sinistra non sarebbe altro che una elite culturale, non proprio quello che ci si aspetterebbe da una sinistra. Inoltre mi pare abbastanza ovvio che le persone più istruite, più colte e più preparate sono anche generalmente le più ricche, cosa che farebbe diventare la sinistra anche una elite economica. Insomma il contrario di quello che dovrebbe essere. Anche questo sentimento secondo me è stato ampiamente sfruttato durante la campagna elettorale, anche se forse in maniera un po' meno evidente.

Non che la destra italiana non abbia sentimenti criticabili, ma non è mio interesse scriverli in questo post.

NOTA: Pasolini ce l'avrebbe con noi, direbbe che discendiamo dalla piccola borghesia dei suoi anni, forse peggiorata da decenni di benessere e di capitalismo sviluppato. Direbbe che siamo portatori di una cultura falsa e ipocrita.

venerdì 7 ottobre 2022

Funerale

Si sa che il rapporto tra genitori e figli è molto particolare. Quando si è figli si vorrebbe che i genitori non morissero mai, che fossero sempre lì con noi. Ma quando si diventa genitori si scopre che l'ultima cosa che si vorrebbe è di sopravvivere ai nostri figli.

Nel nostro caso, il mio e quello dei miei fratelli, le cose per quanto riguarda mia madre sono andate piuttosto bene. Lei, fortuna nostra, è riuscita ad accompagnarci per tanti anni e poi, fortuna sua, ci ha lasciati tutti vivi, con un po' di cose ancora da fare.


martedì 4 ottobre 2022

Riconoscenza

Se dovessi dirlo semplicemente, direi che la mia mamma (che da oggi non c'è più) ci ha fatto crescere, me e i miei due fratelli, e lo ha fatto da sola. Sarebbe sufficiente dire questo.

Ma oggi voglio anche dire che nonostante i pochi soldi che ha avuto a disposizione mi ha sempre fatto studiare. Quando ho voluto studiare musica me lo ha fatto fare, mandandomi per anni a lezioni private. Non mi è stato utile professionalmente, ma è sempre rimasta una parte importante di me, anche quando ho deciso di smettere. Quando ho preso la decisione di studiare fisica all'università (roba difficile, impegnativa e per lei anche costosa) me lo ha fatto fare senza neanche poter entrare minimamente nel merito della scelta, avendo solo una vaga idea di quello che stavo facendo e di cosa ne potesse uscir fuori. Alla fine comunque ce l'ho fatta, non senza difficoltà. Anche in questo caso l'utilità professionale ed economica è stata relativamente scarsa, ma è sempre rimasta una parte importante di me, anche quando ho deciso di fare altro per vivere.

Mia madre con quattro soldi mi ha permesso comunque di costruire la mia personale conoscenza del mondo, attraverso lo studio di cose bellissime che lei non ha mai conosciuto neanche in parte e di cui non abbiamo mai potuto parlare. Oggi un po' di riconoscenza gliela devo. Prima che finisca questa dolorosa giornata.


sabato 10 settembre 2022

Salvare il pianeta

Si dice, giustamente, che i problemi ambientali con cui ci troviamo a dover combattere (il più importante, ma non l'unico, è ovviamente la questione del cambiamento climatico) sono anche il risultato di una cultura umana che considera l'ambiente naturale come una proprietà dell'uomo, una cosa a sua completa disposizione. Sotto questo punto di vista la trasformazione dell'ambiente a nostro uso e consumo è sempre stata implicitamente considerata perlopiù legittima. Il nostro vizio di considerarci sempre al centro di tutto è inguaribile, basta dare un'occhiata alle principali religioni che abbiamo (anzi, forse le religioni sono, almeno in parte, proprio una manifestazione di questo sentirsi sempre al centro di tutto).

Questo cozza sempre più con il fatto che l'ambiente naturale è anche il nostro "contenitore" e con il fatto che noi siamo sempre più numerosi, sempre più esigenti, sempre più invasivi. I problemi di ritorno introdotti da crescenti esigenze produttive si cominciano a far sentire in molti modi sempre più preoccupanti per l'ambiente che abitiamo e quindi per noi. E' un problema di ritorno, nel senso che noi ci distinguiamo dall'ambiente che ci ospita, quindi lo utilizziamo a nostro vantaggio, poi scopriamo che lo stiamo modificando in modo forse eccessivo, infine ci rendiamo conto che noi ci stiamo dentro e che, come qualsiasi altra specie, non abbiamo la possibilità di reagire in senso biologico (e forse neanche tecnologico) a modifiche ambientali così repentine. Come è successo più volte nella storia evolutiva della biosfera le trasformazioni ambientali più o meno drastiche, più o meno veloci, hanno prodotto estinzioni (anche molto importanti, vedi le famose estinzioni di massa documentate dai resti fossili).

La cosa curiosa è che spesso anche quegli atteggiamenti sensibili al problema e che denunciano la necessità di cambiare i nostri comportamenti non si affrancano da questa visione antropocentrica che probabilmente ha prodotto il problema, e usa espressioni romantiche come "salviamo il pianeta", salviamolo da questo schifo di specie che siamo noi (antropocentrismo al contrario). L'espressione "salviamo il pianeta" rivela un atteggiamento del tipo "il pianeta è cosa nostra, abbiamo su di lui una grande responsabilità, facciamo i buoni con lui, comportiamoci bene, salviamolo dal grande disastro che possiamo provocare". Trattiamo il pianeta come se fosse il nostro cane domestico, che ha bisogno di noi altrimenti non vive (anche questo in realtà è tutto da discutere), noi siamo il suo padrone e abbiamo delle responsabilità verso di lui.

Un giorno la nostra cultura incontrò quella degli indiani d'America, e sappiamo com'è finita. La nostra visione del pianeta era ben diversa dalla loro. Quelli che per noi erano territori di conquista per loro erano la terra di tutti, non solo umani. "La terra non appartiene all’uomo, è l’uomo che appartiene alla terra". I nativi americani vedevano tutti gli elementi naturali, loro compresi, come indissolubilmente collegati ad un unico destino. Tutti creati dalla Madre Terra e destinati a tornare ad essa. Tutti manifestazione del Grande Spirito. L'uomo una di queste infinite manifestazioni. “Un uomo non dovrebbe mai camminare con tanto impeto da lasciare tracce così profonde che il vento non le possa cancellare”.

Anche se l'incontro con loro è stato così violento, qualcosa della loro cultura ci sarà pure rimasto, e sarebbe certamente una ricchezza. E' difficile mantenere anche solo in parte questa loro visione del mondo, in questo nostro mondo. Però mi piacerebbe.

 

giovedì 1 settembre 2022

Sentire la puzza

Oggi mi hanno raccontato di una ragazza di grande talento, uscita dal liceo classico col massimo dei voti e iscritta ad una triennale di economia, che dopo il primo anno di corso si è fatta prendere da dubbi sulla scelta fatta dopo aver letto un libro di mitologia greca, una sua passione letteraria. Che le succede?

Lo dico io in poche parole quello che probabilmente le succede.

Il fatto è che questo nostro mondo è una merda. Non l'Italia dove tante cose non si possono fare e i giovani non hanno spazio, ecc. ecc. No, no. Sto parlando del mondo, cioè del nostro mondo occidentale, sviluppato e capitalista. La cultura è fatta di conoscenze ma anche di valori, e noi viviamo in un mondo dove di valori ne sopravvive solo uno, quello dei soldi, quello di vivere per mettere i soldi al pizzo di questa società, pensando di farlo a nostro vantaggio. Tutti gli altri valori sono finti e ipocriti. Pretesti tirati fuori soltanto per parlare.

Il nostro mondo non fa che celebrare ad ogni buona occasione un successo personale fondato sulla capacità di produrre ricchezza, tutti i nostri idoli fanno questo, è spesso anche poco importante come lo fanno, magari rimanendo pur sempre nell'ambito delle cose "corrette", ma non sempre.

Nel nostro mondo comanda questa figura mitica. L'autorevolezza, e anche l'autorità, dipendono da questo. Qualunque attività umana viene misurata sostanzialmente dalla capacità di vendere bene qualcosa. Il marketing è l'anima profonda delle attività umane. Non esistono forme culturali diverse. Un'attività culturale che non abbia questo come fine ultimo non esiste nella considerazione della gente, non ha alcun valore.

E allora è chiaro che i ragazzi in gamba che si affacciano su questo mondo di merda ad un certo punto comincino ad accorgersi di questo aspetto sinistro,  comincino vagamente a sentirne la puzza. E rimangono disorientati, in qualche misura ci soffrono.

Ma purtroppo ci sono dentro, e a questa puzza cercano forzatamente di abituarcisi. Molti potrebbero non uscirne molto bene, ma questo è il mondo in cui devono muoversi, questa è la strada indicata. E la puzza rimane, è lì a farsi sentire. C'è,  si sente.


sabato 27 agosto 2022

La pubblicità "autorevole" di un dentifricio

In questo ultimo periodo ho notato in televisione uno spot pubblicitario curioso. Si tratta di una banale pubblicità ad un dentifricio ma concepita come un "consiglio" dato da una scienziata. Formule pubblicitarie simili sono abbastanza frequenti, fanno leva sull'autorità più o meno riconosciuta della scienza (anzi, forse finché ci saranno pubblicità di questo tipo significherà che la scienza è ancora considerata un'istituzione autorevole, anche se sempre più incomprensibile). Ma la cosa curiosa è che la "scienziata" che spiega le importanti caratteristiche del prodotto uscito dai suoi laboratori ha un chiaro accento anglosassone, pur parlando in italiano. Non può essere un caso. L'autorevolezza viene amplificata dal fatto che il tutto sembra uscir fuori da un'intervista ad un qualche laboratorio scientifico americano. Ma perché questo? Perché nel nostro immaginario lo sviluppo scientifico e tecnologico è associato inevitabilmente alla società americana? 

La risposta è tristemente semplice, ed è strettamente legata al periodo europeo del nazifascismo. Chi conosce un po' di storia della scienza sa che fino ai primi del novecento questa era un grande patrimonio culturale europeo (con l'Italia già un po' indietro, per altri motivi storici più antichi e per specifici problemi politici e culturali). Ma il nazifascismo, prima perseguitando i dissidenti, poi scagliandosi contro gli ebrei, infine portando tutta l'Europa nella tragedia della seconda guerra mondiale, ha causato una vera e propria diaspora di scienziati e intellettuali. Questi non potevano trovare altro approdo che negli Stati Uniti, che hanno saputo accoglierli adeguatamente dando loro fiducia e mezzi. Nel giro di pochi anni gli Stati Uniti sono diventati dei leader mondiali nella scienza e nella tecnologia. Per i decenni successivi se volevi essere informato e informare i cittadini dei progressi scientifici dell'umanità dovevi prendere l'aereo ed andare oltreoceano. Quante interviste abbiamo visto in televisione fatte da Piero Angela a scienziati e professori del MIT di Boston (il mitico MIT!) o della NASA o di diversi altri istituti, università e laboratori scientifici degli USA?

La tragedia culturale dell'Europa di quel periodo (certamente non la tragedia più grave purtroppo) sta tutta in questo aneddoto: "Ai nazisti c'erano volute poche settimane per trasformare Gottinga, la culla della meccanica quantistica, da una grande università in una istituzione di secondo ordine. Il ministro nazista dell'istruzione chiese a David Hilbert, il più celebre matematico di Gottinga, se fosse vero 'che il suo istituto [aveva] tanto sofferto con la partenza degli ebrei e dei loro amici'. 'Sofferto? Non è che abbia sofferto, signor ministro", rispose Hilbert, 'non esiste più'" (Manjit Kumar, "Quantum").


lunedì 22 agosto 2022

Visite ai musei

Questa estate ho visitato diversi musei, in particolare uno dei più importanti d'Europa, il museo del Prado, a Madrid. Mi sembra evidente però che in genere i musei, soprattutto quelli importanti, cioè quelli famosi e ricchi di opere, non siano fatti per la fruizione da parte degli utenti di cultura media, che però ne sono i principali frequentatori. Si passeggia all'interno delle grandi sale guardando in modo inevitabilmente distratto un catalogo immenso di opere eterogenee, su cui peraltro non vengono quasi mai riportate informazioni se non le classiche "titolo-autore-anno", in modo volutamente asettico. Le eventuali audioguide di cui spesso ci si può dotare sono sempre didascaliche, inutilmente particolareggiate e tremendamente noiose, quasi sempre incapaci di catturare l'interesse di chi le ascolta.

Il risultato di queste visite è una generale stanchezza che sopraggiunge ben prima di aver terminato la visita e la sensazione di non riuscire ad imparare granché. Questo probabilmente si scontra con il messaggio retorico di essere entrati in un tempio delle arti figurative da cui uscire con chissà quale ricchezza. Un'esperienza complessivamente deludente e anche un po' frustrante. Ho la presunzione di pensare che queste considerazioni, forse un po' estreme, siano però più o meno condivise con diversi livelli di consapevolezza dalla maggior parte dei visitatori. D'altra parte si tratta proprio di una questione banalmente fisiologica, che non può che essere condivisa. Si è costretti in poco tempo ad elaborare una quantità di informazioni ben al di sopra delle possibilità di chiunque. 

Eppure i visitatori di questi musei sono tanti. Penso che quello che muove la maggior parte di noi sia il fatto di andare a vedere le "opere famose", cioè quelle che già si conoscono, una cosa che nell'epoca della riproducibilità delle immagini risulta essere poco più che inutile. In pratica si tratta di un atteggiamento classificabile come pregiudizio di conferma se non addirittura come una forma di feticismo, che non è quasi mai un'acquisizione di nuove conoscenze o di nuove esperienze artistiche. E forse non è quest'ultima cosa che stimola il turista medio alla visita, forse sarebbe troppo faticoso, non compatibile con una gita turistica. Invece la passeggiata alla ricerca delle opere famose (quelle viste e riviste un po' dappertutto) appaga sufficientemente e magari permette anche di riportare a casa un po' di materiale culturale a buon mercato, "argomenti di conversazione" (parafrasando una nota battuta di un film di Verdone).

Le visite ai grandi musei in tutto il mondo sono una forma di turismo che serve per testimoniare uno status culturale di buon livello. Il cittadino della classe media cerca di distinguersi dai suoi pari almeno sul piano culturale. E realizza questo suo obiettivo non facendo esperienze culturali reali (qualunque esse siano) ma acquistando un prodotto culturale, che in certe occasioni può anche essere esibito. Una forma di consumismo.


domenica 31 luglio 2022

L'obiettivo celato di un social utile

Poco dopo i risultati dell'elezione del Presidente della Repubblica, che alla fine hanno confermato uno svogliato Sergio Mattarella, ricevo un simpatico meme da un amico che recita così: "Mattarella è come quel padre che dopo una vita di duro e onorato lavoro non si può godere la vecchiaia perchè ha i figli scemi". Poco più tardi apro LinkedIn e leggo un post che recita così: "Mattarella è come quell'imprenditore che dopo una vita di duro e onorato lavoro in cui ha portato l'azienda di famiglia a livelli altissimi .....". Uhm ....

LinkedIn è un social che secondo me ha come scopo principale quello di permettere ai suoi iscritti di riuscire ad ottenere un lavoro, a cambiarlo, a migliorarlo. Uno scopo che definirei nobile e che fa di LinkedIn uno strumento molto utile. Però questa nobiltà non è riconosciuta se non viene rivestita da un'ideologia "aziendalista" e "professionalista", in cui l'immagine del padre di famiglia che semplicemente lavora è debole se non proprio perdente, quanto meno fuori luogo. Su LinkedIn non si lavora, si accettano sfide, avventure, "challenges".

Lavorare per vivere rischia di apparire come una cosa da mediocri, che non hanno motivazioni veramente forti e interessanti. Non si rappresenta il lavoro in termini così semplici in un social come questo. E' una cosa curiosa ma è così. Probabilmente è il risultato dell'ipocrisia di una società benestante costruita sull'ansia del profitto che obbliga le aziende a non aver bisogno di semplici lavoratori, piuttosto di persone che nel loro lavoro vedano sempre "sfide di successo". E' un modo per non fermarsi mai. E' per questo che LinkedIn è pieno di giri di valzer di complimenti fatti e ricevuti che ti danno la sensazione di stare in una comunità di professionisti di successo. In realtà questa idea di successo è direttamente legata ai profitti delle aziende che si traducono in lordo e benefits per i lavoratori. Tutto è misurato in soldi, rigorosamente. Ma non esplicitamente. I soldi non sono mai tirati in ballo in maniera esplicita, i soldi sono un tabù, al loro posto si parla sempre di "soddisfazioni professionali". Si tratta di una vera e propria ideologia, forse l'unica rimasta in piedi nella nostra società "post-ideologica". E d'altra parte un'ideologia ha bisogno del suo linguaggio e dei suoi veicoli di comunicazione. LinkedIn mi sembra che abbia un suo ruolo importante nel soddisfare queste esigenze.


giovedì 30 giugno 2022

Il mio braccio destro

Avevo 9 anni circa e la cosa è cominciata con un dolore al braccio destro, più esattamente al gomito. Ricordo che si trattava di un dolore non troppo forte, almeno all'inizio, che somigliava ad un indolenzimento. In breve tempo sul gomito dolorante comparve anche un gonfiore e il dolore peggiorava. Era come se ci avessi sbattuto, o fatto qualcosa di traumatico, ma in realtà con quel braccio non ci avevo fatto nulla di strano. Il dolore c'era senza una causa precisa.

Purtroppo non ricordo tutti i particolari e la sequenza esatta degli eventi, però avendo 9 anni probabilmente la prima cosa che pensò di fare mia madre fu di portarmi dalla pediatra. La dottoressa Iris Paciotti ai miei occhi era "un omone", donna imponente dai lineamenti del viso molto particolari, una voce scura per una donna, leggermente afona. Però era rispettosa e gentile e si presentava dando la mano anche ai bambini suoi pazienti, una manona che ricordo bene.

Il problema che avevo al braccio era abbastanza misterioso, certamente lo era per me ma forse anche un po' per lei. Infatti cominciò a mandarmi da degli specialisti di sua conoscenza. Uno di questi era un certo Prof. Negro, un tipo piuttosto anziano che aveva uno studio a Piazza Navona. Credo che da questa visita ma ne uscii con delle pilloline bianche dentro un tubetto trasparente (me le ricordo benissimo ma non sono sicuro che me le avesse prescritte proprio lui).

Evidentemente la terapia intrapresa non dava gli effetti sperati (ricordo che il dolore e il gonfiore me lo portai appresso per parecchio tempo) perché ad un certo punto la dottoressa mi indirizzò verso un altro specialista. Questo signore risultava strano da parecchi punti di vista, a partire dal suo nome fino alle pratiche mediche che proponeva. Lo ricordo giovane, fisico asciutto e robusto e una curiosa erre moscia. Si chiamava Ferro Ledvinka (come dimenticare un nome simile). Non credo che si sia mai preoccupato del mio braccio e questo mi risultava veramente singolare. Riceveva in casa sua, ricordo vagamente sia la moglie che la figlia. Le sue sedute consistevano in pesanti massaggi sulla schiena all'altezza delle reni che io temevo molto perché mi toglievano letteralmente il respiro. Subito dopo i massaggi ero invitato ad andare a giocare con la figlia poco più grande di me e lui rimaneva a chiacchierare con mia madre. Da quelle sedute riportavo a casa dei curiosi opuscoli che parlavano di una cosa che si chiamava macrobiotica.

La cura vera e propria che mi prescriveva il signor Ledvinka, oltre ai suoi massaggi, era una dieta che aveva a che fare con quegli opuscoli che mi regalava ad ogni sua seduta, chiamata infatti da lui stesso dieta macrobiotica. Consisteva nella somministrazione di una serie di "papponi" a base di vari cereali, come orzo e avena e altri strani prodotti che mia madre doveva comprare nei negozi della catena Castroni. Facevano schifo, senza mezzi termini, era uno strazio mangiare per giorni e giorni quella roba. Ricordo che mia madre sottolineava sempre che però con quella dieta gli esami del sangue erano perfetti. Ma il mio dolore e gonfiore al braccio non sembravano avere minimamente a che fare con tutta questa roba, infatti peggioravano.

Mi piacerebbe ricordare bene tutti i passaggi di questa storia ma di alcune cose (che evidentemente non capivo) non mi è rimasto molto. Secondo quello che qualche anno dopo mi raccontava mia madre queste terapie si interruppero bruscamente, non so se per decisione della mia pediatra o più ragionevolmente per l'intromissione del mio medico curante, il Prof. Fulvio De Lillo. Questi prescrisse delle radiografie e una visita ortopedica da un certo Prof. Fineschi, medico del Policlinico Gemelli.

La diagnosi del Prof. Fineschi fu che avevo un Osteoma Osteoide (un tumore benigno del tessuto osseo) che andava asportato chirurgicamente. Il risultato fu che nel giro di poco venni ricoverato nel reparto di ortopedia del Policlinico Gemelli di cui Fineschi era primario. Quei quindici giorni estivi (credo tra giugno e luglio) di degenza ospedaliera me li ricordo come spensierati, una specie di insolita vacanza. La caposala aveva deciso di riunire in un'unica grande stanza della corsia tutti i bambini ricoverati in quel periodo, per cui sembrava di essere a una colonia estiva. Io in quei giorni scoprii di essere (o pensavo di essere) un "caso interessante" perché durante le visite il Prof. Fineschi, che era sempre seguito da un notevole codazzo di studenti, illustrava il mio caso come insolito e rischioso in quanto l'osteoma si presentava sul gomito, ovvero molto vicino all'articolazione che nell'intervento andava preservata. Il gonfiore era una cosa anomala per quel tipo di tumore. Alcuni studenti si avvicinavano e chiedevano gentilmente di poter vedere il braccio e sentire il gonfiore. Ricordo che concedevo la visita con una certa soddisfazione. 

L'intervento andò bene, i controlli successivi pure, e la storia si concluse una quarantina di giorni dopo, alla fine dell'estate, quando finalmente mi tolsero il gesso, cha andava dalla mano (lasciando libere solo le dita) a metà dell'avanbraccio, terminando così dei fastidiosi pruriti. Un periodo di fisioterapia riportò in breve tempo il braccio alle sue normali funzionalità e dimensioni. Oggi intravedo ancora abbastanza bene la cicatrice sul gomito, unico segno fisico a ricordo di questa vicenda.

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I personaggi di questa storia:

Io - Bambino incosciente che ha vissuto una vacanza in ospedale ricevendo visite e regali, due dei quali me li ricordo come fosse ieri: il Big Jim, quello classico, era probabilmente in quegli anni che spopolava come giocattolo, era snodabile in un modo che non avevo mai visto e ci si giocava prevalentemente facendogli assumere tutta una serie di posizioni plastiche; una radiolina a transistor, gialla, con un indicatore della sintonia costituito dalla linea di separazione tra due regioni, una rossa e una nera, bellissima.

La mamma - Non ho una chiara idea di come mia madre abbia giudicato l'avventura delle cure alternative in cui siamo incappati. Certo che la diagnosi fu una bella botta, considerando che pochi anni prima aveva assistito suo suocero (mio nonno) che nel giro di un mese se ne andò per un tumore ai polmoni, proprio in quello stesso ospedale dove ero ricoverato io. La mia naturale incoscienza era in parte controbilanciata da una sua malcelata preoccupazione, che a me arrivava in modo appena percettibile mentre lei in realtà si cagava in mano dalla paura.

La dottoressa Paciotti - Medico Pediatra Omeopata, fino a quel momento il pediatra di mio fratello maggiore e mio. Per quanto mi ricordi mai più vista da quest'episodio in poi. Per curiosità ho cercato sue notizie su internet e sembra essere stata una personalità di spicco dell'omeopatia in Italia. E' stata allieva del Prof. Negro. Ha scritto diversi libri, il più famoso dei quali si chiama L'amore creativo. Ha fondato un centro per l'omeopatia, ha diretto riviste e fondato una casa editrice. Da un certo punto in poi ha esercitato la professione a Cesano di Roma. E' morta il 4 maggio 2021.

Il Prof. Negro - E' considerato uno dei promotori dell'omeopatia in Italia. Ha fondato istituti (Accademia di Medicina Omeopatica, Scuola italiana di Medicina Omeopatica Hahnemanniana, Centro omeopatico romano, ecc.). Ha un articolo biografico su Wikipedia. E' morto il 25 marzo 2010 a 102 anni.

Ferro Ledvinka - Contrariamente al suo cognome (e a quanto avevo sempre creduto) si tratta di un italiano con cognome di origine boema. Ha diffuso la macrobiotica in Italia traducendo i testi originali giapponesi. Anche lui ha scritto diversi libri, forse il più famoso è Il medico di sé stesso. Da un certo punto in poi lascia progressivamente la macrobiotica per darsi a ricerche spirituali e contatti medianici. Secondo un articolo biografico trovato in rete "Muore all’ospedale di Livorno il 25 luglio 2000 per un aggressivo tumore strenuamente combattuto con terapie naturali e tradizionali".

Il Prof. De Lillo - E' stato per molti anni il nostro medico di famiglia. Professore all'Università Cattolica. Ai miei occhi di bambino era una figura gigantesca (e non solo ai miei occhi), di carnagione chiara e lentigginosa (rosso di capelli), ricordo bene le sue mani quando visitava. Ricordo quando parlava dei suoi figli con mia madre, erano sette, tutti maschi. Ne aveva fatti così tanti per tentare di avere una femmina (!). Un paio dei suoi figli (Fabio e Stefano) sono oggi (o sono stati) rispettivamente Consigliere Regionale del Lazio (e prima assessore comunale della giunta Alemanno) e Senatore della Repubblica, entrambi provenienti da Forza Italia e passati recentemente alla Lega di Salvini. Il Prof. De Lillo è morto diversi anni fa ma non ricordo esattamente quando.

Il Prof. Fineschi - Per molti anni ha ricoperto la cattedra di Ortopedia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma. E' stato direttore dell'Istituto di chirurgia ortopedica del Policlinico Gemelli di Roma. L'articolo di Wikipedia a lui dedicato dice che è stato anche un "rosaista e rodologo", appassionato e collezionista di rose. L'articolo cita anche una serie di suoi pazienti illustri tra cui Papa Giovanni Paolo II e vari altri (Enzo Biagi, Sergio Zavoli, Mario Pastore, Franca Valeri, Ennio Morricone). Io non sono citato :-). E' morto il 12 Aprile 2010, a 87 anni.

L'Osteoma Osteoide - E' uno dei tumori benigni del tessuto osseo più frequenti in età giovanile. Ai miei tempi la terapia era essenzialmente l'asportazione chirurgica, oggi il trattamento più frequente è la “bruciatura” con radiofrequenza eseguita sotto la guida della Tomografia Computerizzata, quindi niente cicatrici e degenza ridotta ad un paio di giorni. 

Il mio braccio destro - Ne ha passate ma ora sta bene.


martedì 14 giugno 2022

Maturità

Quest'anno mio figlio dovrà sostenere l'esame di maturità. E quest'anno, dopo due anni di pandemia il ministero dell'istruzione ha pensato bene di ripristinare il secondo scritto, quello di indirizzo che affianca il tema di italiano, anche se con qualche "facilitazione" per gli studenti, e ridare quindi all'esame grosso modo la sua fisionomia pre-covid. Il problema ovviamente non è l'esame in sé, che ha anche una sua utilità formativa, è il fatto che tramite questo si vuol far apparire efficiente una scuola ridotta in realtà ai minimi termini. Si ripristina velocemente l'esame di maturità così che agli occhi dell'opinione pubblica tutto sembri ritornare sui binari di sempre. Nella merda di sempre, aggiungerei io. Questo lo fa colpevolmente sfruttando la popolarità di questo esame, rappresentato come un rito collettivo di iniziazione dei ragazzi appena maggiorenni, una sorta di ingresso in società. Torna l'esame come prima, torna la scuola come prima. E cioè?

Una scuola orientata alle "competenze", pronta ad introdurre le riformine più incosistenti e per questo dannose, ancora più dannose perchè non finanziate nè correttamente organizzate (senza mezzi non si organizza niente). Tra queste la famosa "alternanza scuola-lavoro", o l'introduzione sperimentale della secondaria superiore in quattro anni, perché i ragazzi si mettano in testa che devono andare a lavorare il prima possibile, ed essere produttivi il prima possibile, perchè capiscano che non ci sono soldi per istruirli, e neanche la volontà. Non ultima anche l'introduzione delle "soft skills", le famose "competenze non cognitive", l'insegnamento comportamentale e relazionale, ridotto a qualche regoletta da raccontare in aula da qualche insegnante che ci ha fatto sopra un po' di ore in autoistruzione. E come se l'ambiente scolastico non fosse già una scuola di comportamenti e di relazioni. E poi la burocrazia. E poi il covid.

In questi due anni di covid la scuola italiana si è letteralmente arrangiata. Ogni istituto ha fatto quello che poteva per garantire le lezioni, e ovviamente c'è chi è riuscito meglio e chi peggio, con conseguenze di differenti livelli di gravità sulla popolazione degli studenti. L'unico vero provvedimento introdotto, peraltro in modo a dir poco disinvolto, è stato quello di chiudere le scuole per periodi ripetuti e spesso molto lunghi e attivare la cosiddetta DAD (didattica a distanza), roba tanto più inaccettabile quanto più è bassa l'età degli studenti. Adesso che la quarta ondata di infezione è ufficilamente passata, con la speranza che ci dia fiato almeno fino al prossimo autunno, l'unico altro vero provvedimento che il ministero si è subito affrettato a prendere è stato quello di ripristinare, anche se non del tutto, il famigerato esame di stato come era prima del covid. Complimenti per l'efficienza dimostrata.

E per aggiungere un'ulteriore goccia di sana retorica l'esame viene in questi ultimi giorni celebrato dalla nota canzone di Antonello Venditti ("Notte prima degli esami") che l'autore ha avuto modo di cantare nell'aula magna del suo vecchio liceo, il Giulio Cesare, con grande risonanza mediatica. Sembra fatto apposta. E se questo è il riferimento culturale dei ragazzi che escono dalla secondaria superiore....

Mio figlio nei primi anni di liceo diceva ironicamente (ora ha smesso da qualche tempo, chissà perché) che la sua generazione dovrà salvare il mondo; a me viene in mente molto meno ironicamente che lui e quelli della sua generazione dovranno cercare di salvarsi dal mondo.

Troppo cinico. Mi riprendo con un sano augurio a questi ragazzi. Spero che abbiano imparato nel liceo quello che avrebbero dovuto secondo le parole di Agens Heller nel 2013: "Se qualcuno dovesse chiedere a me, come filosofa, che cosa si dovrebbe imparare al liceo, riponderei: 'prima di tutto, solo cose inutili: greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita'. Il bello è che così, all'età di diciotto anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose".


lunedì 30 maggio 2022

Amore e morte (un'altra omelia)

Mi è capitato di nuovo, nel giro di poche settimane, di seguire una funzione religiosa. Come al solito bado molto poco agli aspetti del rito, quelli assumono un significato simbolico importante se sei un convinto credente. Forse esagero, nel senso che il rito religioso di una comunità che partecipa in modo sentito è comunque una manifestazione di umanità che può addirittura commuovere, indipendentemente dalle tue convinzioni. Ma al di là di questo la mia attenzione si rivolge regolarmente all'omelia, che in certi casi (non sempre) esce dalle formule del rito e delle frasi fatte per fare una riflessione personale (del prete) sull'episodio del Vangelo appena letto e sulla vita in generale. Dunque l'ascolto.

Il prete parlava dell'amore, quello di Dio per noi (sempre scontato) e quello nostro per gli altri (meno scontato). Nel cercare di definirlo dice una cosa interessante, "quando amiamo davvero, qualcosa in noi muore". L'amore implica la morte di qualcosa. Non male, c'è da pensarci su. Effettivamente è vero che quando amiamo gli altri e mettiamo in pratica questo amore rinunciamo a qualcosa di noi, qualcosa in noi muore. Se non altro perché chi amiamo è sempre diverso da noi, e da noi indipendente, nel pensiero e nelle scelte. È una sensazione frequente, forse un fatto  anche un po' banale, ma è così.

Non avevo mai colto questa cosa in modo così chiaro. L'amore è un dono agli altri, che comporta sempre la morte di qualcosa (tempo, scelte, decisioni, aspirazioni, volontà, desideri). E non è sempre una scelta così consapevole, ha invece l'aspetto di un fatto necessario, naturale. In fondo anche la stessa morte fisiologica è un dono agli altri, in particolare alle nuove generazioni, ai figli. Quando li lasciamo scegliere muore la nostra volontà, e così deve essere. Quando ce ne andiamo gli doniamo il futuro, che non può essere più nostro, e dobbiamo accettarlo, è il nostro estremo atto d'amore per loro, pur se involontario, perché naturale. L'amore funziona così, è la nostra natura.

C'è una frase di Renzo Piano che mi piace molto. Parafrasando la metafora di Newton che per vedere lontano è dovuto salire sulle spalle dei giganti, Renzo Piano dice che "non sono i giovani" (i nostri figli, dico io) "a salire sulle nostre spalle, siamo noi a salire sulle loro, per intravedere le cose che non potremo vivere". E aggiunge "i giovani sono il messaggio che mandiamo a un mondo che non vedremo mai". Un atto d'amore, appunto. E un estremo tentativo di sopravvivenza.


martedì 24 maggio 2022

Il problema ecologico tra animismo e razionalismo

Il problema ecologico dovrà trovare delle soluzioni efficaci in ambito scientifico e tecnologico. Occorrerà saper misurare in maniera sempre più esatta l'impatto ambientale dei nostri consumi energetici, dei nostri processi industriali e anche delle nostre abitudini di vita, in particolare dei nostri livelli di consumo, della produzione di inquinamento nelle sue varie forme inclusa la produzione di rifiuti. Occorrerà escogitare tecnologie che intervengano in tutti questi settori della vita sociale per ridurre al massimo l'impatto negativo che stiamo producendo sull'intero ecosistema. Non ultima, e forse la cosa più importante perché collega con un unico filo rosso tutte le altre, dovremo probabilmente correggere per non dire riformulare i nostri sistemi economici decisamente troppo liberisti e iniqui. E' evidente che stiamo creando pesanti disequilibri sia nell'ambiente che ci consente la sopravvivenza sia nelle nostre società che ci consentono la pacifica convivenza, ed è anche evidente che questi due disequilibri sono collegati in qualche modo tra loro.

Le trasformazioni richieste da obiettivi del genere sono molto pesanti, e servono politiche molto audaci per produrle e renderle tollerabili. Il motore di queste grandi trasformazioni, che coinvolgono necessariamente tutti i livelli della società, dovrebbe essere anche culturale. Questo rende tutto molto più difficile. E' una nuova visione del mondo quella che dovrebbe emergere nelle società del futuro. Proprio per questo motivo mi ha colpito e mi è rimasta in memoria una considerazione percepita distrattamente alla radio qualche tempo fa. Secondo le voci dialoganti in radio in quel momento sarebbe necessaria una visione più religiosa del mondo, ma non religiosa in senso Cattolico, anzi, forse questa andrebbe nella direzione opposta a quella voluta. Occorrerebbe una visione religiosa di tipo animista. Quell'atteggiamento cioè che vede la sacralità in tutti gli elementi naturali in cui la vita dell'uomo è fatalmente immersa. Opposta al nostro usuale modo di vedere la natura come l'oggetto passivo delle nostre illimitate manipolazioni, tutte legittime anche se drammaticamente invasive. Ovviamente tra gli elementi sacri della natura ci sarebbe proprio l'uomo, non però come essere eletto, espressione di un altro mondo non naturale e per il quale il mondo naturale è stato fatto, ma come espressione di questo mondo.

Questo però a mio avviso sarebbe solo una parte dell'atteggiamento culturale giusto per affrontare i problemi ambientali che abbiamo di fronte a noi. A questa andrebbe unita la parte razionalista, quella che consentirebbe di risolvere quegli stessi problemi con l'uso di tutto quello che abbiamo capito, che abbiamo costruito e che abbiamo imparato ad usare nella nostra breve storia di specie intelligente.

Parafrasando quello che Stephen Jay Gould scriveva nel prologo del suo libro Bravo Brontosauro (che però in quel caso si riferiva specificatamente agli stili con cui la divulgazione scientifica descrive la storia naturale) si potrebbe dire che il nostro rapporto con la natura dovrebbe scaturire da una giusta combinazione di due atteggiamenti apparentemente antitetici, quello francescano o di tipo diretto, intuitivo, estetico, religioso, e quello galileiano o razionalista. Il primo è "poesia della natura, esaltazione della bellezza organica". Il secondo "trae piacere dagli enigmi intellettuali della natura e dalla ricerca della spiegazione e della comprensione". E come dice Gould entrambi alla fine ricercano una unità con la natura. L'equilibrio tra questi due modi di rapportarci col mondo naturale potrebbe aiutarci a trovare le strategie giuste per preservarlo. O meglio, per preservarci in esso.


venerdì 6 maggio 2022

Una serie inutile

Tempo fa un collega mi ha consigliato la serie Le fate ignoranti, che riprende la storia del film omonimo di circa venti anni fa. Il film era molto bello (questa della serie è stata anche un'occasione per rivederlo) e trattava il tema dell'omosessualità, all'epoca non ancora così inflazionato. C'era anche il tema della vita di coppia, di come può essere costruita sulle cose non dette, di come possa nascondere interi tratti della personalità. Insomma un bel film.

La serie mi è apparsa quasi del tutto inutile, ho faticato a guardarla per intero, volevo interromperla già al primo episodio ma mi sono sforzato per non fare sempre quello che non riesce ad essere costante neanche su otto puntate di una singola stagione. Ma non c'era ragione di continuare a vederla. Ne scrivo perché mi pare di aver trovato in essa i due peggior difetti che si possono incontrare in un  prodotto del genere. In un certo senso il prototipo di una serie brutta.

Il formato di una serie è spesso quello di una decina di episodi (da 8 a 12, per dare un intervallo statistico) della durata di un'ora scarsa ciascuno. In questo arco la storia deve avere un suo sviluppo quasi chiuso, dove quel quasi è poi la chiave per una nuova stagione, e così via. Il singolo episodio è decisamente ridotto rispetto ad un film, quindi ben più fruibile, ma complessivamente la durata della narrazione è molto più lunga. Lo spezzettamento in episodi rende la serie un diversivo di mezza serata che va avanti per un bel po'. Poco impegnativo e fidelizzante. La vasta produzione rende questa pratica virtualmente infinita. Si possono fagocitare ore e ore di produzione televisiva come sarebbe ben difficile fare altrimenti.

Ne Le fate ignoranti questa caratteristica però diventa un vero problema. La sceneggiatura è praticamente identica a quella del film, ma va raccontata in circa 6-7 ore di filmato. Vengono fuori due difetti lampanti. Il primo è quello di inventare piccoli episodi laterali (ogni personaggio con le sue personali vicende è in qualche momento protagonista della storia) che spalma la trama e l'idea principale in tante cose inutili, veramente inutili. Il secondo è quello che tutti gli elementi della trama vengono raccontati "per filo e per segno", senza lasciare niente all'immaginazione dello spettatore, in maniera didascalica e pedante, anch'essa inutile, perfettamente inutile. Alla fine stai lì a contare quale personaggio ha ancora la sua piccola storiella rimasta in sospeso, che sai che verrà raccontata nei dettagli, lo sai. Solo dopo che tutto il raccontabile è stato raccontato la serie finalmente finisce.

 

martedì 26 aprile 2022

La preside, lo studente e i giornalisti

Qualche tempo fa mi è arrivata la notizia che una preside di un istituto romano ha probabilmente (o aveva avuto) una storia diciamo sentimentale con uno studente (maggiorenne). La cosa mi è stata raccontata direttamente da una studentessa dello stesso istituto, un racconto appesantito da altri episodi a margine che hanno certamente reso poco simpatica quella preside agli occhi degli studenti. Ricordo di aver pensato che il suo comportamento effettivamente non sembrava  proprio quello ideale per chi ricopre quel tipo di ruolo ed ero dispiaciuto per gli studenti a cui era toccata in sorte quella preside. L'episodio in sé comunque sapeva un po' di gossip e la questione girava tutta attorno a delle chat sospette oltre che a delle sensazioni precise che venivano dagli studenti dell'istituto.

La cosa che in realtà mi suonava strana era il fatto che una notizia del genere era rimbalzata in poco tempo su tutti i giornali, compreso quelli "prestigiosi" (tipo Il Corriere della Sera) ottenendo così una diffusione nazionale ovviamente ripresa poi dai vari social. Passaggi televisivi, interviste alla preside, ecc. A distanza di poco un'ispezione del provveditorato ha stabilito che non esistevano di fatto gli estremi concreti per prendere misure disciplinari di alcun tipo nei confronti della preside.

Ovviamente quello che rimane di questa storia è una reputazione seriamente compromessa della preside (ogni motore di ricerca da oggi in poi al suo nome e cognome associerà sempre questo increscioso episodio) e agli occhi di chi ha letto la notizia (sicuramente tantissime persone) rimarrà in mente un episodio di mala scuola, tanto per dare un'ulteriori bastonata ad un settore culturale già fortemente compromesso.

Quello che rimarrà a me invece è una cosa diversa, sarà la domanda seguente: ma chi sono quei giornalisti che vanno a raccattare una notizia del genere e la fanno diventare (ancor prima di qualunque seria verifica) un gossip di dominio pubblico? Cosa è diventato il giornalismo che sembra sempre più lontano dalle notizie e sempre più orientato al clickbaiting. In questa vicenda la puzza che si sente non proviene dalla scuola ma da un tipo di giornalismo purtroppo sempre più diffuso e sempre più dannoso, sia per chi rimane vittima di queste azioni di sciacallaggio sia per chi perde il suo tempo a leggerle e se ne deve difendere. Il vero danno culturale sottovalutato è questo.

martedì 19 aprile 2022

Un'omelia

Qualche giorno fa in occasione di un funerale ho ascoltato l'omelia del prete. L'ingenuità delle sue parole era imbarazzante, una serie di cose ovvie sulla vita e sulla morte. Ho pensato che fosse un livello di riflessione che io non mi potrei mai permettere, forse per una questione di amor proprio o di orgoglio personale. Considerazioni di una semplicità sconcertante, contrapposte alla complessità del mondo. O forse rinunciatarie di fronte alla complessità del mondo.

Nei Vangeli più volte Gesù chiede di lasciare tutto e seguirlo. Lo chiede ai suoi dodici apostoli, lo chiede al ragazzo ricco che si presenta per sapere cosa deve fare per meritare il Regno dei Cieli. Lo chiede implicitamente a tutti. Dice di non preoccuparsi dei beni materiali ma di affidarsi a Dio. Alcuni passi che richiamano questa idea sono particolarmente poetici.

Ma in questo messaggio che esorta a lasciare tutto e a seguirlo, a non preoccuparsi di niente e cercare il Regno di Dio (che non è di questo mondo), ci sono solo i beni materiali dell'uomo? O per caso non ci rientrano pure i sui beni intellettuali? Cioè la sua voglia di indagare, di capire, di spiegare a sé stesso i misteri del mondo. Un'attività certamente nobile ma anche un poco affannosa, che distoglie da un qualche "vero obiettivo", e forse senza speranza. Un accumulo di conoscenze che somiglia all'accumulo di ricchezze, anche perché le conoscenze si possono effettivamente trasformare in beni e ricchezze. E' anche questo il messaggio di Gesù? Rinunciate alla comprensione della infinita complessità del mondo, non contate sui vostri vani sforzi, non sprecate energie e pensiero per capire le cose terrene, abbandonatevi a Dio, affidatevi a lui con semplicità e otterrete "un tesoro inesauribile nei cieli".

Questo mi è parso di aver capito dall'ingenua omelia di quel prete. Nell'ipotesi di doverla prendere sul serio. Mi rimane un po' il dubbio se quello che ho capito è un messaggio del predicatore Gesù o della Chiesa Cattolica che nei secoli lo ha interpretato e usato. Ma potrebbe neanche aver senso farsi la domanda.


martedì 12 aprile 2022

La guerra in Ucraina e una frase di Wilson

Qualche tempo fa mi sono imbattuto in una bella frase di E. O. Wilson, un famoso biologo. In occasione della sua morte, avvenuta pochi mesi fa, ho avuto occasione di conoscerlo meglio attraverso articoli e trasmissioni radiofoniche. E' stato anche un grande saggista, e nella mia libreria sosta ormai da qualche anno un suo libro in attesa di essere letto. La frase che mi ha colpito è la seguente: "The real problem of humanity is the following: we have paleolithic emotions; medieval institutions; and god-like technology". L'altro giorno, incalzato dalle orribili immagini della guerra in Ucraina, la frase di Wilson mi è rivenuta in mente perché mi sembrava che in un certo senso riuscisse a "descrivere" questa tragedia umana.

Faccio le seguenti tre osservazioni per spiegarmi meglio:

1. Non credo che questa sia una guerra diversa da tutte le altre, con più morti e più efferatezze. Piuttosto è una guerra molto vicina al nostro mondo e soprattutto minacciata costantemente dall'uso di armi nucleari da parte della Russia. Questo forse è un fatto rilevante. Riconoscere che una tecnologia bellica di una potenza devastante sia in mano ad un invasore ben poco raccomandabile, e che questo faccia leva più o meno esplicitamente su una minaccia del genere è un fatto piuttosto preoccupante. Solo l'idea di per sé è un'assurdità, ma tanto basta. Il problema più in generale sarebbe quello di fare in modo che tecnologie sempre più sofisticate non cadano in mano a soggetti che escono fuori da ogni possibile controllo della comunità globale. Si tratta di un'impresa tanto difficile quanto necessaria. Abbiamo meccanismi sempre più efficienti per la produzione di tecnologia ma istituzioni sempre meno efficienti per il suo controllo.

2. E' proprio quello delle istituzioni ad essere un problema serio. E' frustrante constatare che le istituzioni internazionali, anche quelle nate appositamente per garantire la pace, non siano in grado di fare nulla, che siano del tutto inadeguate alla situazione. Difficile forse individuarne tutte le ragioni ma è evidente che è così. Cosa si sta facendo per negoziare la pace o almeno una tregua? Cosa si è fatto negli anni precedenti per favorire una convivenza pacifica in quelle regioni? Chi può intervenire come entità super partes nelle controversie internazionali? Quali sono e dove sono le armi della diplomazia? La pace è un obiettivo sempre perseguito oppure no? Le logiche di potere sembrano sempre le stesse e rischiano di portare a scontri di cui abbiamo sempre meno capacità di controllo, nonostante la minaccia nucleare sia lì da quasi ottant'anni a chiedere l'urgenza di un cambiamento. Le nostre istituzioni probabilmente sono vecchie rispetto agli scenari attuali.

3. La guerra è una cosa barbara, antichissima, direi primitiva. Uno scontro di poteri per la conquista di territori e risorse. Probabilmente la pratichiamo da quando esistono le tribù, cioè da sempre. All'interno di una guerra avvengono cose impensabili in altri contesti, di una violenza inaudita. Un essere umano può fare cose che in una normale situazione di convivenza pacifica neanche riuscirebbe ad immaginare. E' costretto ad atti di sopravvivenza estrema, dove vengono fuori istinti primitivi incontrollabili. Non credo che se ne possa uscire integri nella personalità.

Quindi le situazioni di guerra sfruttano istinti ancestrali e bisogno di sopravvivenza dei poveri malcapitati che la fanno materialmente, e forse in fondo gli stessi istinti guidano in parte anche i potenti che prendono le decisioni. La società dovrebbe avere istituzioni adeguate per poter evitare che i conflitti politici, economici, territoriali ecc. sfocino in guerre, ma non ce la fanno. La tecnologia non fa altro che fornire strumenti di aggressione sempre più potenti, e ce la fa. E' per questo che mi è sembrato che la frase di E. O. Wilson sintetizzasse bene questo quadro generale estremamente problematico (oltre ad avere un significato ancora più ampio). L'animale Uomo, le organizzazioni sociali, e la tecnologia hanno velocità di evoluzione così differenti da creare su tempi lunghi grossi rischi di sopravvivenza alla nostra specie.


martedì 29 marzo 2022

Ennio

Qualche tempo fa ho visto il documentario di Giuseppe Tornatore che racconta la vita e le opere di Ennio Morricone, musicista che nella sua lunga carriera ha lavorato prevalentemente per il cinema. Il documentario è molto bello e nonostante la sua lunghezza (circa due ore e tre quarti) scorre molto bene, probabilmente per la grande e variegata produzione di Morricone che presenta. Poteva giusto forse risparmiarsi qualche minuto di troppo alla fine del documentario, dove si sconfina un po' su toni celebrativi.

La cosa che mi ha colpito di più è la parabola artistica di Morricone, raccontata molto bene. Una parabola fatta, tanto per semplificare, di tre spezzoni strettamente collegati tra loro, e caratterizzata da un comportamento del musicista sempre un po' schizofrenico nei confronti della musica.

Il primo periodo è quello della formazione accademica, peraltro fatta con uno dei massimi musicisti del primo novecento italiano, Goffredo Petrassi. Nella musica cosiddetta "colta" questo è il periodo della dodecafonia, della scuola di Darmstadt, della sperimentazione sui suoni e delle sue degenerazioni provocatorie (come ad esempio quelle di John Cage). Un bagaglio difficile, un po' astruso, certamente lontano dalla sensibilità musicale di gran parte del pubblico dell'epoca. Probabilmente però una formazione importante per Morricone, che gli ha fornito parecchi strumenti espressivi con cui ha potuto affrontare in modo molto originale e personale il suo secondo periodo, quello delle "canzonette", degli arrangiamenti delle canzoni che cominciano ad invadere il mercato musicale popolare italiano, e del suo lavoro in televisione. I suoi arrangiamenti erano particolarmente ricchi di idee, sia sul piano dell'orchestrazione che su quello della ricerca di suoni originali. La descrizione del collegamento tra questi due periodi apparentemente così diversi è uno degli elementi più interessanti e meglio riusciti del documentario.

Il terzo periodo è ovviamente il cinema. La musica da film viene sin da subito considerata dal musicista come un ripiego alla sua carriera, come un occuparsi di musica di secondo piano, di contorno, rispetto a quella che lui stesso chiamava "musica assoluta", coltivata prima nell'ambiente accademico che lo aveva formato e da cui non si è mai completamente sganciato, poi in autonomia e in alternativa all'unica musica per cui diventava sempre più famoso. Questa "schizofrenia musicale" ha caratterizzato per moltissimo tempo, tranne forse che nei suoi anni finali nei quali sembrava essersi dato pace, la vita artistica di Morricone.

Questo lato sofferto della personalità del musicista un po' lo capisco. Il problema è sempre lo stesso, e secondo me finisce spesso per presentarsi all'appassionato di musica. E' un problema che attiene strettamente alla natura di questa forma d'arte. La musica usa una grande quantità di informazione, organizzata anche in strutture complesse e difficili da percepire. Ma tutta questa informazione non significa niente, non "racconta" nulla. Un aspetto che può essere visto come un valore, o meglio si può pensare che il valore più specifico della musica sia proprio questo, che sia la sua caratteristica principale, ma più spesso (e dai più) viene percepito come una sua lacuna, qualcosa che la rende incompleta e che la obbliga a cercare la sua completezza in qualche altra forma di espressione a cui lei naturalmente si accoppia. Spesso un testo letterario, un'azione scenica, una forma di danza, e, da quando c'è il cinema, lo sfondo descrittivo e il trait d’union delle scene di un film. Probabilmente per un musicista con quella formazione così rigorosa e così concentrata sul linguaggio musicale (che tanto lo ha aiutato nella sua lunga carriera) la subordinazione evidente ad un'altra forma espressiva risultava forse umiliante e sicuramente poco rispettosa per la musica stessa, che andrebbe fruita come "assoluta" e non come "condimento".

Questa purezza o assolutezza probabilmente non esiste, o comunque è solo una delle tante facce della musica, che forse ha proprio il vantaggio di poter assumere sembianze differenti, porsi degli obiettivi diversi, legarsi ad altre arti, essere usata in tanti modi diversi, tutti legittimi e nobili al pari della cosiddetta "musica assoluta". Anche se questo non impedisce di fare delle gerarchie personali e per un appassionato (come me) la musica per la musica, sganciata da qualsiasi significato, rimane pur sempre la sua forma più stimolante e carica di forza espressiva.


domenica 13 marzo 2022

Il convento come società ideale (!?)

La nostra società è individualista, stimola la ricerca della ricchezza individuale o al più familiare, spinge all'egoismo, alla competizione, si aspetta una persona in grado di produrre e di consumare. In quest'ottica un povero nella nostra società è certamente un perdente e quasi automaticamente un emarginato. La nostra società fa l'equazione povero=infelice. Il povero per il fatto di esserlo fatica a sentirsi partecipe della società così come l'abbiamo costruita.

D'altra parte l'uomo è un animale sociale (questa frase l'ho già sentita). Più esattamente non credo che un individuo possa mai fare veramente a meno di una comunità, piccola o grande che sia. La solitudine è sana quando ha i suoi giusti tempi, quando si ha comunque una prospettiva di relazionarsi in qualche modo e in qualche momento con gli altri. Si nasce per forza di cose in una comunità di cui si ha strettamente bisogno per sopravvivere. La comunità si percepisce fin dall'inizio della propria vita come una condizione necessaria alla sopravvivenza.

Inoltre la povertà non è un concetto assoluto. Il povero che vive in una comunità solidale può essere molto più felice ed appagato nella sua esistenza quotidiana di quanto possa esserlo l'uomo individualista, egoista e solitario che ricaviamo dai nostri modelli sociali, quello che il vicino di casa non sa neanche chi sia, forse è pure meglio non saperlo (non si sa mai), poi non ha tempo per interessarsene e soprattutto non gliene frega niente andasse a cagare.

Ma pure dove l'individuo può ricevere il conforto di una comunità solidale, anche se in povertà, mancherebbe un ulteriore importante elemento di conforto: la vita terrena deve avere una controparte ultraterrena. Qualunque uomo, per quanto confortato da una vita equilibrata in una comunità che lo accoglie e lo riconosce, deve fare i conti con il carattere finito della sua esistenza. Ha bisogno di un elemento di conforto anche su questo piano.

C'è anche il fatto che l'istinto sociale è così forte che ce lo portiamo appresso anche nell'aldilà. Non mi pare di conoscere nessuna religione che dica, o semplicemente indichi, un'esistenza ultraterrena isolata. Non è neanche pensabile un'eternità come anime isolate. Il paradiso, qualunque paradiso, è sempre immaginato come una comunità.

Quindi un ambiente umano ideale dovrebbe garantire una comunità solidale con un livello di povertà che favorisca la solidarietà anziché la competitività e l'egoismo, e una visione del mondo che mitighi il dramma della morte con l'idea di una dimensione ultraterrena dove poter ricostruire in eterno quella stessa comunità.

In poche parole un convento.

Sarà per questo che le suore sviluppano tutte un ben riconoscibile sorriso soddisfatto e un po' ebete? (c'è qualcosa che non funziona...).


martedì 1 marzo 2022

Ipocrisie geopolitiche

Alla radio il giornalista, stuzzicato dall'intervento di un ascoltatore, difende l'Europa dicendo che in fin dei conti a partire dal dopoguerra ha assicurato ai suoi cittadini ottanta anni di pace e prosperità (anche se forse ha dimenticato la guerra dei Balcani). Si potrebbe dire la stessa cosa degli Stati Uniti. Più esattamente gli stati del cosiddetto mondo occidentale, rappresentati militarmente dall'Alleanza Atlantica (NATO), hanno assicurato ai propri cittadini una vita di pace, democrazia e ricchezza economica, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi.

Ma al di fuori di questa "enclave" di pace, democrazia e prosperità, che cosa è successo? A me sembra di aver visto molto spesso lo stesso copione. L'occidente ha avuto sempre una grande tolleranza se non predilezione per i dittatori, perchè con essi è in genere molto facile fare affari, accordi commerciali, intrattenere rapporti economici di varia natura. Si capisce bene anche perché. Avere a che fare con un dittatore o al massimo con una oligarchia ristretta significa poter prendere decisioni facili e veloci, individuare bene chi ci guadagnerà e saper di conseguenza trattare meglio. Significa non avere a che fare con la complessità e la burocrazia di società governate democraticamente, dove le decisioni passano per organi parlamentari e per il vaglio di una opinione pubblica informata.

Al di fuori di questa "enclave" di pace, democrazia e prosperità, ci sono da sempre immensi territori pieni zeppi di materie prime e di fonti energetiche, così importanti per foraggiare il nostro mondo e mantenere il nostro tenore di vita. E i dittatori sono le teste di ponte ideali per il controllo di questi immensi territori e di tutto quello che custodiscono al di sotto del loro suolo, perché di quello che transita al di sopra non ci siamo mai veramente preoccupati. Tranne forse nei casi in cui le guerre intestine che si generavano quà e là non ci consentivano di fare affari con il commercio di armi tecnologicamente avanzate (siamo bravissimi con la tecnologia).

Certo che però i dittatori possono finire per rompere le scatole, principalmente per due motivi. Primo perché possono avere mire personali non esattamente coincidenti con quello che a noi conviene, e non si può certo pretendere di tenerli a bada così facilmente senza pagare un prezzo. Poi soprattutto perchè sono regimi che a lungo andare affamano la propria popolazione, la riducono a condizioni di vita inaccettabili, a livelli culturali bassissimi. E tutto questo può produrre guerre civili, guerre di religione, guerre etniche, rivolte, rovesciamenti di regime, terrorismo, invasioni di stati confinanti. Tutta roba che può rivelarsi molto scomoda anche per noi. Episodi spiacevoli che vanno controllati con operazioni di "peace keeping", con il tentativo di "esportare il nostro civilissimo modello di democrazia".

Putin è l'ultimo di questi dittatori "convenienti". Un personaggio notoriamente pericoloso con cui l'occidente, proprio l'Europa in particolare, ha intensificato i suoi rapporti commerciali negli ultimi dieci-quindici anni, perché era facile farlo, soprattutto sul fronte delle forniture di gas naturale. Questo ha consentito di far entrare in Russia una quantità immensa di denaro europeo, prevalentemente utilizzato per armare un esercito che in questi giorni sta scaricando le sue armi addosso alla popolazione civile dell'Ucraina. L'occidente non riesce ad usare in modo efficacie la diplomazia (che dovrebbe essere lo strumento principe di una società democratica), non riesce ad usare in modo efficacie le sanzioni economiche (che dovrebbero essere un altro buono strumento di una società ricca), e quindi decide di sostenere la "resistenza" ucraina mandando armi e assecondando così un disastro umanitario (che non dovrebbe essere il comportamento ideale per una società di pace).


lunedì 21 febbraio 2022

Le tre memorie

Credo che per noi esseri umani si possano definire tre tipi di memoria, tutte e tre sono in diversa misura determinanti per definire la nostra personalità e interpretare i nostri comportamenti. Eccole.

La memoria fisiologica - E' il tipo di memoria a cui pensiamo subito, quella che più comunemente chiamiamo memoria. E' l'insieme dei ricordi di ciascuno di noi, tutto quello che il nostro cervello conserva delle nostre esperienze passate e che consciamente o inconsciamente utilizziamo durante la nostra vita. Non dobbiamo far niente per ottenerla, ce l'abbiamo e basta. Possiamo forse esercitarla in vari modi ma rimane un aspetto fisiologico del tutto naturale. Il bagaglio di questa memoria è personale, ognuno ha il suo, ci definisce e ci rapporta agli altri su un piano strettamente individuale. Questa memoria ci rende ben coscienti di noi stessi e la sua importanza è evidente, lo si capisce soprattutto se si ha a che fare con persone molto anziane che la perdono progressivamente. La perdita della memoria significa perdita della propria storia e questo purtroppo corrisponde tristemente alla perdita di una parte importante della propria personalità. Come si sa è altrettanto importante che la memoria sia selettiva e che i ricordi svaniscano con il tempo, è un meccanismo di difesa contro l'eccesso di informazioni che non potremmo mai avere la capacità di elaborare. Un famoso racconto di Borges ci fa immaginare con terrore cosa potrebbe succedere se avessimo una memoria perfetta (Jorge Luis Borges, "Funes el memorioso", 1942).

La memoria storica - Intendo quella data dalla storia della società in cui viviamo. E' una memoria che non fa parte della nostra fisiologia diretta, bensì è il risultato dei saperi trasmessi da una generazione all'altra. E' quello che possiamo chiamare a buon diritto cultura. Non è un patrimonio solo della specie umana, moltissime altre specie ce l'hanno, ma in genere in misura molto minore e molto meno evidente. Il motivo sta nella nostra incredibile capacità di comunicare, una capacità che da sempre ci distingue come specie, che abbiamo evoluto moltissimo tempo fa e che la tecnologia (altra nostra peculiarità) ci ha permesso di raffinare moltissime volte nella nostra storia. Al contrario della memoria fisiologica quella storica ciascuno di noi la deve imparare, la deve costruire personalmente con lo studio durante tutta la sua vita. A differenza della memoria fisiologica non ci fornisce una coscienza individuale bensì una coscienza sociale, altrettanto importante per la nostra sopravvivenza. Anzi, rafforza la nostra coscienza individuale attraverso l'identificazione con la comunità a cui apparteniamo. Se la memoria fisiologica definisce la dimensione individuale dell'uomo quella storica definisce la sua dimensione sociale. La cultura non è altro che la consapevolezza della nostra dimensione sociale.

La memoria genetica - Questa memoria è forse la più sfuggente e difficile da definire ed individuare. E' quella scritta da qualche parte nel nostro materiale ereditario ma di cui noi siamo del tutto inconsapevoli, o di cui comunque abbiamo meno coscienza. Viene fuori dalla parte più antica e primitiva, più ancestrale e profonda della nostra umanità. E' responsabile dei comportamenti istintivi. D'altra parte l'istinto è definito da un insieme di comportamenti di cui abbiamo meno controllo e consapevolezza, che si esprimono quasi in automatico, come fossero già scritti da qualche parte. Un esempio affascinante di questa memoria ce lo dà l'animismo. La cultura animista è quell'insieme di credenze che attribuiscono qualità animate, addirittura soprannaturali o divine, a oggetti, luoghi o elementi materiali (questa è più o meno la definizione che si trova su Wikipedia). Ma la radice dell'animismo è secondo me qualcosa di estremamente istintivo, connaturato con un comportamento umano primitivo e universale, che non fa parte del singolo individuo (memoria fisiologica), né della sua cultura (memoria storica), bensì della specie. Si tratta di quell'istinto che ci fa vedere l'animato nell'inanimato, una causa animata dietro qualunque movimento. Ed è ovviamente collegato con la capacità di individuare un potenziale pericolo anche dove non c'è, di saperlo immaginare e quindi prevedere. E' collegato alla nostra capacità di sopravvivenza, e fa parte della nostra memoria di specie. E' il motore di tutte le religioni. Ne ho già scritto qui.

Questi, mi pare, sono tra i principali ingredienti della nostra esistenza.


mercoledì 16 febbraio 2022

I messaggi del potere

Qualche giorno fa sono andato a recuperare l'intervista televisiva che Fabio Fazio ha fatto a Papa Francesco. Fazio ha intervistato praticamente tutti. Il motivo principale, oltre alla sua indubbia bravura personale, è che le sue interviste sono sempre celebrative, amplificano il prestigio e la popolarità di tutti quelli che vengono intervistati, non mettono mai in dubbio la grandezza del personaggio, chiunque sia. Nel caso dell'intervista al Papa è significativo quello che mi è capitato di ascoltare in un telegiornale pomeridiano, in uno di quei collegamenti con il conduttore che servono per lanciare il suo programma. La giornalista in modo direi del tutto spontaneo e naturale (essendo una giornalista) chiede a Fazio "che domande farai al Papa?". Lui risponde, quasi con un tono di rimprovero, che non si fanno domande al Papa, per cui lui ci farà semplicemente una lunga chiacchierata su temi importanti. Questo ovviamente significa che al Papa verrà dato per un'ora l'uso di un grande mezzo di comunicazione di massa, in una televisione pubblica, dentro una delle trasmissioni più seguite in assoluto.

L'intervista come mi aspettavo non è di alcun interesse. Tra le tante domande inutili e scontate c'è anche quella onnipresente che suona più o meno così: "ma come è possibile che Dio permetta tanta sofferenza nel mondo?" che è forse quella che ha messo più in difficoltà il Papa (il che è tutto dire). D'altra parte è da quando l'uomo si è inventato le divinità (cioè da sempre) che ci si può fare questa domanda irrisolta e piuttosto scomoda. Anche il Papa non ha potuto far altro che invocare il "mistero" di questa contraddizione, dopo aver fatto i soliti cenni al libero arbitrio. Insomma i temi importanti erano questi, oltre ovviamente alle guerre, alla povertà, alle sofferenze, ecc.

L'intervista ha comunque avuto ovviamente un livello di ascolti altissimo e la figura del Papa, come quella di chiunque venga intervistato da Fazio, ne è uscita ingigantita, pur senza una ragione oggettiva. Viene in mente che questo era sin dall'inizio l'unico vero obiettivo. Tra l'altro questo mi pare confermato da una breve rassegna di articoli online che riportano diverse informazioni sull'evento, dati di ascolto, pettegolezzi sul fatto che in realtà fosse un'intervista registrata e che questo non fosse stato detto chiaramente, ma poco o niente sui temi toccati dalla chiacchierata.

L'evento particolarmente inusuale e per questo molto pubblicizzato (Fazio è stato riempito di complimenti ammirati per lo scoop ottenuto) e contemporaneamente la sua sostanziale inconsistenza fanno scattare l'ovvia domanda "a che serve questa roba?". Allora mi viene in mente che la Chiesa Cattolica a ben vedere non sta passando un bel momento storico, ha gravi problemi al suo interno di ordine morale (si veda la questione degli abusi sessuali, ampiamente diffusa e documentata su tempi recenti e non recenti, tutt'altro che circoscritta a pochi casi isolati), ha problemi di tenuta sia al suo interno (si veda la questione delle crisi vocazionali) che all'esterno (si veda la questione delle chiese disertate dai fedeli). In breve ha problemi di immagine verso la società. E' urgente mantenere nell'opinione pubblica un'immagine positiva della Chiesa nel mondo. Servono messaggi appropriati.

Sarò pure blasfemo e forse anche un po' ingiusto nei confronti di questo Papa ma a me la sua intervista ha fatto venire in mente certe pubblicità di grandi aziende, come per esempio Amazon, che non servono per pubblicizzare un qualche loro prodotto ma cercano semplicemente di comunicare un'immagine di sé stesse la più positiva possibile. E' anche quello che ormai purtroppo molto frequentemente si vede nei nostri giornali di carta sempre più in crisi, che assieme alle normali pubblicità ben riconoscibili fanno uscire articoli il cui scopo più o meno mascherato è quello di dare una rappresentazione positiva di un'azienda, quella che magari nella pagina a fronte pubblicizza dichiaratamente un suo prodotto. Infine è anche quello che si nota nelle pubblicità sull'assegnazione dell'otto per mille alla Chiesa Cattolica che arrivano ormai da anni sempre puntuali nei momenti dell'anno opportuni. Insomma, tecnicamente si tratta di forme molto efficaci di marketing aziendale. Questo tipo di messaggi è quello che serve ad un potere per giustificare sé stesso, farsi accettare o addirittura ammirare.

NOTA: qualche giorno dopo l'uscita di questa intervista il Papa ha pensato bene di fare dichiarazioni contro il suicidio assistito ("la morte va accolta, non provocata") alla vigilia della discussione in parlamento della legge sul fine vita che aveva già subito un rinvio. E che infatti è subito slittata di nuovo ad altra data.