giovedì 30 ottobre 2008

La riforma della scuola

In queste ultime settimane il governo di destra ha avuto il coraggio di presentare un taglio pesantissimo ai finanziamenti per la scuola pubblica e una serie di miseri provvedimenti di stampo conservatore per la scuola elementare (tipo la reintroduzione del grembiule, del voto e del maestro unico) come una "riforma scolastica". Questo triste episodio serve solo a riaprire un annoso e ormai palloso dibattito sull'esigenza di una riforma scolastica in italia. Sono passati troppi anni da quando ci devo aver pensato la prima volta e sinceramente non c'ho più molta voglia di farlo. Mi è ritornata un po' ultimamente perchè mio figlio il prossimo anno sarà in prima elementare, e ovviamente sono preoccupato.

Ma in fondo che c'è da pensare? A me pare evidente dov'è il nocciolo della questione: è il livello di qualità dell'insegnamento; e mi sembra abbastanza evidente anche come ottenerlo: premiando le strutture che funzionano bene e penalizzando le altre. E' una banalità? Già. Intendiamoci, non è facile per niente trasformare queste due semplici idee in una vera riforma, e infatti lo devo ancora vedere un ministro che riesce a fare qualcosa di concreto. Ma almeno uno che mostrasse di voler andare nella direzione giusta prima o poi lo vorrei vedere.

Ai miei tempi ho sempre sentito dire che il liceo classico era la scuola formativa per eccellenza, dove si studiavano materie che educavano la mente meglio di altre, che preparavano agli studi superiori meglio di altre, e così via. Nonostante ciò scelsi di iscrivermi al liceo scientifico. A distanza di anni, con una consapevolezza forse maggiore di cosa possa essere uno studio formativo, credo che quelle considerazioni avevano un fondo di verità, ma di una verità diversa. Il fatto vero è che i licei classici sono sempre stati tradizionalmente le scuole più prestigiose (non so se lo sono tuttora) e dunque sicuramente le scuole in cui il livello di qualità dell'insegnamento (di qualsiasi cosa) era mediamente una spanna più alto di tutte le altre. E' questa di fatto la chiave della questione, è la qualità della struttura scolastica dove studi, più che quello che studi.

Quando ho cominciato a seguire i corsi di fisica accanto a me c'erano diversi colleghi che venivano dal liceo classico. In quell'occasione ebbi a notare che loro non conoscevano affatto la matematica mentre la maggior parte di noi la conosceva male, e non so dire con sicurezza alla fine chi si è trovato peggio. Di certo sono sicuro che studiare male le cose (qualsiasi cosa) è più dannoso che non studiare affatto.

domenica 26 ottobre 2008

Il crocifisso negli uffici pubblici

Ricordo che alcuni anni fa campeggiò per almeno una settimana su tutti i giornali e i telegiornali una discussione piuttosto accesa sulla legittimità della presenza del simbolo cristiano per eccellenza, il crocifisso, in tutti gli uffici pubblici dello Stato. La polemica aveva preso le mosse da una denuncia di un genitore di fede islamica che riteneva discriminatorio per il proprio figlio la presenza in classe del crocifisso cattolico.

Questa discussione mi colpì per due aspetti:

1. Il livello della polemica mi sembrava veramente eccessivo rispetto al problema; tutto sommato non riesco ad appassionarmi così tanto alla questione di tirar giù o meno un simbolo religioso (presente da sempre) dalle aule delle nostre scuole statali. Sentire tutte quelle dichiarazioni scandalizzate da parte di esponenti della Chiesa Cattolica ma ancor più da parte di molti politici, e vederle amplificate da stampa e televisione per così tanto tempo, mi aveva veramente scocciato.

2. Se si analizza in sè il problema non si può che arrivare ad una semplice conclusione: è ovvio che uno Stato Laico non dovrebbe mai esporre alcun simbolo religioso in nessun ufficio pubblico, in nessuna occasione ufficiale; qualunque cosa che rappresenti lo Stato non può far uso di simboli religiosi. Di sicuro è altrettanto ovvio che qualunque privato cittadino, in qualunque occasione anche pubblica, può esporre a titolo personale (o in associazione con altri) tutti i simboli religiosi che ritiene opportuni.

Mi ricordo di aver pensato che in quella settimana mi sarebbe piaciuto staccare tutti i crocifissi delle scuole italiane, darli in testa a quei preti e soprattutto a quei politici opportunisti che si sbracciavano in dichiarazioni sceme, e poi rimetterli tutti tranquillamente al loro posto.

mercoledì 15 ottobre 2008

Il rispetto delle regole

Tutti noi siamo tentati di non rispettare le regole, se ci capita. E la cosa in sè alla fine non è poi tanto grave. Ma, prima di tutto dovremmo aver timore di farlo sapendo che ci sono meccanismi di controllo efficiente che oggi me la fanno passare liscia, domani magari pure, ma dopodomani mi beccano e mi fanno pagare tutto con gli interessi. E poi, anche nel caso riuscissimo a eludere per una volta una regola e a non subirne le conseguenze, comunque dovremmo stare nelle condizioni di dovercene vergognare. Cioè il rispetto delle regole dovrebbe essere indotto, oltre che dalla convinzione generale della loro necessità per garantire la convivenza civile, anche dalla combinazione del timore delle conseguenze di essere presi con le mani nel sacco e dalla vergogna di subire il biasimo e il disprezzo degli altri. Credo che se per lungo tempo in una società manca il primo di questi due elementi (che è più istintivo e diretto) prima o poi se ne va anche il secondo (che è più di tipo culturale e indiretto), e in tal caso la situazione si fa piuttosto grave.

Direi che noi in italia siamo messi più o meno a questo punto. Potrei dire in modo spicciolo: la gente è sempre più paracula e non si vergogna più di niente. E può farlo, accidenti. Si può qualche volta non rispettare le regole, ma non è possibile farlo sistematicamente senza subire conseguenze, e farlo diventare perfino un elemento di merito tanto da non giustificare più alcun sentimento di vergogna, anzi.

E' chiaro che la continua dimostrazione della incapacità dello Stato di far rispettare le leggi è la causa principale che a lungo andare determina quella che viene chiamata cultura dell'illegalità, e che consiste nel vedere una società in cui sempre più spesso chi non rispetta le regole non viene punito e di conseguenza si avvantaggia su chi vincola e circoscrive più o meno volontariamente il proprio operato all'interno del sistema di regole che la società si è dato.

Constatare continuamente che in fin dei conti non rispettare le regole conviene non è un fatto senza conseguenze, soprattutto dal punto di vista dell'educazione delle nuove generazioni per le quali tutto questo si traduce nella assimilazione involontaria di modelli di comportamento sbagliati, nel "fascino" e nel "valore" dell'essere paraculi.

Mi viene da pensare che forse non ho alcuna speranza di poter insegnare a mio figlio il valore del rispetto delle regole (che magari qualche volta deciderà di non rispettare, assumendosene le responsabilità), perchè a fronte delle mie belle parole c'è fuori casa una società che funziona quasi sempre all'opposto, e lui prima o poi se ne accorgerà. Staremo a vedere.

venerdì 3 ottobre 2008

A che serve la Scienza?

La Scienza è spesso astrusa per chi non se ne è mai occupato troppo, e questo ha una spiegazione chiara. Qualunque disciplina scientifica richiede un livello minimo di frequentazione piuttosto elevato per poter essere apprezzata. Per quanti sforzi si possano fare per presentarla in maniera accessibile la Scienza richiede comunque impegno a chi la vuole anche solo in parte conoscere, e questo impegno onestamente non si può pretendere da chi ha altri legittimi interessi culturali. E fin qui tutto bene. Dispiace constatare che argomenti così affascinanti e profondi non siano minimamente percepiti da chi ti sta intorno, ma in fondo chissà quante bellissime cose sfuggono alla mia attenzione.

C'è una cosa però che ho sempre tollerato poco. Nelle rare volte in cui mi trovo a dare una spiegazione di una qualche conoscenza scientifica almeno una volta su due salta fuori la solita domanda: "ma a cosa serve? c'è una qualche applicazione di questa cosa?". E' un tipo di domanda che in genere ammazza il discorso scientifico. Non perchè la Scienza non abbia applicazioni pratiche, ma perchè queste ultime tipicamente non sono mai il nocciolo della questione. A questo punto potrei tirar fuori la classica frase di Richard Feynmann: "La fisica è come il sesso. Certo, può avere qualche conseguenza concreta, ma non è per quello che la facciamo". Ma normalmente la discussione sfuma.

Ma perchè sempre 'sta domanda?

Beh, sicuramente uno potrebbe essere portato a farla nella speranza che la descrizione di una qualche applicazione pratica di quello di cui stai parlando possa rendere l'argomento un pochino più comprensibile. Ma spesso si tratta di una scorciatoia che in realtà porta fuori strada (vedi la questione dell'impegno di cui parlavo prima).

C'è ovviamente una ragione più profonda. La Scienza rischia sempre di essere identificata con la tecnica, con quello che si può fare con una conoscenza, non con la conoscenza in sè. E' vero, le due cose sono strettamente imparentate, il valore di una qualsiasi conoscenza sta anche nella possibilità di utilizzarla in qualche modo. In particolare per quanto riguarda l'attività scientifica, la conoscenza del mondo che essa produce si traduce in genere prima o poi in una qualche possibilità di modificarlo a proprio vantaggio. Tutta la nostra storia culturale è caratterizzata da questo meccanismo.

Confondere la Scienza con le sue inevitabili applicazioni tecnologiche e comprenderla o giudicarla attraverso queste è secondo me indice di ignoranza, e probabilmente andrebbe associato ad un atteggiamento tuttora molto diffuso, che è quello di non classificare l'attività scientifica come umanistica e in tal modo declassarla ad una mera attività tecnico-professionale, altamente specializzata ma pur sempre un'attività tecnica. A parte forse qualche mostro sacro gli scienziati nella nostra società non hanno lo status di intellettuali, come potrebbero esserlo i filosofi, gli scrittori, gli artisti in genere. La nostra è una società che tende a classificare come ricerca scientifica quella che ha come obiettivo la produzione di un nuovo farmaco o di una nuova terapia medica (che secondo me sono più correttamente classificabili come ricerche tecnologiche, sebbene abbiano come soggetto l'uomo), e che invece non percepiscono abbastanza l'importanza della ricerca fondamentale.

In fondo Dirac è un premio nobel come Marquez, e di sicuro è un intellettuale di non minor rilievo, importantissimo per la nostra storia culturale. Ma se io non conosco Marquez, molta gente di cultura medio-alta mi guarderebbe strano. E Dirac invece chi è? Boh!

Ai miei tempi dell'università incontrare uno studente di fisica o di matematica che fosse sensibile alle principali discipline umanistiche (musica, poesia, letteratura, teatro, cinema) e addirittura che le praticasse nel suo tempo libero era la normalità. Non credo di aver mai incontrato in vita mia (nè ai tempi dell'università nè in seguito) persone esperte in discipline umanistiche che avessero una qualche competenza o passione per la Scienza.

Tempo fa mi è capitato di leggere un articolo di Enrico Bellone che ricordava un episodio significativo della nostra storia nazionale: la disputa sul valore della Scienza tra lo sconosciuto Federico Enriquez e i notissimi Benedetto Croce e Giovanni Gentile. I caratteri di questa disputa di primo nevecento mi suonano stranamente familiari. Da una parte Enriquez, convinto assertore dell'importanza della Scienza nel contenso generale della cultura moderna, e della sua conseguente importanza nell'educazione delle nuove generazioni. Dall'altra Croce e Gentile, secondo i quali gli scienziati sviluppavano solamente delle tecniche, e le tecniche nulla avevano da condividere con l'elaborazione del pensiero o con lo sviluppo della cultura. Enriquez (che insieme ad altri matematici quali Castelnuovo, Severi, Volterra, Levi-Civita, formava un circolo di scienziati ed intellettuali italiani di fama mondiale) perse la disputa, e di lì a poco Gentile varò la sua riforma scolastica, che poneva chiaramente la cultura scientifica (e le scuole preposte ad insegnarla) in una posizione subordinata rispetto alla più nobile cultura umanistica. Probabilmente almeno qualcuno dei vizi culturali a cui ho fatto riferimento prima nascono proprio in questo periodo.

La conoscenza della storia per capire meglio il nostro presente è spesso determinante.