venerdì 28 dicembre 2018

Alexa

E' già la terza volta che qualcuno mi racconta di avere in casa Alexa (non è una avvenente signora di qualche paese che ci manda immigrati bensì una tecnologia di domotica a cui si può "parlare" per ottenere vari servizi casalinghi), l'ultima da un amico a cui ho anche risposto un po' troppo duramente (ho fatto male).

Giuro che io non ho niente contro la tecnologia in sé, la trovo sempre un elemento essenziale del progresso di una società. Il fatto è che in un numero sempre maggiore di casi a me sembra che certe tecnologie ci aiutino a costruire una società sempre più chiusa, sempre più individualista. Perdiamo sempre più tempo a comprare e configurare dispositivi per il nostro comfort casalingo, o quello dei nostri spazi di vita sempre più angusti, come ad esempio le nostre automobili, o come i nostri televisori, sempre meno finestre sul mondo e sempre più veicoli di consumo. E' anche chiaro che tutto ciò non è certo colpa della tecnologia. E' la società che non funziona, e la tecnologia ne segue i binari.

Siamo sofisticatissimi nelle tecnologie quando queste si esprimono nei prodotti di più puro consumo, in oggetti che si comprano e si configurano per il proprio utilizzo personale ma poi non siamo in grado come società di liberarci di problemi gravissimi. Il nostro ambiente urbano è caratterizzato da automobili in movimento e in parcheggio, sono di gran lunga la cosa più presente in qualunque direzione si guardi. Il secondo elemento paesaggistico dominante sono i rifiuti. In generale il nostro ambiente è sottoposto ad un degrado costante sotto vari aspetti. Tutti aspetti su cui la tecnologia potrebbe fare tanto di buono. E' la direzione che è sbagliata. E intendiamoci, non c'è una direzione "naturale" che prima o poi risolverà tutto.

Dovremmo impiegare il nostro tempo libero molto più a riflettere sulla tecnologia che a praticarla (anche se praticarla certamente aiuta a rifletterci sopra), ad analizzarne i fini più che a comprarla compulsivamente, a capirne le potenzialità e il grande valore sociale più che a trastullarci individualmente con essa. Dovremmo costruirci una visione più ampia e lungimirante del mondo in cui viviamo. Un po' meno attenti ai nostri comfort, magari. Quello che mi preoccupa davvero della tecnologia è il suo potenziale alienante per l'uomo, sempre più presente nelle nostre società.

Trovo queste mie preoccupazioni riflesse in alcune considerazioni estratte dall'introduzione che Marcello Cini fa ad un bel libro sui rapporti tra scienza e società. Le sparo in calce a questo post un po' troppo triste: "E' evidente che il progresso tecnico, in quanto mezzo per intensificare la produzione di beni, non si può identificare a priori con il benessere della società. Non solo, ma diventa sempre più chiaro che non si può considerare in astratto tale progresso come uno strumento neutro rispetto alla struttura sociale, trascurando il momento essenziale dell'influenza di quest'ultima sul primo, influenza che appare sempre più determinante". "Dobbiamo guardarci dalla tentazione di considerare il progresso scientifico e tecnico di per sé come un fattore di felicità e di benessere per l'uomo. [... il progresso tecnico rinchiude] gli uomini ognuno nell'angusta sfera dei propri immediati interessi, raggela i loro slanci e sentimenti umani, trasformandoli in aridi utilizzatori di macchine, spegnendo la loro capacità di lottare insieme agli altri uomini per comuni ideali che li facciano sentire fratelli".

mercoledì 26 dicembre 2018

Individualismo mascherato

Se c'è una cosa che negli ultimi anni mi disturba sempre di più è quell'atteggiamento diffuso con cui molti cittadini italiani schifano sistematicamente l'Italia e gli italiani. Al di là del contenuto di verità di queste critiche (che sono sempre meno critiche e sempre più accuse scontate, sono cioè sempre più retorica) quello che mal sopporto sono due aspetti specifici. Il primo è questo confronto con un "estero" vagheggiato come se fosse l'Eden, un'entità astratta che ci risolverà tutti i problemi, se non i nostri quelli dei nostri figli meritevoli per definizione, la terra promessa delle persone intelligenti e capaci, oppressi dal "popolo italiano bue, fancazzista e paraculo". Il secondo, più grave, è questa pretesa ostentata (e troppo scontata) di "distacco" intellettuale e morale dalla massa, questo non includersi nell'Italia pur vivendoci, avendoci costruito la propria vita personale e familiare, e continuare a farlo tutti i giorni.

Trovo questo un atteggiamento di un individualismo spaventoso, una voglia atavica di non sentirsi parte di niente, di non voler spartire il proprio destino con quello di nessun altro, di non volersi includere in nessuna comunità. E' probabilmente uno degli atteggiamenti più incivili che si possano immaginare. Tipico di noi italiani ;-)

venerdì 21 dicembre 2018

Un cartello rivelatore. E un dubbio.

L'episodio del tizio che si presenta alla manifestazione leghista con il cartello Ama il prossimo tuo e per questo viene prontamente allontanato dalla piazza per "evitare le provocazioni" è una contraddizione macroscopica.

Il cartello riporta la frase che rappresenta l'insegnamento fondamentale del cristianesimo, e non credo che questo possa essere messo in dubbio da nessuno. Il cartello viene esposto ad una manifestazione di un partito il cui leader ad ogni buona occasione brandisce i simboli della tradizione cristiana rivendicata come un forte elemento culturale identitario del popolo italiano. Le due cose messe insieme possono consentire una sola deduzione, la seguente: il cristianesimo viene usato da quel partito e da quel leader in modo falso e ipocrita, con l'unico scopo di trovare un'etichetta, non importa se vera o finta, che distingua gli italiani dagli "altri".

Ora il dubbio. Ma gli italiani che votano e appoggiano questo partito e questo leader, che sono tanti e in crescita, procedono per analfabetismo funzionale o per ipocrisia cristiana incancrenita negli anni? In sintesi, ci sono o ci fanno?

venerdì 7 dicembre 2018

Un errore da umanisti

Giorgio Parisi, attuale presidente dell'Accademia dei Lincei scrive: "La scienza deve essere difesa non solo per i suoi aspetti pratici, ma anche per il suo valore culturale". Ecco, la cultura è sempre un problema di valori, e la scienza ad oggi ne è un po' carente, nel senso che la sua affermazione indiscutibile nella società è principalmente il risultato dei suoi aspetti pratici, quindi tecnologici, più che del suo intrinseco valore culturale, come invece succede per molte altre discipline.

La storia, la letteratura, e qualunque arte sono forme di conoscenza del mondo che hanno un valore in sé, generalmente riconosciuto. La nostra società li codifica come saperi nobili, magari più o meno ipocritamente e acriticamente (ci sono pseudoculture, sottoculture, ecc.) ma questo atteggiamento permette di inserire anche solo formalmente questi saperi nel patrimonio culturale della società, in modo stabile e ufficiale. Insomma hanno un posto nel patrimonio dei valori condivisi.

La scienza continua ad essere un corpo estraneo in questo sistema di valori. Quello che conta veramente è cosa ci permette di fare, che potere ci conferisce sulla natura, quanto a lungo e bene ci fa campare. Intendiamoci, questo aspetto è fondamentale, la scienza come attività intellettuale si è sviluppata anche per questo e come si sà la sua efficacia è enorme. Ma forse proprio l'evidenza macroscopica di questa efficacia ha prodotto il risultato finale, che mi sembra (per provare a sintetizzare) quello di una disciplina praticamente utile ma intellettualmente scomoda.

Siccome è utile ovviamente si studia, e i programmi scolastici mediamente sono abbastanza ricchi di argomenti scientifici. Ma poiché la cultura è appunto una questione di valori, questa presenza nei programmi scolastici può non bastare. Il rapporto tra scienza e tutto il resto rischia sempre di essere portato sul piano del confronto tra ciò che serve e ciò che ci piace o ci diverte, tra ciò che serve e ciò che ci forma come persone, tra ciò che serve e ciò che ci innalza lo spirito, tra ciò che serve e ciò che ci fa riflettere su di noi e sul mondo. Tra ciò che serve e ciò che non serve a un cazzo.

La cosa purtroppo è del tutto generale, arriva da tutte le parti, proprio perché è un dato culturale diffuso nella società. Sia chi ha una frequentazione con la scienza sia chi non ce l'ha la pensa sostanzialmente allo stesso modo, anche se da fronti opposti. La scienza fornisce le tecniche per risolvere i problemi pratici e per questo è importante. La scienza è solo una tecnica per risolvere problemi pratici e per questo non ha senso farla entrare (è pure faticoso) nel gruppo di quei valori culturali che fondano la società, è sufficiente consegnarla agli specialisti (in Italia se possibile, ma non necessariamente), e tenere il tutto in un posticino a parte (di cui alla fine gli specialisti sono anche fieri). Il titolo del post fa riferimento ad un retaggio forse importante per quello che sto dicendo, forse la sua causa storica. Un certo atteggiamento pseudo-umanista a tutt'oggi relega la scienza ad un fatto meramente tecnico-pratico, spogliandola del suo valore culturale intrinseco, quello che le discipline umanistiche invece indubitabilmente hanno.

E' questo che dà la dimensione del problema, ed è in questo ambito che va interpretata la frase di Parisi. Il quale aggiunge, molto significativamente: "Dovremmo avere il coraggio di prendere esempio da Robert Wilson, fisico statunitense che nel 1969, di fronte ad un senatore che insistentemente chiedeva quali fossero le applicazioni della costruzione dell'acceleratore al Fermilab, e in particolare se fosse utile militarmente per difendere il paese, risponde 'Il suo valore sta nell'amore per la cultura: è come la pittura, la scultura, la poesia, come tutte quelle attività di cui gli americani sono patriotticamente fieri; non serve per difendere il nostro paese, ma fa che valga la pena difendere il nostro paese'".