sabato 30 dicembre 2023

Musicisti moderni a corte

Questa mattina leggo che i Maneskin si sono esibiti alla festa di Natale di Luxottica. E' già una notizia che mi ha lasciato un po' spiazzato. Ma poi capisco dall'articolo che non si tratta di un fenomeno isolato. Mi era sfuggito ma già da qualche anno i gruppi e i cantanti, italiani e stranieri, prendono in considerazione e spesso accettano la partecipazione a feste private e le aziende mettono a disposizione compensi sempre più alti per questi eventi. L'articolo fa anche giustamente notare che non si tratta di musicisti al termine della carriera, tutt'altro.

Sembra che questo sia dovuto alla crisi del mercato discografico (oramai praticamente scomparso) e ai meccanismi attuali di distribuzione delle opere molto poco redditizi per gli autori. Il risultato è che adesso i concerti sono diventati la principale fonte di guadagno per i musicisti. Questo potrebbe anche essere visto come un fatto positivo, perché è bella l'idea di aumentare le possibilità di ascolto della musica dal vivo, ma credo che per rendere redditizi questi concerti non basta salire su un palco e suonare, come sarebbe tutto sommato normale, occorrono invece investimenti ingenti, organizzazioni complesse e difficili. Questo costringe i musicisti ad entrare in una logica di mercato che secondo me può lasciare ben pochi spazi a scelte artistiche libere, personali, magari innovative.

E adesso cominciano ad arrivare gli eventi privati, organizzati e scelti direttamente dalle aziende, disposte ad investire grosse cifre per curare la loro immagine sia al loro interno tra i dipendenti sia all'esterno, diffondendo, come mi pare che succeda, in forma più o meno autorizzata, filmati sui numerosi social seguitissimi. Effettivamente gli eventi privati di questo tipo possono rivelarsi estremamente convenienti per i musicisti, i costi sono ridotti, gran parte dell'organizzazione è in capo all'azienda che li ospita, i concerti sono spesso relativamente brevi e a quanto ho capito ben pagati. Certamente pagati di più in relazione all’impegno. I Maneskin sono arrivati da Roma ad Agordo (Belluno) poco prima di esibirsi (23:15 circa) per poi ripartire subito a fine concerto (poco prima dell'una) portandosi a casa un cachet di 800 mila euro. Tra l'altro il loro rapporto con i grossi brand non finisce qui visto che per mesi la TIM ce li ha fatti ascoltare nelle sue pubblicità. E alla fine anche i format come x-factor, se pure non sono aziende, poco ci manca.

Al momento non è così e anzi, forse questa cosa è ancora percepita come un tabù dal pubblico e dagli stessi musicisti, ma forse in futuro molta musica avrà sempre più bisogno di soldi e di legarsi quindi ai grossi brand, e questi saranno sempre più importanti per veicolarla, e forse per produrla. Vedo delle somiglianze con il cinema, sempre più produttivo, sempre più a riciclo di idee, sempre più povero di registi che oltre a riprendere in modo impeccabile le scene siano anche autori, ideatori delle loro opere, siano protagonisti di un loro personale processo creativo, insomma che siano artisti. Il riciclo delle idee anche in musica certe volte è così evidente che ogni tanto mi viene da pensare che stiamo cercando di fare peggio delle intelligenze artificiali, gli stiamo preparando il terreno.

Sarò un trombone, sarò un parruccone, ma alla fine di questa riflessione mi viene in mente Mozart. Un artista che è praticamente morto di stenti per aver fatto una scelta di libertà che all'epoca aveva qualcosa di rivoluzionario, una scelta da vero illuminista. I musicisti suoi predecessori e suoi contemporanei erano tutti impiegati alle corti dei nobili dell'epoca, stipendiati per fare le cose che gli venivano chieste in funzione delle esigenze della corte e dello svago di principi, duchi, arcivescovi, ecc. Mozart ha avuto il coraggio (col talento che era cosciente di avere) di svincolarsi dalle corti e intraprendere una carriera da artista libero, sperando che il suo lavoro gli consentisse comunque di poter vivere. Troppo avanti sui suoi tempi, purtroppo. Anche più avanti di certi musicisti attuali.


lunedì 25 dicembre 2023

Pot-pourri di Natale

Leggo che il Vaticano ha approvato la benedizione delle coppie di fatto e di quelle formate da persone dello stesso sesso. Questo non implica una equiparazione dell'unione di queste coppie al matrimonio che continua ad essere considerato un sacramento che stabilisce "un'unione esclusiva, stabile e indissolubile tra un uomo e una donna, naturalmente aperta a generare figli". Con la solita inconfondibile inerzia la Chiesa sembra avvicinarsi ad una realtà che precedentemente non prendeva in considerazione e dimostra con ciò una certa capacità di rinnovarsi. Questo suo atteggiamento, messo a confronto con la rigidità che sembrano avere altre religioni come ad esempio l'islam, ci appare come un elemento positivo intrinseco della Chiesa Cattolica sulle altre religioni del nostro tempo. Io però non posso fare a meno di pensare che la storia della Chiesa è da sempre una storia di rinnovi indotti dal progresso della cultura occidentale più che da elementi intrinseci del cattolicesimo, che invece mi appare come una struttura di potere bisognosa di adattarsi ai tempi per mantenersi viva e vegeta. Nella sua capacità di rinnovarsi, peraltro sempre cauta e limitata, non ci trovo niente di particolarmente positivo, piuttosto trovo che sia un elemento di ambiguità.

Leggo che Chiara Ferragni, insieme alla società Balocco, è sotto inchiesta per una campagna promozionale di una linea di pandori presentata come iniziativa di beneficenza per l'ospedale Regina Margherita di Torino. In realtà la beneficenza era già stata stabilita con un ammontare fisso ancora prima delle vendite e indipendentemente da esse. In pratica l'annuncio delle vendite dei pandori con una percentuale da dare in beneficenza era falsa e usata come "phishing pubblicitario" per aumentare le vendite stesse. Questa notizia mi fa venire dei rigurgiti di cristianesimo. Se si vuol far del bene a qualcuno non è certo necessario annunciarlo, lo si fa e basta. Bella la frase del vangelo che dice "la tua sinistra non sappia quello che fa la tua destra". In questo caso invece il senso della frase evangelica è completamente ribaltato: è importante annunciare quello che si fa più che farlo veramente. Evitando di farsi sputtanare. Perché il problema è proprio quello, non importa quello che accade, ma quello che se ne racconta.

Leggo che il Servizio Sanitario Nazionale ha fornito assistenza completa a una donna per il suo suicidio assistito. E' la prima volta che succede in Italia. E' legale non per una legge del parlamento (che non c'è) ma per una sentenza della Corte Costituzionale del 2019. In assenza di una vera e propria legge ogni caso è affidato volta per volta alla gestione delle singole Aziende Sanitarie Locali. Il fatto di non avere una legge che consenta a una persona di scegliere liberamente della propria vita e della propria morte è il retaggio di un modo di pensare la vita, anche la nostra stessa vita, come qualcosa che non ci appartiene e su cui non possiamo esercitare la nostra libertà. Perché la nostra vita è di qualcun altro, di qualcosa o qualcuno che ci trascende e a cui apparteniamo per natura. Anche se poi finisce che c'è sempre qualcuno che assume il ruolo di intermediario e interprete di questa trascendenza, chissà com'è. Leggo anche di una ragazza morta per mano del suo ex-fidanzato, che non accetta la libertà di lei di scegliere il suo destino, e pensa di poter essere intermediario e interprete di questo destino, scegliendo lui per lei. Due notizie che hanno una somiglianza sinistra.


domenica 17 dicembre 2023

Conforto e Potere (e società ipocrita)

Le religioni, dal punto di vista sociale, sono tipicamente caratterizzate da due aspetti. Il primo è il valore di "conforto" che riescono a dare all'individuo e quindi alla comunità. Il dramma della consapevolezza della propria morte può rendere l'esistenza stessa angosciante, priva di una prospettiva adeguata. Le religioni tamponano più o meno efficacemente questa angoscia e soddisfano questo bisogno di vedersi in una dimensione più ampia rispetto alla limitatezza del proprio destino. Il secondo riguarda la capacità delle religioni di fare promesse, e la "gestione" di queste promesse si trasforma tipicamente in esercizio di un potere, peraltro un potere fortissimo perché legato a destini ultraterreni assoluti. La combinazione di queste caratteristiche ha la capacità di rendere l'esistenza più accettabile, le sofferenze più sopportabili e il destino delle comunità in mano a elementi sovrannaturali normalmente gestite da classi di potere. Tutto ciò può dare un certo grado di stabilità sociale e accettazione delle proprie condizioni.

Il Cattolicesimo nella nostra civiltà occidentale secolarizzata ancora mantiene in buona parte questa sua funzione di generare conforto nella società e potere dove serve poiché il processo di secolarizzazione anziché eliminarlo lo ha trasformato in una grande bolla di ipocrisia. E questo perché in un mondo di comforts che si possono acquistare ovunque a che accompagnano le nostre vite rischia di mancarcene uno che ci possa far digerire meglio la nostra morte, non importa quanto sia vero, siamo ben abituati alle cose finte. Ci vuole qualcuno che ci metta una mano sulla spalla e ci faccia capire che meritiamo il regno dei cieli, senza troppo impegno. Ci serve un messaggio religioso poco impegnativo, interpretabile a nostro gusto, che si adatti alle nostre vite più che il viceversa.

Ma come fa un vero cattolico (ammesso che ce ne siano ancora in giro) ad accettare un processo di edulcorazione così smaccato e a farlo passare (e farselo passare) come un credo religioso sincero? Capisco che l'ipocrisia serva proprio a questo, e la nostra società di comportamenti ipocriti ne ha da vendere, ma certe volte penso che ce ne voglia proprio una dose esagerata. E' imbarazzante.

Basterebbe pensare al famoso episodio del vangelo in cui un giovane vestito bene, accompagnato dal suo asino e dalle sue merci, si presenta a Gesù e chiede cosa deve fare per guadagnare il regno dei cieli. I seguaci di Gesù sono schiere di morti di fame, a cui Gesù deve dare da mangiare compiendo miracoli (come quello dei pani e dei pesci). E' anche a questi che il giovane si presenta. Gesù risponde richiamandogli il rispetto dei dieci comandamenti. E' quasi una risposta formale, la formula che serve per calmare la coscienza. Ma il giovane sorprendentemente insiste, perché lui i comandamenti li rispetta da sempre, perché lui è di buona famiglia, onesta e religiosa. Però vuole pure essere sicuro di poter ottenere quello che chiede, perché probabilmente è consapevole di avere davanti a sé una figura non proprio allineata ai suoi modi di pensare. Gesù allora reagisce senza mezzi termini: "lascia tutto e seguimi", e il bravo ragazzo torna tristemente sui suoi passi. E' in questo episodio che spunta la famosa metafora della cruna dell'ago. Sarà pure controversa la traduzione ma il senso secondo me è chiarissimo e senza sfumature. Se sei ricco (non ricchissimo e potente, il giovane chiaramente non lo è), benestante rispetto ai diseredati del mondo, sei già in una posizione sbagliata. Se poi questa tua posizione la vuoi anche giustificare e conservare a tutti i costi perché questo è il tuo modo di pensare e di vivere, allora sei definitivamente tagliato fuori.

E a questo punto un cattolico dovrebbe farsi questa "semplice" domanda: chi è questo bravo giovane di buona famiglia, vestito bene, con il suo asino, le sue merci. Chi è, caspita?? Non è abbastanza chiaro che siamo NOI? Appare chiaro e tondo solo a me? Non siamo NOI i benestanti di questa società opulenta (in fondo la stessa dell'epoca)? Non siamo NOI le brave persone che non fanno male a nessuno? Che non fanno nulla di male? Com'è che non ci identifichiamo con questo bravo ragazzo? Con chi vogliamo identificarci, con la massa dei diseredati seguaci di Cristo? Così, gratuitamente? Siamo NOI che non passeremo mai le porte di quel regno dei cieli che pensiamo di ottenere automaticamente per il semplice fatto che non facciamo niente di male.

L'ipocrisia serve per schermare la realtà scomoda che non vogliamo vedere. In questo caso consente di fare in modo che la religione cattolica mantenga le sue funzioni di elemento di conforto per gran parte della popolazione (sempre meno religiosa) e che purtroppo sia ancora funzionale al potere.


lunedì 11 dicembre 2023

Apologia dell'ICT

Viviamo all'inizio di un era tecnologica altamente trasformativa, più rivoluzionaria delle storiche rivoluzioni industriali. Protagoniste di queste trasformazioni sono le tecnologie informatiche, o più in generale le tecnologie di informazione e comunicazione (le cosiddette ICT, Information and Communication Technologies). Credo che sia normale che tutte le tecnologie estremamente innovative siano sempre accompagnate da climi culturali sospettosi, preoccupati, pessimisti sul futuro, che generano una letteratura di carattere distopico, catastrofista, ecc. Questo vale anche per i nostri tempi, ed è ben evidente. Le "diavolerie" tecnologiche, sempre più complesse, generano un confuso senso di preoccupazione, spesso molto indefinito ma ben presente. Probabilmente non è altro che un aspetto della nostra natura, e certamente è un fatto generazionale. Douglas Adams lo sintetizza molto bene nelle sue tre regole che definiscono il nostro rapporto con la tecnologia:

1) Tutto quello che è al mondo quando nasci è normale e banale ed è semplicemente parte del modo in cui il mondo funziona;
2) Tutto quello che viene inventato dai tuoi 15 ai tuoi 35 anni è nuovo, eccitante e rivoluzionario, e con un po' di fortuna potresti fare carriera usandolo;
3) Tutto quello che viene inventato dopo i tuoi 35 anni è contro l'ordine naturale delle cose (e per alcuni anche l'inizio della fine della civiltà come la conosciamo).

Io (nonostante la mia età) vorrei raccontare l'era digitale, l'era delle tecnologie informatiche, in modo ottimista, in modo da dare alle "diavolerie" che accompagnano le nostre vite uno spessore culturale profondo. Perché la tecnologia è un elemento che ci caratterizza come umanità, più di molte altre cose a cui siamo abituati a pensare quando ci "definiamo". Come dice Massimo Temporelli in un suo libro divertente e istruttivo: "[...] noi Homo Sapiens [...] co-evolviamo con le macchine che immaginiamo e costruiamo, divenendo altro. Questo fenomeno è all'origine della nostra specie, visto che proprio grazie alla tecnologia ci siamo trasformati enormemente. [...] la pietra, l'agricoltura, il rame, il bronzo, il ferro, il vapore, l'elettricità, l'elettronica e il digitale sono tutte tecnologie che hanno cambiato la nostra storia più di ogni altra cosa, più dell'arte, della filosofia o della musica. Anzi, sono loro ad aver influenzato questi altri ambiti. [...] Noi cambiamo e ci trasformiamo con la tecnologia, divenendo altro. [...] Dovremmo preoccuparci per questo?" (Noi siamo tecnologia, Massimo Temporelli, 2021).

Mi piacerebbe, e credo che sia importante, dare nobiltà alle tecnologie informatiche che stanno cambiando il nostro mondo. Si parla spesso ormai di algoritmi come cose spaventose che negli ultimi tempi hanno invaso irrimediabilmente le nostre vite, novelli strumenti dagli effetti inquietanti. Ma gli algoritmi fanno parte della nostra storia, sono antichissimi come la nostra filosofia e le nostre arti. Lo sottolinea anche Donald Knuth in un suo scritto di cui riporto l'abstract: "Uno dei modi per contribuire a rendere rispettabile l’informatica è dimostrare che è profondamente radicata nella storia e non solo un fenomeno di breve durata. Pertanto è naturale rivolgersi ai più antichi documenti sopravvissuti che trattano di calcolo e studiare il modo in cui le persone si avvicinavano all'argomento quasi 4000 anni fa. Spedizioni archeologiche nel Medio Oriente hanno portato alla luce un gran numero di tavolette d'argilla che contengono calcoli matematici, e vedremo che queste tavolette forniscono molti indizi interessanti sulla vita dei primi 'scienziati informatici'", (Ancient Babylonian Algorithms, by Donald E. Knuth, Stanford University, 1972).

Sarebbe importante anche accostare l'informatica alla matematica e trattarla come meriterebbe, anche nell'insegnamento scolastico, invece di vederla come una cosa aliena dal resto della formazione, relegarla agli aspetti meramente produttivi, oppure in ambito scolastico identificarla solo con l'uso dei dispositivi che da essa derivano (tablet, smartphone, programmi di office automation, e altra roba del genere). Un importante matematico italiano, Corrado Bohm, diceva che "la matematica è nello stesso tempo madre e figlia dell'informatica".

Si parla di Big Data, cioè delle enormi quantità di dati che riusciamo ad avere a disposizione e delle altrettanto enormi capacità di calcolo che ci permettono di elaborarli, sempre più spesso accompagnando l'argomento con la paura che ci stiano rubando le informazioni che ci riguardano per fare del business a vantaggio di grandi compagnie private (che è in parte quello che sta succedendo ed è pure un pericolo vero). Io però voglio in ultimo citare un altro importante matematico, Gabriele Lolli, che in merito a questi aspetti vede un ampliamento dell'indagine matematica e tira fuori questa bellissima frase: "Prima dei calcolatori l'uomo, il matematico, si è mosso su due livelli ben distinti, quello del finito molto piccolo e visualizzabile (le dita delle mani) e subito dopo, con una coraggiosa estrapolazione, quello dell'infinito. Adesso sembra venuto il momento di esplorare un dominio sconosciuto, il finito grande".


sabato 2 dicembre 2023

Quello che mi è piaciuto di un film

Sono andato a vedere l'ultimo film della Cortellesi. Il film non mi è sembrato granché ma ci sono tre cose che mi hanno colpito e che mi vorrei segnare in questo post. Attenzione, l'ultima di queste tre cose è uno spoiler gigante.

1. La sala era piena. Quando siamo entrati c'era aria viziata, l'intervallo tra uno spettacolo e l'altro non era sufficiente ad arieggiare il locale. Ultimamente frequento abbastanza le sale cinematografiche e mediamente le trovo semivuote. Questa novità, nonostante l'aria viziata, è stata piacevole.

2. Il tema trattato dal film è quello della società patriarcale, l'ambientazione è quella dell'Italia appena uscita dalla seconda guerra mondiale. Indubbiamente rispetto a quei tempi di cose ne sono successe nell'ambito dell'emancipazione femminile ma il tema rimane di una certa attualità, anche se vissuto in forme molto diverse. Ci sono alcune scene del film che messe insieme fanno capire perché certe trasformazioni sociali sono particolarmente lente, come uno forse non si aspetterebbe. La figlia della protagonista, che vive la situazione tragica della madre spesso vittima delle violenze verbali, comportamentali e fisiche del marito, critica pesantemente la madre a più riprese durante il film per la sua incapacità di ribellarsi a questa situazione, per il suo fatalismo nel sopportare un destino oramai segnato. Ma la stessa figlia, nel rapporto appena iniziato con il suo fidanzato sta per rischiare lo stesso identico destino della madre, sta per essere vittima anche lei della stessa cultura maschilista, e soprattutto (questo è significativo) senza accorgersene.

3. La scena finale a sorpresa (spoiler) viene preparata dagli eventi precedenti in modo che lo spettatore sia ragionevolmente convinto che tutta la preoccupazione della protagonista converga nell'intenzione di lasciare tutto e scappare al nord con il suo primo amore. Ci si rende conto invece che il vero obiettivo è quello di andare a votare per il referendum monarchia-repubblica, la prima votazione della storia italiana in cui sono ammesse anche le donne.

L'ultima scena rievoca un tempo in cui (forse) gli italiani credevano nella possibilità di costruire un futuro migliore e credevano nella possibilità di prenderne parte, contare qualcosa. La protagonista punta tutto su questa speranza, nutrita ovviamente soprattutto per la figlia, appena scampata ad un rapporto possessivo.

Una realtà raccontata dal film che appare molto distante dalla situazione attuale, dove il senso di partecipazione alla società è quasi scomparso, sopravvive ben poca speranza nel poter migliorare, e quello che rimane è un individualismo disperato, che spesso vede come unica soluzione quella di andarsene via.

La protagonista invece rimane, e sceglie di puntare tutto sulla possibilità di contribuire al cambiamento della società in cui si trova a vivere, per provare a darle un futuro migliore, a partire da sua figlia. 

venerdì 10 novembre 2023

PIL e IA

Oggi il mio smartphone, sulla base di qualche algoritmo di raccomandazioni, mi propone un articolo che parla di un programma di Microsoft per la formazione sull'IA generativa, quella di ChatGPT per capirci, quella che a breve comparirà come forma di assistenza agli strumenti di office automation e che è già presente nel browser di Microsoft.

Il senso dell'articolo è che attualmente in Italia, secondo Microsoft, c'è poco skill su queste nuove tecnologie ed è quindi necessario diffondere un'adeguata formazione per poterle sfruttare al meglio. Per far capire bene il valore di quello che sta dicendo, l'articolo si apre con il cappello introduttivo seguente: "L'IA generativa potrebbe dare una spinta significativa alla produttività del Paese, ma la carenza di competenze al momento ne limita l'adozione". Al suo interno il concetto diventa più esplicito con la seguente affermazione: "... si stima che, a parità di ore uomo lavorate, le tecnologie di IA generativa potrebbero portare un valore aggiunto equivalente al 18% del PIL, qualcosa come 312 miliardi all'anno".

Ora io capisco tutto, capisco l'importanza di essere produttivi, capisco l'importanza di produrre ricchezza in un mondo che ci ha abituati ad averne tanta e sempre di più, capisco l'attenzione a non soccombere di fronte a possibili crisi economiche che sono diventate, mi pare, il "fiato sul collo" delle nostre società avanzate. Però, perché una volta tanto non ribaltare il discorso e dire ad esempio una cosa del genere: "... si stima che, a parità di valore del PIL prodotto, le tecnologie di IA generative potrebbero portare tutti a lavorare il 18% in meno". Non dovrebbe essere questa la vera rivoluzione dell'IA, come di qualunque altra tecnologia? Come vogliamo misurare la potenza della tecnologia? In quanto ci consente di aumentare il PIL o in quanto ci solleva dalla necessità di faticare?

Arriverà pure il momento in cui sarà chiaro che la logica di quell'articolo e di altri simili non può essere quella di un'umanità che cerca il suo benessere, inteso come il benessere di tutti. Quella è purtroppo la logica di certi mostri produttori di ricchezza e potere a vantaggio di chi riesce a stare "dalla parte giusta". 

Riusciremo a produrre i nostri documenti di lavoro e le nostre email più velocemente per riuscire a produrne di più nell'unità di tempo e saremo tutti contenti così. Forse.


domenica 29 ottobre 2023

Quello che mi colpisce della fantascienza

La fantascienza non è un genere che mi abbia mai affascinato moltissimo, e l'ho sempre seguita, sia nei romanzi che nel cinema, in modo piuttosto saltuario. Insomma non è che se un film o un romanzo vengono classificati come genere di fantascienza mi ci avvicino automaticamente. Anzi, a volte ho atteggiamenti sospettosi e poco convinti. Probabilmente perché penso che quando si racconta la fantascienza occorre sempre restare sul filo delle cose che lo spettatore deve percepire come plausibili anche se totalmente fuori dalle usuali dimensioni terrestri. E bisogna essere bravi per stare su questo filo. 

In genere quello che mi colpisce di più della fantascienza sono certe sue "dimensioni extraterrestri" che spesso emergono da elementi secondari della narrazione. Alcuni esempi.

Ricordo bene l'impressione che mi fece la scena del film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick in cui il protagonista, estromesso dall'astronave dal computer di bordo, ci rientra con una manovra azzardata. La scena è impressionante. Il protagonista, all'interno della capsula rimasta fuori dall'astronave principale, riesce ad aprire un portellone e a farsi sparare all'interno, in una camera dove ovviamente c'è assenza di gravità e di atmosfera. Per questo motivo la scena è completamente priva di sonoro, il corpo dell'astronauta rimbalza tra le pareti della camera fino a che non riesce fortunosamente a chiudere il portellone dell'astronave e ad azionare il meccanismo che immette aria. Da quell'istante in poi la scena si anima improvvisamente di tutti i rumori ovvi in un ambiente terrestre. Raccontata così non fa grande effetto, lo ammetto, ma la bellezza della scena (mi rendo conto che va vista, è cinema non un racconto) sta proprio in questa dimensione extraterrestre e nella sensazione forte che restituisce allo spettatore (almeno a me).

Una medesima sensazione, anche se su un piano totalmente diverso, ricordo di averla provata nella lettura del romanzo umoristico Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams. Francamente non so se gli appassionati di fantascienza lo annoverano tra i romanzi del genere. Il signor Arthur Dent si ritrova da un giorno all'altro a protestare per la costruzione di una nuova autostrada che per essere costruita implica la demolizione della sua casa. Alle sue proteste gli addetti ai lavori rispondono che i piani del progetto erano disponibili al pubblico, nel locale ufficio Viabilità e Traffico, da ben nove mesi. Tutte le eventuali rimostranze sarebbero dovute esser fatte prima, per tempo, non adesso, all'ultimo momento. Nel giro di poche pagine il racconto scala su una dimensione extraterrestre quando l'umanità scopre improvvisamente da un annuncio fatto tramite "il più colossale sistema di altoparlanti che si fosse mai visto" (messo in piedi dagli "addetti ai lavori" di origine non terrestre, ovviamente) che "i piani per lo sviluppo delle zone più remote della Galassia richiedono la costruzione di un'autostrada iperspaziale che attraversa il vostro sistema solare, e purtroppo il vostro pianeta è uno di quelli che è necessario demolire .... Tutti i piani del progetto e gli ordini di demolizione erano disponibili al pubblico da cinquanta dei vostri anni terrestri, nel locale Dipartimento di Viabilità di Alpha Centauri. Per cui avevate tutto il tempo per presentare gli aventuali reclami. E' troppo tardi, ora, per mettersi a protestare". La scena è comica ma, secondo me, è anche un grande pezzo di fantascienza.

Recentemente ho riletto il Ciclo della Fondazione di Isaac Asimov, e tra le tante cose mi ha colpito un passaggio in cui l'autore parla della misurazione del tempo nella Galassia attuale. E' breve e certamente ben poco essenziale per la storia ma su di me esercita un grande fascino per le ragioni che sto cercando di spiegare. Un passaggio minore che però, insieme a tanti altri, caratterizza il romanzo di Asimov come un grande romanzo di fantascienza.

Riporto il brano per intero: "Per una o più ragioni ignote alla gente della Galassia, al tempo di cui parliamo, il Tempo Standard Intergalattico aveva stabilito come unità di tempo il secondo, in quanto tempo impiegato dalla luce a percorrere 299.776 chilometri. Fu deciso arbitrariamente che 86.400 secondi formassero un Giorno Intergalattico Standard, e che 365 di questi giorni costituissero un Anno Intergalattico Standard. Perché 299.776?... Od 86.400? o 365? Per tradizione, dicono gli storici. Per particolari e misteriose relazioni numeriche, dicono i misticisti, i numeralogisti, i metafisici. Perché il pianeta originario dell’umanità, dicono alcuni, aveva un certo periodo di rotazione e rivoluzione da cui potrebbero essere derivate tali relazioni. Nessuno lo sa con certezza. Quando l’incrociatore “Hober Mallow” della Fondazione incontrò lo squadrone kalganiano guidato dall’“Indomita”, rifiutò di accogliere a bordo una pattuglia per un’ispezione, e venne di conseguenza distrutto, era il 185 dell’11.692 E.G., cioè il centottantacinquesimo giorno dell’anno 11.692 dell’Era Galattica che iniziava dall’ascesa al trono del Primo Imperatore della dinastia dei Kamble. Era anche il 185 del 419 D.S., data dell’anno di nascita di Seldon, o il 185 del 348 E.F., data di nascita della Fondazione. Su Kalgan era il 185 del 56 P.C., data dell’inizio del regno del Primo Cittadino ovvero il Mulo. In ognuno dei casi, per convenienza, era stabilito che l’anno fosse composto dall’identico numero di giorni, senza contare il vero e proprio giorno d’inizio dell’èra. Per giunta, tutti i milioni di mondi della Galassia possedevano milioni di tempi locali, basati sul movimento degli astri a loro vicini".

Questa dimensione extraterrestre del calendario, unitamente alle vaghe ipotesi sull'origine delle unità di misura del tempo, probabilmente risalenti a convenzioni stabilite in tempi remotissimi sull'ormai sconosciuto pianeta originario dell'umanità, è di un fascino particolare, e per me un elemento essenziale del racconto di fantascienza.

giovedì 31 agosto 2023

La tecnologia degli animali domestici

Come ho già scritto in un altro post con la tecnologia l'uomo risolve i suoi problemi di sopravvivenza, problemi che tutti gli altri animali risolvono quasi esclusivamente con le modifiche genetiche selezionate attraverso le generazioni, cioè con l'evoluzione biologica. Gli strumenti tecnologici aiutano gli uomini a vivere, soddisfano i loro bisogni, agevolano la loro vita, la rendono più facile e in generale migliore.

In questo senso si può dire che gli animali domestici sono nella sostanza degli oggetti tecnologici, sia quelli che ci hanno aiutato nel lavoro in tempi oramai quasi del tutto passati, sia quelli che oggi ci fanno compagnia e che soddisfano il nostro bisogno di prendersi cura di un essere vivente che dipende interamente da noi (spesso in età adulta succede una volta che l'abbiamo fatto con i nostri figli, o perché non siamo riusciti a farlo).

La differenza più significativa tra un animale domestico e un qualsiasi altro artefatto tecnologico è che quest'ultimo è sempre progettato per svolgere un compito ben preciso senza intelligenza e per questo l'artefatto tecnologico è perfettamente controllabile, mentre l'animale domestico è sempre un individuo dotato di un certo grado di intelligenza, di autonomia di decisione, in parte imprevedibile, dunque non perfettamente controllabile nelle sue azioni.

A pensarci bene questi sembrano essere esattamente quegli aspetti che vengono visti come rischi, più o meno fondati, insiti nei prodotti di intelligenza artificiale. Nei nostri animali domestici questo non ci preoccupa perché sappiamo bene che sono stupidi, cioè esprimono una intelligenza che siamo assolutamente in grado di mantenere sotto il nostro controllo. Con loro siamo sempre in grado di tenere un atteggiamento dominante, quando necessario. Quello che ci fa paura nei prodotti di intelligenza artificiale è che non sappiamo bene fin dove possono arrivare. Una paura più immaginata che reale, al momento. Ma non sappiamo come questa cosa evolverà in futuro, e con che tipo di dispositivi dovremo avere a che fare. La scarsa intelligenza degli animali che ci circondano invece è rassicurante, ammettiamolo.


martedì 22 agosto 2023

Sulla natura delle pseudoconoscenze

Tempo fa un mio vecchio amico mi manda un filmato di sua figlia, una bellissima bimba in età prescolare. Nel filmato è seduta per terra e ha in mano una grossa palla, di quelle a spicchi colorati. Il papà le domanda dove si trova il polo nord e lei gli indica il punto della palla dove convergono gli spicchi, poi le chiede dove si trova il polo sud e lei gira la palla e gli indica il vertice opposto. Poi fanno insieme commenti sul gran freddo che c'è ai poli, ecc.

Il filmato è molto bello e a me, che sono stato papà di un bimbo altrettanto bello (ora cresciuto ma sempre bello), risveglia dei bei ricordi. Poi però mi viene in mente una cosa strana. La bimba alla sua età sa già perfettamente che la terra è una palla, e gioca tranquillamente con le posizioni dei poli senza farsi apparentemente nessun problema. E' ovvio che questa informazione le è stata passata dagli adulti, non può essere certo una sua osservazione o addirittura deduzione. Tra l'altro mi domando come la bimba abbia elaborato un'informazione così complessa, è una cosa a cui gli adulti in genere non pensano.

Il punto è proprio questo, la bimba (come tutti i bambini) si prende questa informazione incredibilmente complessa con grande naturalezza e senza avere al momento nessuno strumento critico per elaborarla. E probabilmente questa nozione in futuro non verrà mai più rielaborata, tantomeno a scuola (mai sentito un insegnante che fa una lezione sulla forma della Terra?). Forse la cosa più grave è che questa nozione non genererà mai stupore, cioè non si accompagnerà mai ad una reazione emotiva, che pure per una cosa del genere ci dovrebbe essere. Ai tempi dei Greci che per primi hanno osservato e dedotto la forma sferica della terra questa reazione emotiva ci sarà sicuramente stata. Ma nell'insegnamento attuale è scomparsa. Si conserva (o si cerca di conservare) lo stupore davanti al Partenone o alle innumerevoli opere artistiche greche ma non davanti alle loro stupefacenti conoscenze, ormai date tutte per assodate e per niente stimolanti.

Nel post precedente sostengo che per capire qualcosa è necessaria una elaborazione razionale e anche emotiva, ma in questo caso è probabile che manchino entrambe. E' in queste situazioni che si generano delle pseudoconoscenze. Una pseudoconoscenza può essere sostituita facilmente da qualunque altra cosa in qualsiasi momento, indipendentemente dal suo grado di attendibilità, plausibilità o ragionevolezza.


sabato 5 agosto 2023

I lati razionale, morale ed emotivo della conoscenza

In relazione ad un paio di post precedenti (uno piuttosto vecchio, questo, l'altro più recente, questo) voglio appuntarmi questa precisazione. Nel post recente avevo accennato al fatto che lo studio è una delle pochissime cose verso cui io penso di avere un senso del sacro. Questo essenzialmente perché per me lo studio è una scelta consapevole (quindi anche un atteggiamento morale) con cui costruiamo i nostri percorsi di ricerca per la conoscenza del mondo. Ma devo precisare che le attività che concorrono a questa ricerca sono due, e sono in parte distinte. Una è appunto quella di studiare, l'altra è quella di capire. E la loro relazione non è biunivoca, per capire si deve quasi sempre studiare ma non è vero il viceversa, nel senso che studiare non implica necessariamente capire (magari implica solamente imparare, vedi post vecchio). Per capire bisogna studiare e scegliere di studiare con il preciso obiettivo di capire, un obiettivo che non è affatto scontato. E' una scelta.

Credo inoltre che per far diventare lo studio un modo per capire e non solo per imparare occorra aggiungere alle componenti razionale e morale anche quella emotiva. La parte emotiva è quella cosa che fa la differenza tra l'incamerare un'informazione che stai leggendo con lo scopo principale di ricordarla e fermarti invece di fronte a una cosa che intuisci di non aver capito (o di non aver capito bene), cominciare a ragionarci sopra fregandotene del tempo che ci metti e di tutto il resto che ti eri proposto di fare, e alla fine provare l'emozione di venirne a capo (lo definirei addirittura un momento creativo, perché lo sforzo di capire è sempre uno sforzo immaginativo), e avere poi la netta sensazione che vale più quello che hai appena fatto di tutte le pagine che ti rimangono per finire la scaletta di studio che razionalmente ti eri programmato.

La famosa frase "La cultura è quello che rimane quando si è scordato tutto quello che si è studiato" si spiega proprio in questo senso. Ciò che si è studiato con l'esplicito e consapevole scopo di capire (e con un giusto coinvolgimento emotivo), lascia nel proprio bagaglio di conoscenze qualcosa di significativo anche quando si è scordato tutto. Diversamente può capitare che non rimanga più niente.


sabato 22 luglio 2023

Tecnologia e religione

In questo periodo nelle librerie c'è un libro di Chiara Valerio intitolato «La tecnologia è religione». La tesi sarebbe che la tecnologia nel nostro mondo è percepita un po' come una religione, nel senso che viene assunta come un dato di fatto in cui credere piuttosto che qualcosa da capire. Non ho letto il libro e credo che non lo farò, ho letto un suo libro precedente incuriosito dal titolo («La matematica è politica») e non mi ha soddisfatto molto (scrive come parla, un fiume di roba non molto coerente). Anche quest'ultimo titolo è una di quelli che stuzzicano la curiosità ma questa volta non mi sono lasciato convincere. A parte il fatto che non mi sembra neanche così originale, considerando la famosa "legge" di Arthur C. Clarke («Qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia») e il conseguente "corollario" di Michael Shermer («Qualunque intelligenza extraterrestre sufficientemente avanzata è indistinguibile da Dio»). Però come dicevo è un titolo stuzzicante, perché mi ha fatto venire in mente che si potrebbe dire invece l'esatto contrario, cioè che in realtà è la religione ad essere una tecnologia.

La tecnologia è fatta di idee, innovazioni e dispositivi che aiutano l'uomo a vivere, nonostante si accompagnino sempre ad aspetti problematici che vanno tenuti sotto controllo. L'invenzione del linguaggio, dell'agricoltura, della scrittura, dei sistemi di numerazione posizionali, della stampa, del denaro, tanto per citare le invenzioni più antiche che ci dicono che la tecnologia esiste da quando esiste l'uomo, ed è probabilmente la cosa che lo caratterizza di più come specie.

Le religioni possono essere pensate proprio come sistemi di credenze che mostrano le due principali caratteristiche tipiche di qualunque innovazione tecnologica, da una parte aiutano a vivere (forniscono una concezione teleologica dell'esistenza), dall'altra si accompagnano ad aspetti problematici (subiscono forti strumentalizzazioni da parte del potere, generano conflitti tra credenze diverse, causano guerre).

Si dice spesso che la tecnologia è qualunque cosa sia stata inventata dopo la tua nascita. Perché solo se una cosa è stata introdotta durante la tua esistenza viene percepita come un'innovazione che in misura più o meno grande ti cambia la vita. Tutto quello che hai trovato perchè già presente prima della tua nascita viene percepita come una cosa "naturale", scontata, da sempre esistita, non hai conosciuto il mondo senza di essa. E' roba che esiste, punto e basta. Le tecnologie che ho nominato prima, tutte molto vecchie, spesso non vengono percepite neanche come vere e proprie innovazioni tecnologiche, occorre fare uno sforzo per immaginare il mondo senza di loro.

Le religioni assomigliano a innovazioni tecnologiche comparse in tempi talmente remoti che hanno perso la loro fisionomia di idee introdotte in qualche momento nella vita dell'uomo (forse in concomitanza con la comparsa del culto dei morti), ci accompagnano da talmente tanto tempo che spesso non si sente neanche il bisogno di rifletterci troppo, sono lì da sempre. Pensarci senza di esse ci sembra innaturale. Eppure non è illogico trattarle come invenzioni, peraltro anche di grande impatto nella nostra vita. Il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza ricorda che il suo professore di genetica, Adriano Buzzatti Traverso, diceva che Dio è stata la più grande invenzione dell'uomo.

 

domenica 16 luglio 2023

Abusi di potere

Qualche giorno fa Vittorio Sgarbi è stato protagonista di uno dei suoi interventi "coloriti" nell'ambito di un incontro pubblico al Maxxi di Roma, alla presenza dell'attuale direttore del museo Alessandro Giuli e di un secondo ospite (Morgan). Il termine colorito sta ad indicare l'uso del turpiloquio in un contesto in cui è del tutto fuori luogo, inutile e inopportuno, funzionale solo al solito scopo di alzare polvere intorno ad un evento altrimenti anonimo. Sono convinto che, sebbene si sia scusato in seguito, questo fosse un obiettivo non esplicitamente ammesso dello stesso direttore del museo. C'è da sempre l'abitudine a fare un uso scandalistico delle presenze di Sgarbi in eventi pubblici per "amplificarli", e questo sin dal suo primo apparire in televisione, ormai molti anni fa, se non ricordo male nelle trasmissioni di Maurizio Costanzo.

La cosa intollerabile di questi episodi non è tanto la loro volgarità, che qualifica l'autore, quanto il fatto che rappresentano in modo sfacciato un abuso di potere, un comportamento giustificato solamente dalla presunzione di essere intoccabile, e dalla voglia di esprimerlo chiaramente. Supponiamo che l'evento pubblico prevedesse anche un dibattito con gli spettatori presenti, e che uno di loro si fosse permesso di utilizzare un linguaggio simile. Non gli sarebbe stato consentito di finire il suo intervento, sarebbe stato messo alla porta immediatamente e giustamente. Ecco, allora con questi suoi siparietti volgari Sgarbi ci dice sempre chiaramente una cosa del tipo "io so io, e voi non siete un cazzo", come Alberto Sordi nel film Il marchese del Grillo.


domenica 2 luglio 2023

Anche Lamarck aveva le sue ragioni

Ricordo bene che da giovane, in quel periodo in cui studi per il solo gusto di capire le cose senza ancora troppe ansie e precisi obiettivi, e che proprio per questo sei portato qualche volta a riflettere su tante cose non tutte esattamente pertinenti a quello che dovresti studiare, mi ero fatto un modello dell'evoluzione umana basato sulla combinazione tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. Avevo proprio fatto un grafico qualitativo in cui pensavo alla possibilità di definire una soglia del grado di intelligenza umana oltrepassata la quale i processi di evoluzione culturale sovrastavano del tutto quelli dell'evoluzione biologica. Sotto questa soglia lavorava l'evoluzione biologica con i meccanismi classici del darwinismo come per tutte le altre specie, sopra questa soglia l'evoluzione biologica poteva anche essere trascurata perché un'altra evoluzione, con tempi decisamente più rapidi, si sovrapponeva e diventava presto determinante. Quale poteva essere questa soglia? La pensavo come più o meno coincidente con l'evoluzione del linguaggio, cioè con la possibilità sofisticata e ben al di sopra di quella mostrata da tutte le altre specie di poter comunicare idee e forse anche di costruirle nella propria mente. Pensavo ad una velocità di evoluzione lineare per quella biologica e ad una velocità esponenziale per quella culturale, ma ovviamente l'ipotesi non era minimamente suffragata da nessun dato sperimentale e da nessun ragionamento teorico di tipo quantitativo.

Molti anni più tardi mi è capitato di leggere uno scritto di Luigi Luca Cavalli Sforza che tratta proprio questo argomento. L'ho letto proprio perché il titolo ("L'evoluzione della cultura") mi ricordava quegli anni in cui avevo fatto le mie semplici considerazioni. L'autore parte cercando di dare una definizione di cultura (mi sembra l'approccio giusto) nel modo seguente: "accumulo globale di conoscenze e innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi al nostro gruppo sociale, che influenza e cambia continuamente la nostra vita". Nella definizione si parla di "conoscenze e innovazioni" che vengono "trasmesse" sia nello spazio (diffuse all'attuale gruppo sociale) che nel tempo (tramandate attraverso le generazioni). Per semplicità potremmo chiamarle rispettivamente trasmissioni orizzontali e verticali. Subito dopo l'autore individua anche l'agente trasmissivo: "Questo sviluppo è stato reso possibile dalla capacità di comunicazione fra individui dovuta alla maturazione del linguaggio". L'uso della comunicazione orale tramite l'invenzione di un linguaggio sofisticato è particolarmente efficacie nella trasmissione orizzontale, un po' meno in quella verticale. L'autore quindi, poco più in là, sottolinea anche l'importanza dell'invenzione della scrittura che tra i suoi tanti vantaggi ha anche quello di favorire la trasmissione verticale della cultura, quindi la nascita della Storia, e di rafforzare il senso di identità della specie umana.

Cavalli Sforza sottolinea la cornice concettuale unitaria sotto la quale possiamo descrivere sia l'evoluzione biologica che l'evoluzione culturale, pur considerando le ovvie differenze: "Naturalmente nell'estensione dalla biologia alla cultura molte cose cambiano, a cominciare dagli oggetti che evolvono: il DNA nella biologia, le idee nella cultura. Cambiano i nomi che diamo ai meccanismi evolutivi particolari (per i geni e per la cultura) ma non cambiano i concetti teorici". Piuttosto c'è senz'altro un livello diverso di progresso nelle due discipline dovuto essenzialmente ad una migliore comprensione dei meccanismi di trasmissione dell'informazione biologica rispetto a quelli che dovrebbero sostenere l'evoluzione culturale.

Ci sarebbe anche (e nel passato effettivamente c'è stato) il pericolo che il termine evoluzione culturale sottintenda il concetto di progresso e che questo porti a fare classificazioni tra popolazioni umane che sono evolute culturalmente in modi diversi e ad avallare atteggiamenti di razzismo. Questo pericolo tra l'altro è contenuto anche nel concetto di evoluzione biologica. Ma il problema viene generalmente superato dall'idea che in entrambi i tipi di evoluzione quello che si raggiunge è semplicemente un adattamento al particolare ambiente, rendendo insensata una scala di progresso assoluta.

Un aspetto interessante del testo di Luigi Luca Cavalli Sforza è quello che riguarda la comparazione tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. L'evoluzione biologica è ben descritta dalla teoria dell'evoluzione per selezione naturale proposta da Darwin nel 1859. Sforza scrive che l'evoluzione darwiniana è un meccanismo di "trial and error": il tentativo (trial) è ogni mutazione del patrimonio ereditario (il DNA). Essa avviene spontaneamente e in direzioni casuali. La maggior parte delle mutazioni non ha effetti importanti (mutazioni selettivamente neutrali). Molte mutazioni sono invece dannose (error) e vengono automaticamente eliminate con l'individuo che non sopravvive. Infine alcune mutazioni possono essere vantaggiose in relazione all'ambiente e per questo vengono selezionate (aumentano la probabilità di sopravvivenza e di riproduzione dell'individuo) e trasmesse alle generazioni successive, innescando un meccanismo evolutivo.

L'evoluzione culturale non segue lo stesso schema dell'evoluzione biologica. L'elemento che viene sottoposto a selezione non è una mutazione genetica casuale ma un'idea/innovazione di tipo cosciente. Sforza scrive che "la mutazione culturale, cioè l'invenzione, a differenza di quella biologica, non è un fenomeno indipendente dalla nostra volontà, non è un fenomeno che si possa considerare casuale, ma ha quasi sempre lo scopo di risolvere un problema pratico particolare". Nello schema di evoluzione culturale c'è in un certo senso la "volontà di evolvere". Inoltre le mutazioni culturali non si trasmettono solo di padre in figlio, la loro capacità di diffusione è ben più ampia e veloce, agendo sia in orizzontale che in verticale, sia tra generazioni che tra individui dello stesso gruppo.

La conclusione è che le caratteristiche dell'evoluzione culturale (e le sue differenze con l'evoluzione biologica) ce la fanno classificare come un'evoluzione di tipo Lamarckiano, ne ha tutte le caratteristiche principali. Curiosamente Lamarck, secondo quanto dice Sforza, "non distingueva affatto fra eredità biologica e culturale quando parlava di 'eredità'". Nell'evoluzione biologica il suo modello è risultato sostanzialmente sbagliato, mentre nell'evoluzione culturale sembra funzionare bene.

In realtà la visione di Lamarck (che risale al 1809, ben prima della teoria di Darwin) ha le sue ragioni anche all'interno dell'evoluzione biologica, proprio per le possibili interazioni tra evoluzione biologica e culturale. Se da una parte i due meccanismi vanno tenuti ben distinti dall'altra possono influenzarsi a vicenda, consentendoci di parlare di "coevoluzione biologico-culturale". Un esempio di questa interazione viene fornito da Cavalli Sforza nell'episodio dell'enzima lattasi.

Un po' più di diecimila anni fa il cibo normalmente consumato dalle comunità umane cominciò a scarseggiare probabilmente in seguito a cambiamenti climatici legati alla fine dell'ultima glaciazione. In questo contesto difficile subentra la capacità dell'uomo di innovare e di trasmettere rapidamente le innovazioni attraverso il linguaggio. Nasce e si diffonde la capacità di addomesticare e allevare bestiame (caprini, ovini, bovini). Oltre alle loro carni questi animali domestici sono produttori di latte, e l'idea di consumare latte diventa una soluzione facile al problema del sostentamento. Fino a qui in questo episodio di storia dell'uomo è intervenuta l'azione dell'evoluzione culturale. Il problema che però si manifesta subito è l'incapacità di produrre l'enzima lattasi di buona parte degli individui in età adulta che impedisce loro di avvalersi di una fonte così importante di nutrizione (tali individui non riescono a digerire il latte). Questa capacità è genetica e quindi ereditabile. I possessori della mutazione che garantisce la capacità di produrre lattasi anche in età adulta diventano immediatamente portatori di un vantaggio evolutivo. Su di loro, più esattamente sulla loro mutazione, può agire la pressione selettiva dell'evoluzione biologica darwiniana.

Dunque una situazione ambientale ha determinato una pressione selettiva causata da una "mutazione culturale" secondo un meccanismo Lamarckiano (chi praticava la domesticazione e l'allevamento aumentava considerevolmente le sue probabilità di sopravvivenza), e questa circostanza ha modificato l'ambiente che ha determinato a sua volta l'esposizione di una mutazione biologica (che diversamente sarebbe stata del tutto inutile) ad una pressione selettiva di tipo biologico secondo un meccanismo Darwiniano.

In questo episodio di coevoluzione biologica-culturale un'evoluzione di tipo lamarckiano è stata determinante nel provocare una conseguente evoluzione di tipo darwiniano.


domenica 25 giugno 2023

Gli storni di Parisi nel contesto delle conoscenze

Credo che la prima impressione che possa fare il racconto dello studio di Giorgio Parisi sul volo degli storni sia quello di una stupidaggine. Penso che prevalga la solita sensazione che la scienza vada accettata perché importante ma rimane perlopiù incomprensibile. Difficile capire il valore di certi studi anche perché non se ne conoscono i contesti e non si riesce a collegarli a niente. Rimangono racconti isolati fatti per via del prestigio che ha l'assegnazione di un premio Nobel. Oltre l'ambito di un premio internazionale che fa notizia è difficile andare.

Eppure è bello trovare analogie che tolgano certi argomenti da un isolamento sterile e li mettano in comunicazione con altre conoscenze, in contesti e forme inaspettate. E' l'aspetto più affascinante e fecondo della conoscenza, e forse il più divertente.

L'obiettivo del lavoro di Parisi sugli storni era essenzialmente sperimentale e si proponeva di fare misure (migliaia di fotografie fatte contemporaneamente da punti diversi) per ricavare le informazioni necessarie alla formulazione di un modello computazionale in grado di simulare al computer il comportamento collettivo di questi animali in volo. L'idea era quella di individuare un qualche tipo di interazione elementare tra gli storni che consentisse di far emergere quel bellissimo comportamento collettivo auto-organizzato che vediamo nei cieli autunnali di Roma. Scrive Parisi: "[...] ci siamo concentrati su come ogni componente dello stormo riesca a comunicare per muoversi in modo coerente, producendo un'unica entità collettiva. [...] attualmente si riesce a determinare con una precisione di qualche centesimo di secondo il momento in cui ogni uccello incomincia a girare quando lo stormo compie una virata, [...] gli uccelli seguono regole semplici, che sono state ricostruite dalle misurazioni effettuate, e si muovono regolandosi sulla posizione dei vicini. L'informazione sulla virata corre veloce tra un uccello e l'altro, come un passaparola velocissimo".

Un lavoro del genere si collega in modo significativo ad un importante filone di ricerca in fisica, condotto su sistemi apparentemente molto differenti, in cui si cerca di "capire in maniera quantitativa come il comportamento collettivo emerga partendo da semplici regole di interazione tra i singoli attori", dove i singoli attori interagenti possono essere elettroni, atomi, spin, molecole e, perché no, uccelli. I comportamenti collettivi osservati sono magari del tutto scontati, fenomeni a cui siamo da sempre abituati, ma sono anche in un certo senso del tutto inaspettati e inspiegabili se ci si concentra solo sugli aspetti microscopici. Nel fenomeno di congelamento di un liquido non è il singolo atomo, non è la singola molecola che ghiaccia, anzi, per il singolo atomo o per la singola molecola il concetto di ghiacciare proprio non ha senso, e non cambia le sue proprietà individuali. Si tratta di una mutazione collettiva, in cui la conoscenza dettagliata del singolo attore non riesce a portarci a una descrizione del fenomeno.

Addirittura molto spesso si riesce a stabilire che certe classi di fenomeni macroscopici, cioè composti da molte parti, non dipendono dai dettagli delle singole parti e questo dà un carattere di universalità abbastanza sorprendente. Mentre i dettagli microscopici sono completamente diversi, il comportamento collettivo è invece lo stesso. Ad esempio questo succede nei cosiddetti fenomeni critici, cioè nelle transizioni di fase (uno di questi è proprio la transizione solido-liquido a cui accennavo prima), per le quali è stata introdotta l'idea di classi di universalità nelle quali questi fenomeni possono essere suddivisi. Parisi ne dà un'immagine letteraria: "Questo fatto richiama la visione platonica della natura: si potrebbe dire che esiste un numero relativamente piccolo di classi di universalità dei comportamenti critici e ciascun sistema reale si riconduce a una di quelle classi di universalità (cioè a una idea, se vogliamo utilizzare la terminologia di Platone)".

Più in generale questi studi e la loro generalità porta alla necessità di capire meglio il legame che esiste tra i comportamenti dei singoli individui e i comportamenti collettivi. Ancora Parisi ricorda che un suo collega (Philip Warren Anderson, premio Nobel 1977) sosteneva in un suo articolo che "l'aumento del numero di componenti di un sistema determina un cambiamento non solo quantitativo ma anche qualitativo: il problema concettuale principale che la fisica avrebbe dovuto affrontare era capire le relazioni tra le regole microscopiche e il comportamento macroscopico".

Andando ancora oltre si può pensare che queste aree di ricerca possano essere ulteriormente estese ad ambiti apparentemente lontani, ad esempio quelli sociali ed economici. O ad ambiti interdisciplinari a metà tra scienza e tecnologia, come ad esempio l'intelligenza artificiale.

domenica 18 giugno 2023

Scrivo qualcosa anch'io

Vabbè, scrivo qualcosa anch'io su Berlusconi (all'indomani della sua morte).

Berlusconi secondo me ha rappresentato una grande concentrazione di potere in Italia, ma questo potere non è stato mai utilizzato in politica se non per congelare una situazione. Non ha favorito nessuna vera riforma, nessun cambiamento significativo. La famosa "rivoluzione liberale", sempre citata sin dalla sua prima discesa in campo, è una cosa di cui Berlusconi non si è mai veramente occupato. Non era interessato. E questo perché a Berlusconi l'Italia è andata sempre bene così com'era, come l'aveva trovata nella prima repubblica in cui lui è cresciuto (dopo ha dovuto usare il potere per dargli giusto una "ritoccatina" secondo le sue necessità).

E' stato detto che ha portato il bipolarismo nella politica italiana ma io non credo che questo sia vero. Negi anni della sua presenza più influente non si è creata una dialettica tra due visioni della società, quella di destra e quella di sinistra, e questo certamente non è mai stato il suo obiettivo, a parte la retorica anticomunista ampiamente strumentalizzata. Il vero bipolarismo che si è venuto a creare è stato quello sulla sua persona, la parte dell'Italia che stava con lui e quella che stava contro di lui. Questo è stato uno degli elementi che ha fatto progressivamente scomparire la sinistra (una parte politica non può sopravvivere per negazione di qualcosa) e ha impoverito tragicamente tutto il dibattito politico. Anche la destra secondo me ha sofferto la presenza di Berlusconi, perché è rimasta stretta nella morsa di un comportamento che da una parte la portava facilmente al governo e dall'altra la usava per un potere personale disinteressato alla politica.

Per quanto riguarda la sua politica editoriale e quindi in un certo senso la sua influenza culturale cito una frase attribuita a Berlusconi riportata in un articolo di Vito Mancuso che ho trovato rilanciato su facebook: "Secondo lei, quanti sono gli intelligenti là dentro?" - indicando un gruppo di persone - "Il 10 percento? Ecco, io mi occupo del restante 90 percento". Non posso dire con sicurezza se sia vera, ma la trovo molto rappresentativa.

Ovviamente una persona che ha puntato tutto sul culto del sé, sul valore del successo individuale e sull'autocelebrazione di sé stesso non può avere eredi. Lascia una società ancora più individualista di prima, grazie al suo personale contributo. E non ce ne era bisogno.


lunedì 12 giugno 2023

Un sogno

Al netto della loro confusione logica i sogni lasciano spesso immagini abbastanza nitide che, se al momento in cui ti svegli non te le lasci scappare subito con qualche infinitesima distrazione, le puoi ripensare e raccontare.

Stiamo nel salotto di casa di mio fratello minore. Lui tiene in mano un cellulare ed è molto più piccolo (ha un'età in cui i cellulari ancora non c'erano). Forse lo confondo con uno dei suoi due figli. Ci siamo anche io e mio fratello maggiore. Guardiamo tutti lo schermo del cellulare dove scorre un filmato. Le immagini sono poco chiare ma sono sicuro che fanno vedere mia madre e mio padre che stanno insieme e in qualche modo si divertono (la mia sensazione è questa). Io penso che va bene così, anche se noi siamo rimasti soli. Mio fratello maggiore mi dice ridendo per l'incredulità: "mamma ha detto che non dobbiamo preoccuparci, se abbiamo bisogno di qualcosa prende l'autobus e viene".

Cambia scena. E' sempre uno schermo di un cellulare, questa volta lo tengo in mano io e ci sono quasi immerso nell'osservare la scena. E' mio padre che gioca con mio fratello più piccolo. Non si capisce bene cosa stiano facendo, sono vicini ad un nasone (fontanella romana) e sembra che stiano giocando con l'acqua. Io penso di nuovo che va bene così, anche se io non posso partecipare dallo schermo del cellulare. E' giusto che ci giochi mio fratello più piccolo, che non ha mai avuto la possibilità di farlo. Confondo mio fratello con mio figlio, una cosa che quando era più piccolo mi succedeva.

Altre scene confuse in cui riconosco i miei nonni materni che camminano verso di me ma non mi guardano e ho la sensazione che puntino verso mio padre. Mio nonno scivola e rimane indietro, io penso che bisognerebbe dargli una mano.....

Mi sveglio, un po' commosso. Resto fermo, con l'intenzione di fare in modo che le scene non facciano in tempo a svanire del tutto.


domenica 7 maggio 2023

JJ4 e l'ambientalismo da giardino dell'Eden

L'episodio dell'orsa che uccide il podista nel bosco ha qualcosa da dire sull'ambientalismo. Per ambientalismo intendo quell'atteggiamento di tutela e protezione dell'ambiente naturale che costituisce una parte significativa del nostro rapporto con la Natura. La cosa che trovo certe volte discutibile sono le motivazioni e le ragioni di questo ambientalismo e che non sempre mi trovano d'accordo. Ne trovo un esempio proprio nell'episodio dell'orsa JJ4.

Il fatto è il seguente: un'orsa uccide un ragazzo che si allenava correndo nel bosco. Nessuno ha assistito alla scena ma credo di poter dire che molto probabilmente l'orsa si è trovata davanti improvvisamente un essere umano che correva, ansimante per la fatica, a distanza ravvicinata. Si è spaventata e ha immediatamente reagito aggredendolo. Lo ha "neutralizzato" (dal suo punto di vista) e a quel punto si è allontanata avendo risolto (sempre dal suo punto di vista) l'insolito problema.

A questo punto sono possibili due atteggiamenti (posso rischiare di semplificare ma mi pare di averli riscontrati).

Il primo è il seguente: il ragazzo ha commesso un'imprudenza, purtroppo è morto vittima di un suo atteggiamento maldestro (sono tantissimi e dei più svariati gli atteggiamenti maldestri per cui si può morire), e l'orso da parte sua ha fatto l'orso, non ha nessuna colpa, ha seguito la sua natura, libero è e libero è bene che rimanga, perché rinchiuderlo o ucciderlo? Cosa sarebbe, una vendetta? Rispettiamo la natura dell'orso.

Il secondo è il seguente: non è che per caso un orso che ha avuto un'esperienza del genere può essere molto più pericoloso per l'uomo di quello che già è per sua natura? E' il caso di prendere provvedimenti, ad esempio isolarlo o in casi estremi eventualmente pensare di abbatterlo? Si tratta pur sempre di zone frequentate da persone, e per quanto queste debbano certamente essere educate alla gestione di un eventuale incontro con l'orso forse non è il caso di correre pericoli eccessivi.

Questo secondo atteggiamento mi trova d'accordo. Perché vogliamo proteggere l'ambiente? Che significa farlo? Io penso che l'unico ambientalismo sensato sia quello che pensa di proteggere l'ambiente perché ci siamo noi dentro, perché alla fine proteggiamo noi stessi. E lo dovremmo fare appunto in funzione di questo obiettivo, in maniera razionale e pragmatica. In quest'ottica ha molto senso domandarsi se è il caso di lasciare libero l'orso oppure no.

Il primo atteggiamento descritto è invece, secondo me, il risultato di un ambientalismo paternalistico. Noi siamo una specie eletta, che ha ricevuto un ambiente su cui vivere e prosperare, ma proprio per questo abbiamo una grande responsabilità su di esso, dobbiamo curarlo in tutti i suoi aspetti come il nostro giardino. Il nostro giardino dell'Eden. Siamo talmente responsabili (e talmente eletti) che ci piace difendere a tutti i costi gli animaletti del bosco (in particolare quelli che ci somigliano, che in qualche misura ci stanno vicini), ci piace pensarli creature innocenti in tutti i loro atteggiamenti, creature che non hanno colpe, ci piace pensare che i cattivi siamo noi, che la specie pericolosa siamo noi, perché siamo noi a cui è stata data la cura dell'Eden, e a nessun altro. Noi non siamo dentro la natura, ma sopra. E non a costo zero. Dobbiamo portare i risultati a qualcuno che ce l'ha data. Abbiamo ereditato volenti o nolenti una cultura fortemente antropocentrica che ci porta a costruzioni false e innaturali.

P.s.: nella vicenda ovviamente ci sono state anche strumentalizzazioni politiche che l'hanno fortemente condizionata, rifacendosi spesso proprio a questi diversi modi di intendere l'ambientalismo, ma questo aspetto non mi interessa e non l'ho considerato in questo post.


domenica 30 aprile 2023

Piccolo dialogo immaginario sulla conoscenza

"Ciao, come è andata oggi a scuola?"

"Bene"

"Cosa hai imparato di bello?"

"L'insegnante ci ha spiegato i numeri primi"

"Ah, bello! Visto com'è difficile trovarli? Poi diventano sempre più rari andando avanti"

"Si, ma non c'è problema, ne trovi quanti ne vuoi"

"E perché?"

"Perché sono infiniti!"

"Ah si? E tu come lo sai?"

"Ce lo ha detto l'insegnante a lezione"

"Capisco, ma ti sei per caso domandato l'insegnante come fa a saperlo?"

"Beh, ma sta scritto anche sul libro, l'ho visto mentre spiegava"

"Quindi tu sai che i numeri primi sono infiniti perché lo hai letto sul libro?"

"Mhmm ... dove vuoi arrivare? ... Perché tu invece come lo sai? Non lo hai letto anche tu su qualche libro?"

"Certo, anche io l'ho letto sui libri. Ma quello che ha scritto il tuo libro, perché qualcuno lo avrà pure scritto, come lo sa che i numeri primi sono infiniti?"

"Uffa, ma che ne so? Lo avrà letto anche lui da qualche parte"

"Ma scusa, l'affermazione che i numeri primi sono infiniti non è affatto banale, questi signori che lo scrivono e lo spiegano, e per giunta te lo fanno studiare, come sanno questa cosa?"

"..."

"La vera domanda che volevo farti è questa: quando hai sentito questa affermazione dal tuo insegnante o quando lo hai letto sul libro ti è venuto in mente di domandarti come è possibile fare questa affermazione?"

"Francamente no"

"Ecco, io lo so che gli studenti hanno altro a cui pensare, e hanno spesso anche tutte le loro ragioni per pensare ad altro. Ma la conoscenza è proprio lì, in queste domande, e da nessun'altra parte. Tutto il resto se va bene è istruzione, se va male è nozionismo. Per carità, niente di male, ma vuoi mettere la conoscenza? Altrimenti si rischia solo di mettere insieme roba che serve per riempire l'album delle belle figurine che fai a scuola o da qualche altra parte, per riempire il baule del repertorio di cose che tiri fuori ogni volta che ti devi esibire. Non confondere la conoscenza con l'elenco delle cose che sai perché qualcuno te le ha fatte studiare e ti ha detto che sono importanti. La conoscenza è sempre frutto di una ricerca personale."

"Ma dunque, tu che parli tanto, come sarebbe possibile fare questa affermazione sui numeri primi? Visto che tu te lo sei domandato saprai pure la risposta"

"Questo non ha importanza. Non sono interessato ad aprire il mio baule. Se come ho detto la conoscenza è una ricerca personale questa si costruisce con le domande, non con le risposte che leggi ancora prima di domandarti alcunché. E si costruisce da soli, in tutti i modi possibili e con tutti i mezzi possibili".

 "Ammazza però che trombone!"


giovedì 27 aprile 2023

Antifascismo, e poi?

Breve commento cinico alle innumerevoli discussioni di questi giorni intorno al 25 aprile e all'antifascismo.

Mi è molto chiaro come la questione dell'antifascismo sia sempre stata e sia tutt'ora un grave problema per la destra italiana. L'incapacità di liberarsi da questa matrice storica inaccettabile compromette seriamente la credibilità della destra nel nostro paese. Ed è anche molto chiaro che prendere le distanze in modo inequivocabile e definitivo da questa matrice per quanto risulterebbe una cosa necessaria sarebbe un passo per molti aspetti sconveniente, sia per la qualità di molti politici di destra che per quella di buona parte del suo elettorato. Questa impresentabile caratteristica rimarrà probabilmente a lungo sullo sfondo delle politiche di destra, e continuerà a compromettere la normale dialettica democratica, c'è poco da fare.

Quello che osservo con un certo cinismo, ma che purtroppo mi sembra altrettanto chiaro, è che l'antifascismo, per quanto un valore importante e fondativo della nostra Repubblica, è anche un po' il "giocarello" della sinistra italiana (questa forse è un po' cattiva), l'unico elemento identificativo forte che almeno una volta all'anno cementa questa forza politica. Ma nel resto dell'anno? Ok, la sinistra italiana è antifascista, ma in fondo non è la sua cifra distintiva dal momento che antifascista dovrebbe esserlo qualunque forza politica italiana che si muova all'interno dei principi della costituzione. L'argomento antifascismo rischierà col tempo di trasformarsi in una contrapposizione retorica inutile e sempre meno concreta (un vero peccato), soprattutto per le nuove generazioni sulle quali incide negativamente la distanza storica dai fatti. Una contrapposizione che finisce per oscurare tutto il resto, tutto quello su cui si dovrebbe discutere (e agire) e su cui la sinistra dovrebbe distinguersi.

La sinistra è antifascista. Ma poi? Che altro è?


sabato 15 aprile 2023

Il lato oscuro dei Big Data (*)

Sarah stava davanti al suo dirigente scolastico, a tu per tu nel suo studio, ed era preoccupata e perplessa. Aveva appena ricevuto la notizia del suo licenziamento. Preoccupata per il suo immediato futuro lavorativo ma ancor più perplessa perché non riusciva a capirne le motivazioni. L'uomo di fronte a lei appariva visibilmente imbarazzato, anche lui incredulo della notizia che stava dando ad una persona che riteneva certamente tra le sue migliori insegnanti.

"Può darmi una spiegazione di questo licenziamento?". Il dirigente scolastico faticava a cominciare a parlare. Poi prese a dare una spiegazione che via via che andava avanti sembrava fare riferimento a delle ragioni che stavano al di sopra delle sue personali convinzioni. Ragioni 'tecniche' molto precise e, in un certo senso, inconfutabili. Contro le quali non era il caso di opporsi. La scena era un po' surreale visto che lui in virtù della sua posizione era responsabile di tutte le più importanti decisioni che riguardavano l'istituto, compresi ovviamente i licenziamenti.

Le scuole della città, da circa un paio d'anni, ricorrevano ad un sistema di valutazione degli insegnanti fornito e gestito da una società di consulenza esperta in raccolta ed elaborazione dati. La decisione di ricorrere ad un tale strumento era stata presa dalla giunta comunale della città e fortemente voluta dal suo sindaco che, esasperato dagli scarsi risultati degli studenti dell'ultimo anno di scuola media inferiore, aveva deciso di riformare il sistema scolastico cittadino. L'idea era che i ragazzi non imparavano abbastanza perché gli insegnanti non erano all'altezza. Si trattava quindi di ideare e utilizzare un sistema di misurazione della qualità dei docenti ed eliminare tutti quelli che non raggiungevano i risultati desiderati. Da qui il licenziamento di Sarah, che nell'anno scolastico precedente aveva ottenuto un punteggio misero.

"Posso sapere come funziona il sistema di valutazione utilizzato?". A questa domanda l'imbarazzo del dirigente scolastico si fece ancora più evidente. Gli algoritmi utilizzati erano molto complessi, impiegavano un numero molto elevato di parametri su cui facevano complicate elaborazioni statistiche per tener conto di tutte le motivazioni che abbassavano o mantenevano scarsi i rendimenti degli studenti, dal loro background socioeconomico alle loro intrinseche difficoltà di apprendimento, fino alla qualità dell'insegnamento, il vero obiettivo finale del sistema di misurazione. In pratica non se ne sapeva molto circa questo algoritmo, essendo stato elaborato da una società specializzata in questo tipo di cose e per tale motivo direttamente incaricata dal comune. Forse questa società non era neppure molto interessata a comunicare i dettagli del proprio algoritmo. Ma nascondere questi dettagli aveva anche un altro importante scopo: se le persone sottoposte a valutazione vengono tenute all'oscuro di come funziona il sistema avranno minori probabilità di poterlo ingannare, dovranno solo lavorare al meglio delle loro possibilità.

"A tutto il resto ci pensa l'algoritmo. Lei legge il punteggio finale e prende le sue decisioni di conseguenza. Anziché sforzarsi di interpretare la realtà preferisce crearla con un punteggio. Non crede ci sia uno scarico di responsabilità? Come giustifica il fatto di valutare le persone con un metro che lei non è in grado di spiegare?". Silenzio. Il dirigente cominciò a farfugliare cose poco convincenti sulla enorme complessità di questi modelli di calcolo, su quanto vengono studiati in tutto il mondo, sulle loro grandi capacità di leggere le situazioni reali meglio di qualunque essere umano, ecc.

"E' sicuro della validità statistica di questo modello di calcolo? Perché mi viene da pensare che se si dovessero analizzare gli insegnanti con rigore statistico si dovrebbero testare i loro risultati su migliaia di studenti selezionati in maniera casuale. Questi algoritmi di cui parla hanno in definitiva solo pochi numeri da confrontare. E poi i fattori che concorrono all'apprendimento e all'efficacia dell'insegnamento sono talmente tanti che mi pare molto difficile se non impossibile riuscire a misurarli tutti e a tenerne conto in modo appropriato in una valutazione complessiva. Non crede?". Ancora silenzio. "Un ultima cosa: non ci dovrebbero essere dei modi per valutare a posteriori l'efficacia di questi sistemi ed eventualmente correggerli? Altrimenti si corre il rischio non di rappresentare una realtà ma di inventarne una ad hoc per giustificare i risultati ottenuti. Per poi dire che è l'algoritmo che ha calcolato questo risultato, non ci si può far niente. Si rende conto del pericolo?".

Il povero dirigente scolastico, senza più argomenti, si limitò a mostrare una serie di grafici parziali che attestavano gli scarsi risultati della sua dipendente nel corso dell'anno precedente. Facevano perlopiù riferimento ai voti ottenuti dagli studenti durante l'anno, messi in relazione con quelli dei loro coetanei delle altre classi e con i loro stessi risultati negli anni precedenti. Era chiaro che i voti degli studenti nel test standardizzato avevano un peso notevole nella formula finale di valutazione.

"Mi scusi, io ricordo bene che i ragazzi che presi all'inizio dell'anno avevano quasi tutti ottenuto un test di uscita dalla scuola precedente che attestava un buon livello di istruzione raggiunto, ma il problema è che sin dalle prime lezioni constatai grosse difficoltà che a giudicare dal risultato dei test non mi sarei dovuta aspettare. Questa cosa non le sembra sospetta? Avete provato a controllare le modalità di esecuzione di questi test? Non potreste provare a ripeterli prima di iniziare l'anno scolastico? Non avete il sospetto che gli insegnanti della scuola di uscita abbiano ritenuto conveniente dare degli 'aiutini' ai loro studenti? E questo proprio in virtù degli esiti della loro stessa valutazione? Perché se questo risultasse vero significa che gli algoritmi di valutazione degli insegnanti sono in realtà diventati un potente strumento di modifica del comportamento. Ciò sarebbe gravissimo sia per il sistema di valutazione sia più in generale per la didattica. Mi viene da pensare che la ragione più importante del mio scarso punteggio sia proprio questa. I voti dei miei ragazzi al termine dell'anno probabilmente evidenziano un calo nel profitto causato essenzialmente dai test precedenti gonfiati ma di fatto attribuito alla mia presunta incapacità di insegnare. Cosa mi dice?".

La scatola nera del modello di calcolo utilizzato aveva tirato fuori un punteggio che determinava il licenziamento di Sarah, e quando lei tira fuori obiezioni e osservazioni 'che fanno pensare' in realtà questo non basta. Sarah era implicitamente chiamata a fornire dimostrazioni di livello decisamente superiore rispetto agli stessi algoritmi.

Il dirigente scolastico stava preparando insieme alla lettera di licenziamento anche una lettera di presentazioni che confermava le doti di ottima insegnante e con cui Sarah troverà in breve tempo un nuovo lavoro. Lo troverà in una scuola privata di un quartiere ricco della città, che può permettersi una selezione individuale degli insegnanti, senza ricorrere ad una gestione 'all'ingrosso' di una valutazione basata su grandi numeri e sul lavoro veloce e poco costoso delle macchine. Così una scuola povera di mezzi ha perso una valida insegnante mentre una scuola ricca ne ha trovata una.

(*) Rielaborazione di un fatto reale raccontato nell'introduzione al libro Armi di distruzione matematica di Cathy O'Neil (2017).

domenica 12 marzo 2023

Trasformazioni di un disegno melodico e spazio immaginativo

Gli ingredienti "puri" della musica, cioè quelli non legati ad elementi letterari o ad azioni sceniche, possono sembrare banali ma sono spesso essenziali nella logica interna di un brano e sono di fatto strettamente legati alla sua "bellezza". Parlarne è un po' come descrivere i colori usati in un quadro o le forme riprodotte in una statua. Ma in fondo sono questi elementi a fare un bel quadro o una bella statua. In genere sono cose che hanno a che fare con idee astratte ma molto attraenti, come ad esempio la simmetria o la sua  rottura. Ripetizioni e variazioni e le loro relazioni dialettiche sono spesso alla base dell'espressione artistica, soprattutto (ma non solo) se questa si sgancia in un modo o nell'altro da significati precisi, come succede praticamente sempre nella musica strumentale.

In questo breve post ho tentato di riunire alcune trasformazioni con cui si può elaborare un disegno melodico, solo uno degli ingredienti del discorso musicale. Trovo che lo sforzo spesso non facile di riconoscere queste elaborazioni all'interno di un brano sia alquanto interessante per un appassionato di musica.

Per disegno melodico si intende una successione di note nel tempo, caratterizzato non tanto dalle specifiche note scelte (altezze, ovvero frequenze fondamentali) né dal loro timbro (spettro delle frequenze) bensì dalla sequenza di intervalli che le separano (differenza tra le altezze, ovvero rapporti tra le frequenze) e dalle loro durate temporali (che possono comprendere eventuali pause).

Tenendo presente la definizione data di disegno melodico è possibile enumerare le possibili (e più importanti) trasformazioni applicabili ad esso. Da notare che molte di queste trasformazioni e delle loro combinazioni sono possibili grazie ad una specifica simmetria dello spazio sonoro su cui si lavora, la simmetria per traslazioni in altezza (frequenza), garantita dall'accordatura del "temperamento equabile".

1. Traslazione nello spazio sonoro - il disegno melodico viene eseguito spostando in alto o in basso la nota di inizio.

2. Traslazione nel tempo - il disegno melodico viene eseguito in tempi diversi durante lo sviluppo di un brano.

3. Inversione (riflessione rispetto ad un'altezza/frequenza) - tutti gli intervalli del disegno melodico vengono eseguiti rovesciati, un intervallo ascendente diventa il corrispondente intervallo discendente e viceversa.

4. Retrogradazione (riflessione rispetto ad un tempo) - il disegno melodico viene eseguito alla rovescia, dall'ultima alla prima nota.

5. Aumentazione (trasformazione di scala temporale, dilatazione) - tutte le note del disegno melodico vengono eseguite raddoppiando le loro durate o più in generale aumentandole di una durata fissa. 

6. Diminuzione (trasformazione di scala temporale, contrazione) - tutte le note del disegno melodico vengono eseguite dimezzando le loro durate o più in generale diminuendole di una durata fissa. 

7. Frammentazione - viene eseguito solo un frammento del disegno melodico.

8. Ricomposizione - esecuzione di frammenti consecutivi in ordine diverso dall'originale.

Tutte le trasformazioni elencate possono ovviamente essere combinate assieme in qualunque modo. Inoltre tutte le trasformazioni elencate possono contenere "eccezioni", possono essere cioè eseguite come "trasformazioni imperfette". Le imperfezioni più comuni sono quelle necessarie a mantenere il disegno melodico trasformato nell'ambito di una certa tonalità. Altre imperfezioni sono legate ad esigenze che nascono dalla dimensione verticale del brano (combinazione di più disegni melodici o dello stesso disegno melodico o di sue particolari trasformazioni) o da quella orizzontale (combinazioni ritmiche del disegno melodico con altri elementi del brano).

Le combinazioni di trasformazioni del disegno melodico arricchito delle tante eventuali imperfezioni può generare un altro disegno melodico, indipendente dal primo, sebbene imparentato con esso. 

Lo spazio immaginativo si alimenta proprio grazie a tutti i possibili utilizzi di queste trasformazioni e di tutte le loro possibili imperfezioni, da cui nascono nuove idee.


domenica 5 marzo 2023

ChatGPT

Negli ultimi tempi ogni tanto "parlo" con ChatGPT, chiedendogli cose che mi passano per la testa. Più che altro sono curioso di vedere come risponde, come organizza il discorso. Si tratta di un'intelligenza artificiale che elabora il linguaggio naturale, ed effettivamente lo fa molto bene. Lui stesso si definisce come "un assistente virtuale basato su una grande rete neurale artificiale addestrata con una vasta quantità di dati testuali" (parole sue).

Questi sistemi mi fanno sempre pensare ai vecchi scritti di Alan Turing (ne ho già scritto qui diversi anni fa), in cui il grande scienziato individuava con un certo anticipo gli elementi essenziali che hanno portato a questi risultati. Non conviene chiedere alla macchina di eseguire alla perfezione e senza errori delle procedure perfettamente deterministiche perché queste procedure, benché macinate con velocità e precisione impressionanti non manifestano un vero comportamento intelligente. E' invece essenziale che la macchina possa avere comportamenti inizialmente mossi dal caso e successivamente perfezionarli attraverso un bagaglio di esperienze fatte di tentativi ed errori, come succede in noi intelligenze naturali. Niels Bohr diceva che un esperto in una qualche disciplina è colui che ha fatto in quella disciplina tutti gli errori possibili. In un certo senso occorre rinunciare ad avere un algoritmo completamente sotto il nostro controllo e introdurre invece in esso degli elementi aleatori su un grande numero di gradi di libertà che messi a contatto con un "ambiente" (i dati) gli permettano di evolvere in un modo per noi non del tutto deducibile. In pratica occorre pensare ad algoritmi che abbiano le classiche caratteristiche dei sistemi complessi.

Poi ci si può chiedere quanto un algoritmo del genere, che conversa con me usando un livello di complessità linguistica del tutto simile alla mia, sia "cosciente" di quello che dice, cioè "consapevole" degli argomenti di cui sta parlando (non riesco a togliere le virgolette a queste parole).

Un elaboratore di linguaggio funziona essenzialmente facendo correlazioni statistiche sulle parole, cioè scrive una parola che abbia la probabilità più alta di essere scritta subito dopo una serie di altre parole scritte precedentemente. Le correlazioni statistiche utilizzate vengono ricavate da una lunga fase di apprendimento, fatta esaminando un numero molto elevato di testi scritti. Ovviamente per essere veramente efficacie la correlazione deve poter essere fatta a più livelli. Se scrivo casa come ultima parola il calcolo probabilistico della parola successiva dovrà considerare molti livelli a ritroso, cioè molte parole prima dell'ultima. In questo le reti neurali possono essere molto ben addestrate.

Queste correlazioni però non vengono effettuate tra le parole, ma tra numeri in cui tutto il flusso di informazione è stato opportunamente trasformato per l'elaborazione dell'algoritmo. Il sistema macina simboli senza significato (per lui) se non quello puramente numerico (oggetti da sottoporre a calcolo matematico). Tra l'altro un elaboratore di linguaggio opportunamente addestrato può essere interrogato in numerose lingue, tutte quelle che hanno fatto parte del suo addestramento. In questo senso la parola casa per il sistema che la elabora non può avere nessun significato, almeno non certo quel significato che le può naturalmente attribuire un essere umano.

Quindi potremmo dire che la macchina "non capisce quello che sta dicendo", cioè non ha alcuna vera consapevolezza dell'argomento di cui sta parlando, nonostante la complessità nell'articolazione del linguaggio che riesce a raggiungere (molto più elevata della maggior parte  delle persone che scrivono, a giudicare dalle esperienze che faccio negli ambienti di lavoro). Questa cosa tutto sommato non è poi così sorprendente poiché la cosiddetta coscienza di fatto viene costruita da un vissuto, che un essere vivente certamente ha, sin dalla nascita. Per vissuto intendo un'interazione continua e complessa con l'ambiente, neanche lontanamente paragonabile al "vissuto" che può avere una macchina addestrata con migliaia di testi trasformati in numeri. Una macchina è senza una vera coscienza del mondo in cui vive semplicemente perché non lo vive, almeno non nel modo in cui lo viviamo noi che ci attribuiamo una coscienza.

E' chiaro quindi che la macchina utilizza la parola casa ma non può avere nessuna vera consapevolezza del significato di questa parola, prima di tutto perché la trasforma in numeri, e poi soprattutto perché non ha nessun tipo di vissuto che le faccia capire cosa sia una casa. Un qualunque essere umano capisce bene il significato della parola casa e ogni volta che la usa la riveste di questo significato perché è nato, vissuto e vive all'interno di un ambiente chiamato casa, conosce la sua casa, conosce la casa dei suoi simili, non fa altro che vedere esempi di case in tutta la sua vita.

Il fatto curioso però è questo: se io dovessi chiedere ad un mio simile che cosa è una casa, al fine di verificare se lui ne capisce il significato, la risposta che lui mi potrebbe dare non sarebbe altro che una serie di parole statisticamente correlate, le parole più probabili che si possono tirar fuori in un qualsiasi discorso in cui si parli del concetto di casa. Ma queste parole sarebbero più o meno le stesse di quelle che potrebbe utilizzare anche il nostro elaboratore di linguaggio. E dunque chi mostra più "coscienza"? E soprattutto come si fa a riconoscerla o a distinguerla?


domenica 5 febbraio 2023

Per volere divino o per merito

Il potere per funzionare deve essere giustificato da una ragione che venga accettata sia da chi il potere lo esercita sia da chi lo subisce.

Ai tempi dell'aristocrazia il potere era giustificato da un disegno divino che operava sin dalla nascita (il famoso sangue blu). Il re era incoronato direttamente dal volere di dio attraverso i suoi interpreti in terra (il clero). La corte e tutta l'aristocrazia che gli ruotava attorno era emanazione del re e quindi di dio. I poveri erano esclusi da questo progetto e in qualche modo dovevano accettare questa loro condizione evidentemente voluta da dio.

Al giorno d'oggi questa giustificazione rimane solamente per il clero, una casta che agisce per volere divino e gestisce il potere per conto di dio.

La rivoluzione borghese ha portato al potere una classe sociale che non poteva più giustificare il suo potere attraverso la religione, che fino a ieri giustificava l'aristocrazia (la società comincia in quel momento il suo processo di secolarizzazione) ma doveva altresì giustificarlo. Poiché la borghesia sale al potere soprattutto per la sua capacità di creare ricchezza il motivo che la porta al potere e ce la mantiene è il "merito".

Il merito prende il posto del disegno divino e per alcuni aspetti risulta forse più efficacie. Perché a questo punto tutti i meritevoli indipendentemente dalla loro condizione di partenza possono ambire alla classe di potere, che quindi appare come una classe sfumata, graduale, non chiusa, pronta ad accogliere. Le proprie capacità fanno l'unica vera differenza tra chi esercita il potere e chi no.

In entrambe le società risulta comunque che se sei un poveraccio in qualche modo devi fartene una ragione e accettarlo. Se sei un poveraccio c'è una ragione che te lo spiega, e questa ragione in fondo è indipendente da chi esercita il potere, è una ragione superiore, comunque esterna. O il tuo dio ha riservato per te questo destino (in modo misterioso e imperscrutabile, che si rivelerà solo nell'altro mondo) o semplicemente sei un incapace che non è stato in grado di costruirsi la sua strada di successo nella società. In quest'ultimo caso nella società secolarizzata non è necessariamente prevista una consolazione ultraterrena, quindi la religione in questo senso mantiene ancora una sua funzione di appoggio, di riscatto o conforto, e il clero mantiene in parte il suo antico ruolo e la sua posizione sociale.


martedì 31 gennaio 2023

La necessità di un livello minimo di ipocrisia

Ultimamente mi è capitato più di una volta di accennare al fatto che l'alcool è una sostanza tossica, in particolare anche un agente cancerogeno accertato, e di osservare reazioni che vanno dallo stupore sincero all'incredulità mista a diffidenza, oltre ovviamente a risposte del tipo "si, ma che ce frega!". Nei giorni scorsi si è sollevato anche un dibattito relativo alla modifica dell'etichettatura delle sostanze alcoliche chieste dall'Irlanda e approvata da Bruxelles e che potrebbero costituire un precedente per un cambiamento a livello europeo, a cui si stanno opponendo tutti gli stati europei maggiori produttori di vino (Italia, Francia, Spagna). La richiesta dell'Irlanda è ovviamente giustificata dai seri problemi che in quel paese provoca il consumo eccessivo di bevande alcoliche, la reazione degli stati produttori di vino è "giustificata" dalla volontà di proteggere un mercato importante. Questo è un caso in cui l'informazione e la politica dovrebbero giocare un ruolo fondamentale, mentre perlopiù mi sembrano vacanti o inadeguati.

Ma al di là di tutto, quello che mi colpisce è la reazione delle persone, che grosso modo, se non ho capito male, assumono con varie sfumature un atteggiamento del tipo "ebbasta! non fateci sapere niente, fateci campare, non ci rompete le scatole pure col vino, eddaaaiii!". E' pur vero che la campagna anti-tabacco ha a tutt'oggi un carattere terroristico in quei messaggi osceni ed esagerati inseriti in tutti i pacchetti di sigarette e in altri prodotti per il fumo. In questi casi l'informazione al cittadino secondo me dovrebbe essere fatta con toni razionali e non emotivi. Ma se lo Stato deve informare il cittadino della tossicità accertata di sostanze contenute in prodotti di largo consumo dovrebbe farlo ovviamente per tutte, dunque tanto per il tabacco quanto per l'alcool ed eventualmente anche per altre sostanze. E' una forma di protezione della collettività, un problema di salute pubblica, mi sembra importante.

Il comportamento che mi è capitato di osservare indica invece una tendenza ad essere refrattari alla corretta informazione, soprattutto quella che ci responsabilizza sull'esercizio di pratiche consolidate associate ad un certo fattore di rischio. Quello che ci dà fastidio è il dover constatare che abitudini affatto normali risultino essere intrinsecamente rischiose, chiamando in causa il nostro senso della misura e di responsabilità. Preferiamo demonizzare alcuni elementi un po' più esterni alle nostre vite, più circoscritti e controllabili, come ad esempio le cosiddette "droghe", e soprassedere sul resto. Come se chiedessimo a noi stessi di poter coltivare un livello minimo di ipocrisia.

Forse le nostre società sempre più complesse ci sovraccaricano di troppi problemi rispetto a quelli che siamo fisiologicamente in grado di affrontare e gestire, superando un livello oltre il quale non ce ne vogliamo più far carico. Troppo difficile campare così. Lasciateci in pace, non ci raccontate tutto quello che sappiamo, nascondetecelo se possibile, che magari campiamo meglio. Il fatto è che se abbiamo bisogno di questa deresponsabilizzazione anche su piccole cose come queste poi come facciamo (faremo) a farci carico come società dei ben più grandi problemi della convivenza globale di miliardi di persone? Anche questi per caso li stiamo discutendo con la stessa nascosta necessità di ipocrisia? Il cambiamento climatico, la minaccia nucleare, la convivenza pacifica, le tante forme di inquinamento, la gestione di tecnologie sempre più complesse, la povertà diffusa .... mi sa che è meglio prendere la pillola blu di Matrix.


sabato 21 gennaio 2023

Un film su Mandela

Ieri sera ho visto un film di Clint Eastwood su Nelson Mandela. Non mi è sembrato proprio un gran film, Eastwood secondo me ne ha fatti di migliori. Però mi ha colpito il racconto del comportamento di Mandela presidente del Sud Africa, un paese appena uscito dall'apartheid. In poche parole tutto il film girava sulla determinazione di Mandela a voler ricoprire a tutti i costi il ruolo di presidente di tutti, bianchi e neri. Il suo costante impegno nell'essere sempre inclusivo, nel voler riunire tutto il popolo sudafricano in un'unica grande nazione. Determinato a voler avere una visione generale della società che non contrapponesse più differenze inutili e dannose. Uno sforzo titanico per uno che ha subito così tanto da una parte di quella società. Per raccontare questa sua ostinazione Eastwood sceglie un evento sportivo, il campionato mondiale di rugby, ospitato proprio in Sud Africa nel 1995.

Si tratta ovviamente di un fatto realmente accaduto. Il Sud Africa in quell'anno diventa campione del mondo di rugby, all'epoca considerato uno sport per bianchi, seguito solo dagli "afrikaner" e per questo odiato dalla popolazione nera, con una squadra costituita da 25 giocatori bianchi su 26. Mandela riesce a trasformare un evento potenzialmente e pericolosamente divisivo in un'occasione per unificare un popolo fino a quel momento drammaticamente diviso dal razzismo. E per riuscirci si mette apertamente contro la voglia di riscatto espressa a più riprese da molti esponenti della società nera. Combatte contro la voglia comprensibile di ribaltare la società sudafricana e farla pagare finalmente alla minoranza bianca che per tanti anni si era scagliata anche contro di lui. Il suo vero obiettivo era di ritrovare un equilibrio sociale, culturale e politico che rappresentava l'unica vera salvezza per tutti.

Oggi leggevo un articolo che parlava di tecnologia, in particolare di intelligenza artificiale, della sua natura utile e rischiosa nello stesso tempo (come per tutte le tecnologie), dell'esigenza di saperla valutare nelle sue molte implicazioni oltre che di saperla fare. Ad un certo punto leggo questa frase: "... anche il modo di educare le nuove generazioni dovrà cambiare velocemente. Forse lo sforzo per convogliare le giovani generazioni verso le discipline scientifiche o più in generale verso le discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) dovrebbe essere integrato dallo studio della filosofia e in generale delle discipline umanistiche e sociali". Questa è una cosa che penso sempre più spesso.

Noto con dispiacere che a tutt'oggi molte persone di orientamento culturale umanistico continuano ad essere alieni alle questioni sempre più importanti sollevate dalle innovazioni tecnologiche e contemporaneamente noto con altrettanto dispiacere che le persone che a vario titolo si occupano di tecnologia pensano solo a farla, trascurando troppo spesso l'analisi critica. Non riconoscere alla tecnologia un alto valore culturale da una parte e snobbare l'approccio umanistico e la sua capacità di riflettere sulle cose del mondo dall'altra è quanto di peggio una società possa fare, ora e nel prossimo futuro. Ci vorrebbe uno sforzo di unione culturale che parta prima di tutto da nuovi modelli educativi. Ci vorrebbe un Mandela-pensiero.