lunedì 31 ottobre 2016

La società vuole questo?

Mi dà sempre un certo fastidio avere a che fare con persone che tendono a parlare sempre e solo del proprio lavoro. Fortunatamente è una cosa abbastanza rara e in certi casi potrebbe anche essere falsata dalle circostanze. Qualche volta cerco anche di spiegarmela in modi che più o meno funzionano. Ad esempio sono persone che conosco e frequento solo negli ambienti di lavoro, poi magari mi ci imbatto nei vari social dove tutto sommato è legittimo circoscrivere i propri interventi solo ad argomenti di lavoro. Eppure specie per alcuni di loro mi è proprio capitato di pensare se mai riuscissero a parlare di qualcos'altro, se mai fossero capaci di passare il tempo libero (quel poco che hanno) ragionando su cose complesse ma completamente scollegate dalla loro attività produttiva, piuttosto che impiegarlo diligentemente in una qualche attività fisica (perchè si sa, lo sport fa bene, e mette a riposo il cervello, che deve servire solo nelle ore di lavoro).

Il fastidio cresce quando certe volte mi sembra di intuire che questo modo di vivere un po' aberrante è più una rappresentazione che una realtà vissuta (in un certo senso meno male). Una rappresentazione che è spesso ostentata proprio sui social o in generale su Internet. Proprio quest'ultimo aspetto mi colpisce particolarmente. Scegliere di proiettare su Internet solo la propria immagine professionale mi stranisce, io sono portato a fare esattamente l'opposto, e credo che comunque sia istintivo (almeno per me) cercare un equilibrio, come si fa nella vita di tutti i giorni. Il fatto poi che io percepisca dietro questi comportamenti un modello da rappresentare la considero una cosa ulteriormente irritante.

Il fastidio cresce ancora di più quando sono costretto ad ammettere che questa rappresentazione di specialismo estremo è utile (nel lavoro ovviamente). Mette bene in vista, consente di essere sempre ben informati, di non cadere mai dal pero, di non essere mai presi alla sprovvista. Restituisce un'immagine estremamente professionale, esattamente l'immagine che si vorrebbe da uno che lavora. E' proprio qui il punto: questa cosa è un valore. La cosa che io non posso che considerare aberrante è di fatto un valore, non solo per la società per cui lavori, ma proprio per la società tutta. Quella che io giudico una sorta di tossicodipendenza del cervello la sento anche serpeggiare nella società (in una parte della società) come una condizione rispettabile dell'individuo, prevalentemente quello di sesso maschile, perchè per quello femminile sono spesso ancora validi (e codificati) dei "diversivi" che se non ci si ostina sempre a leggerli come "intralci alla carriera" risultano invece elementi desiderabili di normalità. Tutto questo ogni tanto agita un po' le mie giornate lavorative.

Ma che vuole la società da noi? Non mi interessa l'opinione del singolo individuo, cerco proprio i messaggi che l'intera società in modo più o meno esplicito comunica ai singoli elementi che la costituiscono. Secondo me questi messaggi a ben vedere ci sono, e i modi per comunicarli sono tanti e complessi, e vanno scovati e portati alla luce in modo razionale. Quello che posso dire è che molto spesso questi messaggi proprio non mi piacciono.

domenica 23 ottobre 2016

Autodisciplina

Mio figlio faceva la prima media già da qualche mese quando ha ricevuto il suo primo smartphone, ed era impossibile procrastinare ulteriormente questo regalo. Era ormai l'unico tra i suoi coetanei a non averlo. Per un genitore questo significa principalmente aver dotato il figlio di uno strumento di reperibilità, ma secondo me questa esigenza sorgerà realisticamente solo tra qualche anno. Al momento, a meno che non lo si voglia reperibile nel tragitto tra scuola e casa o viceversa, lo smartphone non ha ancora questa funzione.

Per mio figlio lo smartphone all'inizio significava principalmente un ennesimo dispositivo elettronico con cui giocare. Nel giro di un paio d'anni, a cavallo tra elementari e medie, la sua attività di gioco e svago quotidiano si è spostata quasi integralmente su strumenti digitali. Però quasi immediatamente con il suo nuovo smartphone ha cominciato a fare la sua prima esperienza di rete sociale attraverso whatsapp. Ovviamente entrando nel gruppo della sua classe. Quasi contemporaneamente è aumentata la frequentazione di YouTube, al momento su canali legati essenzialmente ai videogiochi.

Su questo terreno sono cominciati a sorgere alcuni problemi su cui ogni tanto mi fermo a pensare. In sintesi alla fine questi problemi sono: uso eccessivo del digitale, linguaggio pesante e volgare della comunicazione, controllo del materiale fruito sulla rete. Più o meno i timori che assalgono un qualunque genitore. Qual è la strategia educativa migliore in questo caso? Creargli delle restrizioni di tempo e di manovra? Imporre degli strumenti di controllo parentale? Insomma costruirgli una disciplina dall'esterno?

Io non ci credo alla disciplina portata nella vita di una persona dall'esterno, cioè da un'altra persona. La disciplina ha veramente senso solo quando è autodisciplina. Cioè deve essere una scelta libera. Tutto nella vita di una persona deve somigliare il più possibile ad una scelta libera. Effettivamente si tratta in molti casi di avere disciplina nell'uso degli strumenti, di avere senso della misura, di capire il bello e il brutto di un mezzo di comunicazione. Ma per farlo bisogna ragionarci, e per ragionarci bisogna provarlo, e per provarlo veramente bisogna rischiare. Si deve uscire allo scoperto se si vogliono affilare gli strumenti critici. Altrimenti non si riesce mai veramente ad avere un'opinione personale in merito ad alcunché.

Il mio compito può essere solo quello di aiutarlo a ragionarci.

Nota: Anni fa mi è capitato di avere a che fare con dei militari, frequentati all'interno della loro caserma per ragioni di lavoro. La cosa che mi ha sorpreso di più del loro comportamento verso di me è stata l'incredibile indisciplinatezza, ad un livello che raramente ho riscontrato in altri ambienti. Strano per dei militari. Poi però il richiamo di un tenente colonnello ad una attività oggettivamente secondaria e la risposta pronta e appecoronata di queste persone mi ha chiarito le idee. La disciplina di un ambiente militare è in realtà l'espressione della gerarchia, la manifestazione di un potere, che ovviamente può tranquillamente esistere in varia misura in qualsiasi ambiente di lavoro che voglia essere efficiente ma che in un ambiente militare viene elevata a valore supremo. E per questo diventa ridicola. Niente di poi così strano dal momento che l'obbedienza ferrea e totalmente acritica alla gerarchia è fondamentale in regime di guerra. E niente di strano se poi quelle stesse persone al di fuori dell'ambito che gli impone anche solo formalmente certi comportamenti non manifesti la benché minima capacità di autodisciplina.