giovedì 27 dicembre 2012

Diseducazione alla conoscenza

L'anno scorso mio figlio studiava la storia dell'universo e della terra per arrivare a fine anno scolastico allo studio della preistoria dell'uomo e quindi alla sua storia, che ha cominciato quest'anno. Mentre studiavamo insieme la Pangea mi è venuta l'idea di poter collegare l'argomento al Big Bang che avevamo studiato qualche tempo prima, o meglio di trovare con esso delle analogie.

Come facciamo a sapere che tanto tempo fa esisteva la Pangea? E come facciamo a sapere che c'è stato il Big Bang? Prima analogia: di fatto non lo sappiamo, nessuno c'era all'epoca, non solo non c'eravamo noi ma nessuno dei nostri antenati, e nel caso del Big Bang nessun essere vivente. Quello che possiamo fare in entrambi i casi sono delle ipotesi, che tali rimarranno. E' il meglio che possiamo fare. Il mio primo intento era quello di far capire che nelle nostre conoscenze non c'è nessuna infallibilità, al contrario di quello che certe volte sembrerebbe, perlomeno nei modi istituzionali di comunicare la conoscenza scientifica.

Come facciamo a fare queste ipotesi tanto affascinanti? Seconda analogia: perchè sono ipotesi basate su fenomeni che osserviamo tuttora, la deriva dei continenti e l'espansione dell'universo. Quello che sappiamo e che misuriamo è lo spostamento progressivo anche se lentissimo dei continenti in direzioni ben precise che estrapolate a ritroso nel tempo ci informano sulla possibilità che circa 200 milioni di anni fa esisteva un'unica terra emersa che chiamiamo Pangea. Quello che sappiamo è che le galassie si stanno allontanando le une dalle altre con velocità ben precise e questo ci permette di ipotizzare un momento nel tempo (circa 13 miliardi di anni fa) in cui tutta la materia dell'universo era concentrata, un po' come la Pangea. Il mio secondo intento era quello di mostrare che la conoscenza si basa su ragionamenti semplici applicati spesso allo stesso modo in contesti del tutto diversi, e che sotto non c'è niente di astruso o di imperscrutabile. Il mistero è nella Natura, non nelle spiegazioni che diamo di essa.

Volevo che in qualche modo quei raccontini che mio figlio leggeva nel suo libro di testo fossero percepiti come una conoscenza costruita razionalmente, con tutti i suoi ingredienti, fallibilità inclusa. Volevo che quelle cose gli apparissero sostanzialmente diverse da semplici storie. Il libro di scienze è diverso dal libro di lettura.

Poi però succede un imprevisto. Mentre stiamo parlando del Big Bang mio figlio improvvisamente aggiunge: "è ovvio che ci deve essere qualche essere superiore che ha creato il Big Bang". Lo dice come nozione ovvia, come qualcosa che ha imparato da qualche parte e che mi ripete adesso, con una certa soddisfazione. Parlando con lui scopro che hanno parlato di questo durante l'ora di religione.

La cosa mi ha provocato una certa irritazione, mi ha dato l'impressione sconfortante che mentre il mio ragionamento veniva assimilato a fatica (con qualche difficoltà di concentrazione) quello elaborato durante l'ora di religione avesse fatto presa immediata. Eppure questa ovvietà di cui parlava mio figlio di ovvio non aveva proprio nulla. Che cosa è ovvio? Che prima del Big Bang ci deve essere stato qualcosa che l'ha causato? Cosa ci vogliamo fare con questo giochetto della catena di causa-effetto? La birra?

E anche quell'insegnante di religione, caspita! Oltre ad essere una finta deduzione che disabitua al ragionamento e al processo di conoscenza razionale, si tratta di un comportamento addirittura disonesto, ideologicamente orientato, in quanto rivolto a menti estremamente predisposte alla ricezione acritica. La disonestà sta soprattutto nell'utilizzare una conoscenza reale, per quanto debole, incerta e problematica, per agganciarci in maniera gratuita una propria "verità" indeducibile dai fatti.

Mi è venuto anche in mente quanto certe teorie scientifiche si prestino involontariamente all'idea della creazione ed è forse proprio per questo che si radicano così bene nella coscienza delle persone, e quanto questo non sia vero invece per altre e altrettanto importanti teorie. Dietro ci sono concezioni filosofiche o ideologie con cui la scienza inevitabilmente si intreccia. E' curioso ad esempio come le persone che ritengono assurda e inaccettabile la teoria dell'evoluzione, in particolare applicata all'uomo (volgarmente non accettano l'idea che "l'uomo discenda dalla scimmia") poi generalmente tendono ad accettare senza troppi problemi la teoria del Big Bang. E' ovvio che quest'ultima è una teoria certamente più problematica dal punto di vista teorico, certamente molto meno avvalorata dall'evidenza sperimentale e sicuramente molto più difficile da comprendere per un uomo di media cultura. Quindi il rifiuto categorico dell'evoluzione biologica dell'uomo, come forse l'accettazione molto facile della teoria del Big Bang, sono il risultato di una posizione ideologica.

Distinguere le ipotesi scientifiche dalle concezioni filosofiche o dalle ideologie o dalle religioni (pur frequentandole tutte e pur nella convinzione che storicamente si sviluppano tutte assieme) dovrebbe essere un traguardo culturale da perseguire fin dai primi anni di studio. Confonderle è la peggior cosa.

domenica 18 novembre 2012

La famiglia in uno stato liberale


In questi ultimi tempi vari Stati stanno definendo leggi sulla convivenza di coppia che tutelano la convivenza omosessuale portandola sullo stesso piano giuridico di quella eterosessuale, comprendendo anche la possibilità di adozione. Il dibattito è in buona parte condizionato dalla morale religiosa e in questo senso tutte le grandi religioni monoteiste sembrano convergere. E' di oggi la notizia che a Parigi sono scesi in piazza contro il progetto di legge del governo che prevede il matrimonio e l'adozione per le coppie omosessuali sia le associazioni cattoliche che quelle musulmane ed ebraiche. Anche se in realtà le manifestazioni in questione hanno avuto una partecipazione molto variegata e non necessariamente legata ad orientamenti religiosi.

Un punto importante di tutta la questione, su cui convergono le varie associazioni organizzatrici, di ispirazione religiosa o laica, sembra essere l'importanza dell'identità biologica della famiglia e il pericolo di destabilizzazione sociale che conseguirebbe ad una sua interpretazione meno biologicamente ortodossa. Il riferimento principale è ovviamente alla possibilità di adozione. Mi domando: la famiglia ha un fondamento biologico? O meglio, la famiglia si giustifica (e quindi si definisce, anche in senso giuridico) essenzialmente per il suo carattere biologico? E quale sarebbe questo carattere? La possibilità di procreare in senso stretto oppure più in generale la possibilità di offrire cure parentali?

Per me la famiglia è principalmente un nucleo sociale dove poter far crescere i bambini garantendo loro stabilità affettiva, sicurezza, educazione. In questo senso una coppia omosessuale non è meno famiglia di una coppia eterosessuale. Anche un single può essere una famiglia. Probabilmente è anche più facile che un bambino un giorno formi una famiglia se è vissuto con una coppia omosessuale unita piuttosto che con una coppia eterosessuale separata. E' ragionevole pensare che la coppia omosessuale unita gli abbia trasmesso più facilmente l'importanza e il valore della famiglia, mentre quella eterosessuale separata gli possa aver forse insegnato che si può vivere senza un nucleo familiare stabile, oppure che si può vivere e crescere in più nuclei familiari. E anche in quest'ultimo caso quella stabilità e sicurezza affettiva tanto importanti per la formazione del carattere di un individuo può comunque ancora essere garantita.

Inoltre per me la famiglia è un nucleo sociale che attiene alla sfera privata dei cittadini. Lo Stato non ha il compito di definire in modo ideale e aprioristico questo nucleo, appellandosi ad una morale di riferimento, ma deve dare al cittadino la possibilità di definirselo da solo. L'esercizio di questa libertà è fondamentale. Lo Stato non deve tutelare un concetto astratto di famiglia (neanche in senso biologico), deve tutelare la libertà del cittadino nel dare vita a questo concetto in tutte le forme che rispettino la libertà altrui.

In tutto questo l'unico vero diritto del bambino è quello di crescere in un ambiente dove può ricevere affetto, sicurezza ed educazione.

domenica 30 settembre 2012

La prova del nove

In terza elementare si completa lo studio delle quattro operazioni. I bambini imparano gli algoritmi per sommare, sottrarre, moltiplicare e dividere. Gli esercizi vengono spesso accompagnati da una verifica sul conto svolto che normalmente consiste nell'applicare l'operazione inversa per ricavare il primo operando a partire dal secondo operando e dal risultato ottenuto. Ad esempio si moltiplica il quoziente per il divisore e si aggiunge il resto (se c'è) per riottenere il dividendo.

La verifica sulla moltiplicazione però è di natura diversa. Viene chiamata "prova del nove" e consiste nel fare la somma delle cifre per ciascun operando e per il risultato ottenuto (iterando questa somma fino ad ottenere un numero ad una sola cifra) e verificando che le cifre risultanti nelle due parti dell'uguaglianza siano le stesse. Per esempio la moltiplicazione 125x47=5875 equivale a (1+2+5)x(4+7)=8x11, 8x(1+1)=16, 1+6=7 per i due operandi e 5+8+7+5=25, 2+5=7 per il risultato.

Ho notato, osservando mio figlio l'anno passato o ricordando me stesso all'epoca, che un bambino impara velocemente il metodo ma non si fa nessuna domanda sul perchè funzioni e su che logica c'è sotto. Non voglio dire che non arriva a capire perchè funzioni, voglio dire che proprio non si pone il problema. Ho fatto io la domanda a mio figlio ma credo che non l'abbia neppure capita, cioè non abbia colto il senso del farsi una domanda del genere. Sono sicuro che se avessi insistito su questo punto avrei ottenuto al massimo la sua compiacenza.

Questo fatto mi appare notevole in quanto non credo che per porsi un problema del genere ci sia bisogno di uno strato culturale tipico dell'adulto, e che ovviamente un bambino non potrebbe avere. Posso sbagliarmi ma credo che dipenda esclusivamente dal grado di maturità intellettiva. Ciò mette in evidenza come certe capacità logico matematiche (come altri aspetti dell'intelligenza) abbiano bisogno di tempo per maturare nel cervello di una persona.

Fornire stimoli al cervello è sicuramente sempre molto importante ma forse lo è anche il fatto che certi stimoli arrivino al momento giusto, che trovino cioè un terreno fisiologico pronto. Mi pare un aspetto forse scontato ma cruciale nell'educazione di una persona.

Nota: la prova del nove non viene spiegata ai bambini che la usano perchè (in questo caso si) non possono avere ancora gli strumenti culturali per comprenderla. La sua spiegazione sta nell'aritmetica modulare, sommare le cifre degli operandi è equivalente a passare ad una rappresentazione modulo 9 dove vale, tra le altre, una relazione del tipo Amod9xBmod9=(AxB)mod9. La prova del nove è ovviamente una condizione necessaria ma non sufficiente.

venerdì 31 agosto 2012

L'esperimento più lungo (*)


Nel 1718 in Inghilterra, Edmond Halley misurò per la prima volta il moto relativo delle stelle fisse. Il moto diurno delle stelle attorno all'asse polare era noto da sempre e osservabile da chiunque abbia un pò di pazienza. E' un moto angolare identico per tutte le stelle, tale da aver fatto pensare per tanti secoli alla presenza di una sfera celeste di cristallo rotante attorno alla Terra in cui tutte le stelle erano incastonate. Ben altra cosa è il loro moto relativo, quello che alla lunga modificherà la forma delle costellazioni e le renderà irriconoscibili. Anche solo ipotizzare questo tipo di moto porta immediatamente fuori dal modello dell'universo tolemaico, quello codificato intorno al 150 dopo Cristo nell'Almagesto e accettato per almeno 14 secoli.

Il problema sperimentale di questa misura è enorme e assolutamente irrisolvibile con gli strumenti a disposizione all'epoca di Halley. Il motivo è molto semplice: si tratta di moti relativi che per le distanze degli oggetti coinvolti risultano lentissimi e impercettibili. Tanto per capirci le costellazioni che conosciamo oggi, nella forma in cui le vediamo, sono note fin dall'antichità. I moti di cui stiamo parlando non solo non sono percepibili dai sensi nell'arco della normale vita umana ma neppure attraverso molte generazioni. Dunque in che modo Halley è riuscito nell'impresa?

Halley oltre che scienziato astronomo (scopritore della famosa cometa che porta il suo nome) era anche un filologo, studioso traduttore ed editore di testi antichi, latini e greci. Dunque conosceva molto bene l'Almagesto di Tolomeo e sapeva che l'opera del grande astronomo dell'età imperiale terminava con un catalogo stellare in cui erano state registrate con buona precisione le coordinate sferiche di molte stelle. Quindi Halley si limitò a ripetere le stesse misure con la massima accuratezza consentita dai suoi strumenti e a confrontarle con quelle riportate nel vecchio catalogo di Tolomeo. Questi due insiemi di misure erano separati da quasi 16 secoli di storia. In tal modo riuscì a rilevare entro gli errori sperimentali lo spostamento relativo di tre stelle molto luminose del cielo: Sirio, Arturo e Aldebaran.

Fin qui l'esperimento che Halley ha sempre creduto di aver condotto in piena autonomia e in un tempo relativamente breve. Tolomeo non poteva che essere totalmente inconsapevole del fatto che un giorno con le sue misure si sarebbe riuscito a mettere in luce il fenomeno del moto relativo delle stelle fisse, dal momento che questo non era assolutamente previsto dal suo sistema del mondo e dunque non era da lui neppure ipotizzabile.

Ma questa storia ha una seconda parte estremamente affascinante. Gli storici si sono chiesti, e hanno a lungo dibattuto, una questione apparentemente secondaria: le misure di Tolomeo erano originali oppure desunte da lavori precedenti? Il risultato di questo studio difficile ha portato alla conclusione che in realtà Tolomeo ha riportato misure fatte da Ipparco almeno 3 secoli prima, semplicemente correggendole della quantità necessaria a tener conto del fenomeno della precessione degli equinozi (un fenomeno di spostamento dell'intera sfera celeste rispetto all'asse polare già noto all'epoca e oggi ricondotto ad uno dei movimenti secondari della Terra, oltre ai due principali di rotazione e rivoluzione).

Chi era Ipparco? Nonostante non ci sia pervenuta nessuna sua opera (le conoscenze su di lui ci vengono tutte da fonti indirette) Ipparco viene riconosciuto come il massimo astronomo dell'età ellenistica, e probabilmente di tutto il mondo antico. Faceva parte di quella cerchia di grandi scienziati (tra i quali Euclide e Archimede) che hanno dato vita, tra il secondo e il terzo secolo avanti Cristo, al periodo di massimo sviluppo della scienza antica. I testi di questo corpus importantissimo di conoscenze erano tutti conservati all'interno della grande biblioteca di Alessandria, purtroppo devastata in più occasioni nel corso dei secoli successivi fino alla sua completa distruzione all'inizio del quinto secolo dopo Cristo ad opera dei cristiani (Ipazia, 415 d.C.).

Una delle caratteristiche dell'età ellenistica è stata quella di aver costruito una serie di conoscenze scientifiche che nella successiva età imperiale si sono in buona parte perse (o conservate molto male) e il cui recupero si è avuto solo dopo il Rinascimento, e in seguito nel periodo che ha visto la nascita della scienza moderna. In particolare ai fini della nostra storia è bene sottolineare che le conoscenze astronomiche di quel periodo erano certamente più avanzate di quelle codificate per secoli nell'opera di Tolomeo. Si parla di concezione eliocentrica (Aristarco di Samo), di moti della Terra, di Universo infinito, ecc. Non è un caso che il catalogo stellare di Tolomeo risulti essere poco più che una semplice copia di misure prese in questo periodo.

Ma quali sono le ragioni che avevano indotto Ipparco a costruire un catalogo stellare? Due di queste ragioni ci vengono riportate da Plinio il Vecchio e la seconda è incredibile. La prima fa riferimento al fatto che all'epoca di Ipparco erano apparse delle stelle "nove", che facevano pensare che il cielo non era poi così immutabile come sembrava. Quindi il catalogo aveva lo scopo di fotografare una situazione che sarebbe potuta cambiare nel tempo. La seconda si collegava ad una intuizione: secondo Ipparco era possibile che le stelle cosiddette fisse non fossero proprio esattamente fisse, ma avessero moti propri come si osservava per i pianeti. Questi ipotetici moti non si riuscivano ad osservare probabilmente perchè erano impercettibili ai sensi umani, lentissimi, magari a causa delle enormi distanze coinvolte. Questa intuizione era destinata a rimanere una congettura, non essendoci nessuna possibilità di verificarla sperimentalmente. Almeno non in un tempo confrontabile con la vita di un singolo scienziato ...

Probabilmente per Ipparco lasciare ai posteri un catalogo stellare significava mettere a disposizione un set di misure utilizzabili un giorno da qualcuno per stabilire finalmente con certezza se le stelle fisse hanno un loro moto proprio sulla sfera celeste. Quel qualcuno è effettivamente arrivato circa 19 secoli dopo, questa volta lui del tutto inconsapevole di aver terminato con successo un così lungo esperimento scientifico, forse il più lungo che la storia dell'uomo conosca.

(*) liberamente tratto da uno stralcio di una lezione del prof. Lucio Russo, storico della scienza.

sabato 25 agosto 2012

Il Modulor di Le Corbusier


Sulla facciata dell'Unité d'Habitation di Marsiglia è raffigurata una sagoma umana, gambe leggermente divaricate e braccio destro alzato sopra la testa. Al suo fianco una serie di tacche non equidistanti lungo tutta la sua altezza. Nessun commento. Il fatto che quella sagoma l'abbia voluta lì proprio Le Corbusier e che non sia accompagnata da nessun tipo di spiegazione desta ovviamente molta curiosità. Entrando dentro l'edificio e raggiungendo il piano dei servizi si incontra di nuovo, questa volta un po' più dettagliata, un pannello laterale ne fornisce una descrizione (in francese) e le dà un nome: Modulor.

Le cose che si capiscono sono sostanzialmente due:
1. la sagoma umana è stata suddivisa in una serie di altezze tramite l'utilizzo della sezione aurea.
2. da queste altezze Le Corbusier si è ricavato le dimensioni di tutto quello che progettava nell'edificio, dalle scale, ai soffitti, alle porte, le sedie, i tavoli, i piani di appoggio, ecc.

L'intento è quello di progettare ambienti a misura d'uomo, ergonomici, utilizzando fondamentalmente le misure naturali del suo corpo. L'idea è indubbiamente affascinante, fosse solo per il fatto che in tal modo si capisce bene che la progettazione architettonica ha un unico principio informatore, quello di creare uno spazio funzionale alla vita delle persone, funzionale in senso strettamente geometrico. Anche se a me sembra che proprio a causa di questo senso così "stretto" l'opera alla fine rischi di mostrare delle limitazioni (ma la questione del rapporto tra limitazioni autoimposte e l'espressione artistica è argomento complesso).

C'è qualcosa che però non mi torna in questo Modulor. In particolare mi incuriosisce come siano state ottenute le suddivisioni della sagoma del corpo umano, che a prima vista non sembra molto chiaro. Cerco di indagare e arrivo più o meno a queste conclusioni:
1. l'ombelico divide esattamente in due la sagoma, intesa dai piedi alla punta della mano del braccio alzato.
2. la metà che va dall'ombelico alla punta della mano è ulteriormente suddivisa in due parti dalla sommità della testa, questa volta non si tratta di due parti uguali ma di una suddivisione in "media ed estrema ragione", cioè di una sezione aurea.
3. la metà che va dai piedi all'ombelico risulta essere la somma dei due segmenti più piccoli (principio costruttivo della serie di Fibonacci) e presa insieme al segmento intermedio costituisce con esso un'altra sezione aurea (la sezione aurea ha delle proprietà veramente divertenti).

Ad essere onesti il Modulor sembra essere più una sagoma costruita su queste proporzioni e che incidentalmente somiglia anche ad un uomo...

Fin qui i segmenti ottenuti sono solo tre, e le misure di cui ha bisogno Le Corbusier per progettare tutti gli ambienti sono sicuramente molte di più. Dunque occorre inventarsi un modo per procurarsele. L'architetto procede grosso modo così:
1. considera la prima metà della sagoma umana (quella che va dai piedi all'ombelico) e usa la sezione aurea per suddividerla in modo iterativo (prende la sezione dell'intero segmento, poi considera la parte più grande ottenuta e la seziona nuovamente, e così via)
2. considera tutta la lunghezza della sagoma e la sottopone allo stesso procedimento iterativo
3. disegna insieme (affiancate) le due serie, assegna ad una il colore rosso e all'altra il colore blu.

Ma perchè fa questa cosa? Perchè questa e non un'altra? Tutte queste altezze non sembrano corrispondere a niente di preciso sulla sagoma umana disegnata a fianco. Se volessi progettare gli ambienti con criteri ergonomici questa potrebbe essere una soluzione ragionevole? Se volessi progettare ambienti geometricamente funzionali alla figura umana utilizzerei dei segmenti ricavati in questo modo?

Due ulteriori osservazioni sembrano portare su una strada un po' diversa. La prima è che su uno dei pannelli informativi trovati all'interno dell'edificio è riprodotta una foto che ritrae Le Corbusier insieme ad Einstein. All'epoca (anni quaranta/cinquanta) credo che molti intellettuali siano andati a Princeton a farsi fotografare con Einstein. Ma perchè lo ha fatto Le Corbusier? E perchè soprattutto viene riportata quella fotografia in un pannello che descrive il Modulor? La seconda è che su Internet scopro che Le Corbusier ha pubblicato ben due lavori teorici sul Modulor (che purtroppo non si scaricano liberamente) e in un documento che li commenta trovo la seguente frase, tratta proprio da uno di questi lavori: "Mathematics is the majestic structure conceived by man to grant him comprehension of the universe".

Insomma è abbastanza chiaro che quest'oggetto non sia tanto uno strumento di progettazione, per questo scopo appare anche piuttosto discutibile. Se volessi fare una progettazione con criteri ergonomici partirei forse da considerazioni un po' meno astratte. Peraltro se non ho capito male il suo stesso autore ha usato questo modello in non più di un paio di occasioni, successivamente lo ha abbandonato. Credo che il Modulor sia di per sè espressione di qualcosa. O almeno un tentativo.

Immagino che Le Corbusier avesse "le antenne" per captare la cultura del suo tempo. Forse aveva intuito le grandi potenzialità dell'indagine scientifica sul mondo e dei suoi strumenti specifici (la matematica in particolare) e avrà voluto fare un tentativo, a me pare ingenuo ma significativo, di trasportarli in altri ambiti della cultura umana.

martedì 26 giugno 2012

Io mi farei delle domande

La notizia di una bocciatura in seconda media mi ha fatto pensare. Più che altro ho pensato subito a come avrei reagito io come genitore. La cosa non è facile da immaginare. Ed è pure troppo facile da criticare, standone fuori. Quello che mi interessa me lo appunto qui, come promemoria (ma spero che non mi servirà in futuro ... :-)).

Io mi farei le seguenti domande:

1. E' arrivato alla bocciatura in modo consapevole o del tutto incosciente? La bocciatura è stata in buona parte un evento inaspettato e incontrollato? In questo caso la seconda domanda sarebbe "io dove stavo?". Ci sono varie sfumature tra l'opprimere i ragazzi con i nostri schemi di pensiero (che pure è un problema) e abbandonarli a costruirseli tutti da soli. E' necessario trovare un equilibrio difficile. Non ha senso controllare la sua crescita come fosse un bonsai, ma se sta per fare quella che io ritengo essere una bella cazzata è bene parlarne, e per tempo. Probabilmente la chiave di volta per evitare i due estremi sta soprattutto nel non fare muro tra la propria visione della vita e la loro, certamente diversa.

2. Ma supponiamo invece che la bocciatura sia in una certa misura il risultato di una scelta. Questo non può che significare che tale bocciatura viene percepita come un fatto secondario nella propria vita. La riflessione cambia direzione e la domanda diventa "come è possibile che non percepisca il valore della scuola?". Ma poi riprende gli stessi binari della precedente: "dove stavo io quando ha cominciato a maturare questa pericolosa indifferenza?". Se ripenso alle mie vecchie compagne di classe delle medie, ripetenti, mi vengono in mente persone più o meno in gamba come tutti ma che erano arrivate a vivere la realtà scolastica, e lo studio in generale (oddio!) come una cosa "esterna" alla loro vita.

Tra i 10 e i 20 anni (ragionando a spanne) si matura il pensiero razionale che, se ben coltivato, ci porta pian piano ad avere una nostra visione del mondo. Nostra e non di altri. Cosa vuol dire "ben coltivato"? L'ambiente in cui maturiamo credo debba favorire la curiosità, l'intuizione, lo spirito di osservazione, l'esercizio, lo studio, la conoscenza della nostra storia culturale. In questo elenco c'è uno spartiacque: le prime tre voci sono in buona misura elementi innati e certamente molto importanti ma le ultime tre (tutte da costruire col tempo) danno spessore e profondità al nostro pensiero. Le mie compagne di classe, certamente curiose e intuitive, hanno però avuto la sfortuna di perdersi questo pezzo di educazione. E con esso una parte della loro libertà.

domenica 8 aprile 2012

Che cos'è la Scienza?

Alla mia età capita di sentire molta retorica del "rimanere giovani": faccio questo perchè così mi sento più giovane, in certe cose non sono mai cresciuto, penso e mi comporto come un ragazzino, gioco ancora come quando avevo vent'anni, e via di questo passo. Dietro questa retorica credo ci sia semplicemente la paura di invecchiare, che è semplicemente quello che sta succedendo. L'unico contributo che mi sento di dare a questo desiderio di gioventù è quello delle "domande". Invecchiando ci si fanno meno domande, abbiamo certamente più risposte da dare, ma molte domande alla fine passano in cavalleria, ci si è rotti anche un po' i coglioni di farsele. Quindi farsi delle domande, e ragionarci su, magari tornandoci a riflettere dopo tanti anni è forse l'unico vero elemento di giovinezza che ha un senso mantenere.

Giorni fa, sfogliando Internet per altri motivi, mi imbatto in un estratto di un libro di Feynmann, "Il piacere di scoprire", che non ho mai letto. Il brano si interroga su cosa è la Scienza, un'attività in cui Feynmann ha speso gran parte della sua vita. Mi colpisce la freschezza del ragionamento, la spontaneità (forse solo apparente, non so) con cui viene affrontato l'argomento, e vorrei appuntarmi qualcosa in questo post (così se mi dovessi ridomandare in seguito cos'è la Scienza vengo a rileggermelo ....).

Lo scienziato si rivolge ad una platea di insegnanti di scuola elementare e la prima osservazione che colpisce riguarda il commento ad un libro di testo e le successive considerazioni su come non dovrebbe essere insegnata la scienza, che contiene già in parte una definizione della stessa: "Questo libro per la scuola elementare fin dalla prima lezione insegna la scienza in maniera infelice, poichè parte da una concezione sbagliata di scienza. C'è il disegno di un cane, un giocattolo a molla, una mano carica la molla e il cane comincia a muoversi. Sotto l'ultimo disegno si legge la domanda: 'Che cosa lo fa muovere?'. Segue il disegno di un cane vero e la domanda: 'Che cosa lo fa muovere?'. Dopo si vede il disegno di un ciclomotore con la didascalia: 'Che cosa lo fa muovere?'. E così via. Subito pensai che gli autori si preparassero a dire di che cosa si occupa la scienza: fisica, biologia, chimica. Ma non era così. La risposta si trovava nell'edizione per l'insegnante. La cosa che avrei dovuto imparare era: 'Lo fa muovere l'energia'. L'energia è un concetto sottile. Non è facile capire l'energia abbastanza bene da usarla nel modo giusto, così da giungere a conclusioni corrette. E' una cosa che supera la portata della scuola elementare. Sarebbe stato lo stesso se avessero detto: 'Lo fa muovere Dio' o 'Lo fa muovere lo spirito' o anche 'Lo fa muovere la mobilità'. (In realtà è altrettanto corretto dire: 'Lo fa fermare l'energia'). [...] Supponiamo che un ragazzo dica: 'Non ci credo che sia l'energia a farlo muovere'. Che cosa gli risponderete? [...] Penso che imparare nella lezione numero uno una formula mistica come risposta alle domande sia proprio la cosa peggiore."

Successivamente tratteggia una specie di storia dell'umanità, o di storia del pensiero, che culmina in queste poche frasi: " [...] il possedere una memoria della specie, avere un bagaglio culturale che si può tramandare da una generazione all'altra, era una grande novità, ma soffriva di una malattia. Era possibile trasmettere idee sbagliate. [...] Così giunse un momento in cui le idee, benchè si accumulassero molto lentamente, divennero un ammasso in cui non tutto era utile o pratico, cumuli di pregiudizi di ogni tipo, di credenze strane e bizzarre. E poi si scoprì un sistema per evitare la malattia. Il sistema consiste nel dubitare che ciò che viene tramandato sia vero; nel cercare di scoprire ab initio, di nuovo partendo dall'esperienza, quali siano i fatti piuttosto che prendere per oro colato l'esperienza di chi ci ha preceduto. Ecco che cosa è la scienza: il risultato della scoperta che vale la pena verificare di nuovo tramite nuovi esperimenti diretti, senza necessariamente fare affidamento alle conoscenze della specie. Io la vedo così. Questa è la migliore definizione di 'scienza' che io sappia dare".

Poi torna a rivolgersi agli educatori e li esorta all'insegnamento del libero pensiero, visto come elemento necessario per costruire la conoscenza senza cadere vittima di nessuna autorità: "Un'altra caratteristica della scienza è che insegna il valore del pensiero razionale e l'importanza della libertà di pensiero, come pure la necessità di dubitare, di non dare per scontata alcuna verità. [...] Voi maestri che, alla base della piramide, insegnate davvero ai bambini, fareste bene a dubitare talvolta degli esperti. La scienza vi dice che dovete farlo. In effetti un'altra definizione di scienza potrebbe essere: la scienza è la fede nell'ignoranza degli esperti. [...] Chi dice che la scienza insegna questo e quello usa la parola 'scienza' in modo scorretto. A insegnare è l'esperienza. Se vi dicono che la scienza ha mostrato una certa cosa, potreste chiedere: 'E come lo ha dimostrato, in che modo lo scienziato lo ha scoperto - come, dove e quando?'. Non è stata la scienza, ma questo esperimento, questo fenomeno. E voi avete esattamente lo stesso diritto di chiunque altro, quando sentite parlare degli esperimenti (ma dobbiamo porre attenzione a tutte le prove) di decidere se si è giunti ad un risultato che può essere registrato e usato di nuovo". [...] Viviamo in un'epoca in cui quasi tutte le parole sventolate nei mezzi di comunicazione, nella televisione, nei libri e così via non sono di marca scientifica. Non significa che siano tutte sbagliate, ma non sono scientifiche. Il risultato è l'esercizio, in nome della scienza, di una tirannia intellettuale di notevole entità".

La conclusione individua forse l'elemento chiave della cultura scientifica, un atteggiamento da trasferire alle generazioni future, quello che le consente di rinnovarsi, di correggersi e di trovare nuove direzioni: "Ogni generazione ha il dovere di tramandare il frutto della propria esperienza, ma lo deve fare nei limiti di un delicato bilancio di rispetto e irriverenza, così che la nostra specie (ora che è cosciente della malattia cui va soggetta) non imponga con troppo rigore i propri errori ai giovani, ma tramandi la saggezza accumulata assieme alla consapevolezza che essa potrebbe non essere saggezza. E' necessario insegnare ad accettare e insieme a rifiutare il passato, esercitando un gioco di equilibrio che richiede molta abilità. Di tutte le discipline la scienza è l'unica che racchiude in sè stessa il monito sul pericolo costituito dalla fede nell'infallibilità dei più grandi maestri della generazione precedente".

lunedì 12 marzo 2012

Che fine hanno fatto tutti quanti?

E' nota la formulazione del cosiddetto "paradosso di Fermi", con cui il grande scienziato sintetizzava la coesistenza di due fatti apparentemente inconciliabili, la probabilità molto alta che in un universo così vasto esistano altre civiltà tecnologicamente sviluppate come e più della nostra e l'assenza totale di una qualsiasi, pur piccola, traccia della loro presenza: "... dove sono tutti quanti?". Forse questa è l'osservazione più autorevole a cui hanno fatto seguito tentativi più o meno maldestri ma anche molto seri (vedi il progetto SETI) di entrare in contatto con intelligenze extraterrestri.

Una mostra visitata qualche giorno fa mi ha in un certo senso ribaltato completamente la questione osservando che in realtà l'uomo (terrestre) proviene da un mondo dove la convivenza con "altre umanità" è stata per lungo tempo la norma. La strana sensazione di entrare in contatto con una specie biologica intelligente ma diversa, che ci piacerebbe tanto provare, qualcuno di noi in un lontano passato l'ha già provata. Oggi possiamo dire che l'ambito terrestre è decisamente ristretto rispetto alle dimensioni dell'universo conosciuto ma, viste le conoscenze dei nostri antenati, non credo che questo elemento sia così significativo.

La mostra chiamata "Homo Sapiens, la grande storia della diversità umana", curata da Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani, presente a Roma fino a Pasqua, ha parecchi aspetti interessanti: l'eva mitocondriale e l'orologio molecolare, le derive genetiche determinate dai progressivi spostamenti di piccoli gruppi umani verso le periferie delle regioni popolate e il conseguente "effetto del fondatore in serie", i colli di bottiglia evoluzionistici, le corrispondenze sorpendenti tra la distribuzione geografica delle diversificazioni dei popoli e quello delle famiglie linguistiche. Insomma una ricchezza di temi ben difficile da sintetizzare. Sullo sfondo il racconto incredibile di un'evoluzione, quella dell'Uomo, determinata in massima parte da fattori ambientali contingenti ma decisivi: la siccità sempre più accentuata delle pianure africane da cui proveniamo, le grandi (e ultime) glaciazioni del quaternario, il conseguente abbassamento del livello dei mari, la comparsa di lingue di terra che univano praticamente tutti i continenti. Molti di questi fattori hanno costretto (e favorito) i nostri antenati a lunghe e incessanti migrazioni sul pianeta, durate decine di migliaia di anni, e che probabilmente hanno determinato molti dei nostri caratteri principali come specie: curiosità, ingegno, socialità, desiderio di conquista. Alla fine ne esce una storia affascinante fatta molto più di contingenza che di necessità. Una storia che, per capirci, in ogni suo momento poteva prendere strade completamente diverse da quelle che effettivamente ha preso, e che hanno portato fino a noi.

C'è un aspetto però che mi ha particolarmente colpito, forse per il suo carattere un po' misterioso di problema ancora non risolto. L'evoluzione come si sa non ha una direzione o un fine, questa è un'ottica non contenuta nei meccanismi selettivi conosciuti. Non esiste il concetto di progresso verso specie sempre più perfette, esiste semmai quello di adattamento all'ambiente esterno. Questo vale ovviamente anche per l'evoluzione dell'uomo. Non esiste nella nostra storia evolutiva l'evidenza di un progressivo miglioramento dai primi ominidi fino a noi, elemento finale di una catena di sviluppo lineare. Esistono invece linee evolutive complesse, ramificate, diversificate e concorrenti, in linea con l'idea di una evoluzione che "esplora" tutti i terreni possibili, "inventa" tutte le soluzioni possibili e seleziona contemporaneamente tutte quelle che si rivelano vantaggiose. Il risultato, nel nostro caso, è quello di avere avuto nel passato tante "specie umane" conviventi. La mostra ce ne fa un elenco piuttosto preciso (ma chissà se completo). In un tempo relativamente recente, circa 40 mila anni fa, convivevano nelle stesse regioni terrestri almeno 5 specie umane. Tra queste la nostra (Homo Sapiens), l'uomo di Neanderthal (diffuso soprattutto nelle regioni europee) e l'uomo di Flores (detto anche Hobbit per le sue dimensioni ridotte, diffuso in Indonesia).

L'aspetto curioso è il fatto che a partire da circa 12000 anni fa non si ha più traccia delle altre specie umane, la nostra è l'unica sopravvissuta. Sulle motivazioni di questo importante fatto la mostra non sembra essere altrettanto ricca di particolari, forse perchè i motivi rimangono in gran parte misteriosi, ancora da capire. Non sembra essere stato lo sviluppo dell'agricoltura, che certamente avrebbe dato una grande spinta alla crescita demografica della specie che ci fosse arrivata per prima a tutto svantaggio delle altre, perchè in realtà sembra che all'epoca di questo sviluppo la nostra specie era già sola. Non sembra essere stata la superiorità intellettiva di una specie sulle altre, perchè questa superiorità non risulta così evidente (seppure non si può escludere). Non sembrano esserci stati scenari violenti di sterminio fisico di una specie sull'altra, anzi risultano più probabili situazioni di lunga e pacifica convivenza (fino addirittura a rendere plausibile casi di ibridazione, in particolare con l'uomo di Neanderthal).

L'unica spiegazione abbozzata dalla mostra è quella che da alcuni indizi fisiologici sembra che il nostro apparato vocale fosse l'unico in grado di far emettere quella varietà di suoni che risultano indispensabili allo sviluppo di un linguaggio complesso. E' chiaro che nessun adattamento può competere con la trasmissione rapida di informazioni che un linguaggio vocale può permettere, e con tutti i vantaggi di apprendimento sociale che ne derivano. Il nostro destino di specie dominante sul pianeta sembra così legato ad un insieme di caratteri secondari, sviluppati per chissà quali ragioni, che da un certo punto in poi vengono utilizzati per produrre un elemento nuovo dotato di un vantaggio evolutivo schiacciante. Di lì a poco comincerà la Storia.

giovedì 16 febbraio 2012

Passeggiata in libreria

Avevamo un appuntamento al centro quel pomeriggio, siamo arrivati un po' prima e con la mia famiglia siamo entrati in una grande libreria. Veramente io ricordavo che molti anni prima quel negozio era occupato dalla Ricordi, e io ci andavo per comprare edizioni musicali (libri di musica). Ora c'è una Feltrinelli e le edizioni musicali sono scomparse. Quando la Feltrinelli acquistò Ricordi era molto probabilmente interessata alla catena di negozi e non alle edizioni musicali. Fatto sta che ero un po' contrariato, un negozio in meno in cui poter trovare spartiti. Poco male, adesso si compra tutto su Internet e addirittura molte edizioni del repertorio classico essendo fuori dal copyright sono liberamente scaricabili.

Decido quindi di farmi un giro, sbircio qua e là, non cerco nulla di preciso. Ovviamente, come sempre mi capita quando sono in una nuova libreria, vado a curiosare negli scaffali del settore scientifico e tecnologico ... ma non lo trovo! Caspita, non c'è, proprio non c'è! La libreria è molto grande, si articola su due piani, e più o meno come tutte le altre librerie Feltrinelli ha settori di musica, cinema, videogiochi (il multimedia) e una parte di libreria tradizionale. Una grossa parte del settore libri è sotto la dicitura generale "Scienze Umane", in cui c'è di tutto: storia, politica, diritto, economia, religioni, esoterismo, ecc. Tra gli scaffali scorgo anche mezzo metro dedicato all'informatica ma è inguardabile (il solito paio di manuali sul C e su Java, affiancati da quelli sull'ECDL o sull'uso di Windows o dell'iPhone). Niente sulle "Scienze Disumane" (si chiameranno così?).

Perchè una libreria così grande al centro di Roma decide di non avere un settore di pubblicazioni scientifiche? Avrà fatto un'indagine di mercato? E cosa sarà uscito fuori da questa indagine? Sotto c'è il solito problema culturale di sempre? Ma è mai possibile in una società come la nostra? Non ci posso pensare ...

La reazione a questa cosa me la immaginerei così: la scienza e la tecnologia sono settori per specialisti, loro stesse sono piene di sottobranche ormai altamente specializzate, dunque la loro naturale collocazione sono le librerie specializzate, in una libreria generica non riescono a trovar posto e se lo trovano è misero e poco interessante (vedi scaffale sull'informatica).

Io trovo addirittura pericoloso questo tipo di ragionamento. Dare a qualcuno o a qualcosa una collocazione così precisa e circoscritta, sia pure nobile, significa principalmente toglierselo dalle scatole. Mi viene da pensare alla vecchia frase "la donna è la regina della casa", apparentemente un modo per valorizzare la donna ma di fatto (anzi, proprio per questo) una frase di profondo razzismo, che è servita, e forse in parte serve ancora, ad assicurarsi di non avere le donne tra i piedi in tutti gli altri ambiti sociali. Evidentemente quando ci occupiamo di cultura non vogliamo la scienza e la tecnologia tra i piedi, anche se hanno costruito e costruiscono il mondo in cui viviamo (o forse proprio per questo?).

venerdì 10 febbraio 2012

Comma

Le mie prime lezioni di musica le presi tanti anni fa da un conoscente di famiglia. Io volevo studiare pianoforte e lui mi avrebbe dato le prime lezioni di teoria e qualche lezione di strumento, visto che aveva un pianoforte in casa.

Ma lui era un violinista. A parte il suo invito una volta a provare il suo strumento, e la conseguente mia frustrazione nel constatare che non riuscivo in nessun modo a tirar fuori una nota pulita, ricordo che il fatto che fosse un violinista si collegava a qualche sua strana osservazione sulla musica che successivamente, con l'insegnante di pianoforte, non ebbi più modo di sentire. Si tratta di ricordi un po' vaghi in quanto le sue erano osservazioni forse non così importanti per quello che stavamo studiando, e poi perchè onestamente non mi erano molto chiare. Probabilmente però mi avevano incuriosito perchè da qualche parte nella testa le ho conservate e solo molto tempo più tardi me le sono ritrovate tra i miei interessi personali sulla musica.

Diceva cose del tipo: "le note sul pianoforte sono già stabilite, devi solo premere il tasto corrispondente; sul violino invece vanno costruite, non c'è scritto dove stanno, le devi cercare tu con l'orecchio". Poi aggiungeva: "lo sai per esempio che RE# e MIb in realtà non sono esattamente la stessa nota?", questa frase suona a dir poco strana se hai come riferimento la tastiera del pianoforte, dove le due note, seppur con nome diverso, corrispondono esattamente allo stesso tasto nero. Oppure in un'altra occasione se ne usciva dicendo: "anche se RE-RE# e RE#-MI li chiami entrambi semitoni in realtà sono due intervalli differenti". Infine da lui sentii usare per la prima volta (e per molto tempo l'unica) la parola comma: "l'intervallo RE-Mib (semitono diatonico) è pari a 4 comma, l'intervallo RE#-MI (semitono diatonico) è pari anch'esso a 4 comma. I corrispondenti semitoni cromatici (RE-RE# e MIb-MI) sono pari invece a 5 comma. Dunque tra RE# e MIb c'è un comma di differenza". Quest'ultima frase l'ho ricostruita a posteriori, ma sono sicuro che mi diceva una cosa del genere. Tra l'altro si tratta di un'affermazione imprecisa (perchè il comma ha una definizione diversa), anche se rende bene l'idea.

Effettivamente dietro queste oscure considerazioni c'è un pezzo di storia della musica. E' una questione troppo lunga da raccontare in un post e ha alimentato un vasto elenco di pubblicazioni di carattere sia tecnico che storico. Proprio la recente lettura di una di queste pubblicazioni mi ha riportato sull'argomento. Voglio provare a dare l'idea con poche osservazioni (un tentativo di sintesi, come mio solito).

Si può cominciare con una domanda: "come sono state scelte le note della tastiera?", o anche, "come si costruisce la scala musicale?". Ovviamente la cosa interessante di una scala musicale sono gli intervalli, non le note in sè. L'intervallo più intuitivo è sicuramente l'ottava. E' talmente "naturale" che spesso non lo si avverte nemmeno; cantare un'ottava sopra o sotto anzichè all'unisono è estremamente spontaneo, se si vogliono mettere insieme voci maschili con voci femminili o infantili. Per di più è anche molto semplice definirla in modo operativo: due suoni ad intervallo di ottava li ottengo facendo vibrare due corde dello stesso materiale ma con lunghezze che stanno tra loro nel rapporto 1/2.

Come si può andare avanti a determinare altri gradi della scala? Ad esempio usando corde con lunghezze che stanno tra loro come rapporti di numeri interi piccoli (considerazioni del genere risalgono alla scuola pitagorica). Due rapporti importanti sono 2/3 e 3/4, che corrispondono all'intervallo di quinta (DO-SOL) e di quarta (DO-FA). Poichè la frequenza del suono prodotto con corde di materiale identico è inversamente proporzionale alla lunghezza delle corde stesse possiamo dire che partendo dal DO (cioè da una frequenza qualsiasi) si ottiene il FA (la quarta della scala) moltiplicando la frequenza per 4/3, il SOL (la quinta della scala) per 3/2 e il DO superiore (l'ottava) per 2. Inoltre ci accorgiamo che il SOL divide l'ottava in una quinta (DO-SOL) e una quarta (SOL-DO), infatti 3/2*4/3=2. Analogamente il FA divide l'ottava in una quarta e una quinta.

Un modo per proseguire (non l'unico ma storicamente il primo e forse il più importante) è quello di sommare quinte su quinte riportando quello che si ottiene sulla singola ottava. Ad esempio se sommo una quinta al DO ottengo il SOL, se sommo una quinta al SOL ottengo il RE dell'ottava successiva che posso riportare sull'ottava iniziale semplicemente dividendo per due (abbassando di un'ottava la nota ottenuta): 3/2*3/2*1/2 = 9/8. Andando avanti con questo schema di calcolo si possono ottenere tutte le note della scala: DO (1) - RE (9/8) - MI (81/64) - FA (4/3) - SOL (3/2) - LA (27/16) - SI (243/128) - DO (2). Si ottengono anche i diesis e i bemolli (i tasti neri del pianoforte) che per semplicità non scrivo.

Questa procedura è piuttosto semplice e sembra risolvere il problema del calcolo della scala, inoltre fornisce implicitamente anche un metodo per accordare il pianoforte attraverso l'iterazione di quinte e di ottave. Ma non funziona! Per vederlo è sufficiente osservare che andando avanti con il cosiddetto "ciclo delle quinte" si ottengono tutte e dodici i gradi della scala del pianoforte (tasti bianchi e neri) fino a ritornare sul DO, sette ottave più in alto, che è proprio quello che ci ha permesso di calcolare tutte le frequenze. Ma è proprio vero che riottengo esattamente un DO alla fine del ciclo? Purtroppo no, come è facile vedere con il calcolo seguente: la frequenza di dodici quinte sovrapposte è pari a (3/2)^12, mentre il DO che raggiungo dovrebbe avere frequenza 2^7. Il loro rapporto non è 1 come sarebbe auspicabile, bensì 531441/524288, un po' più di 1. Tecnicamente questa discrepanza si chiama comma (pitagorico).

Mi fermo qui, ma questa piccola discrepanza (e altre simili, in parte contenute nelle considerazioni del mio insegnate di violino) è stata nel corso della storia fonte di parecchi problemi, sia teorici (come si può definire la scala?) sia pratici (come posso accordare uno strumento a tastiera senza avere "note stonate"?). Le soluzioni sono state tante, tutte chiamate genericamente "temperamenti". Su tutte ha infine prevalso la soluzione di compromesso più elegante dal punto di vista matematico e più efficacie del punto di vista pratico, costituita dal cosiddetto "temperamento equabile", con cui è stata prodotta la quasi totalità dell'immensa letteratura musicale occidentale fino ad oggi.

giovedì 2 febbraio 2012

Verifica o scoperta?

Ieri mio figlio torna a casa con un compito scolastico da svolgere: deve fare l'esperimento della candela che piano piano si spenge sotto una campana di vetro. Tutto è descritto in una pagina del suo libro di scuola, con figure chiare e ben fatte. La candela è posta in una bacinella d'acqua, mano mano che la combustione va avanti il livello dell'acqua dentro la campana di vetro sale, fino ad un certo punto, quando la candela si spenge. Ci divertiamo a fare l'esperimento, che riesce brillantemente. Tutti contenti.

Si tratta poi di interpretare quello che abbiamo visto. Mi accorgo che nella pagina precedente viene descritta con una certa precisione la composizione dell'aria: azoto, ossigeno, anidride carbonica, vapore acqueo, nelle proporzioni illustrate da un diagramma a torta. In fondo alla pagina successiva, quella che illustra l'esperimento, c'è scritto più o meno che la combustione della candela brucia l'ossigeno dell'aria e l'acqua, salendo nella campana, prende il suo posto.

Ma non era meglio metterla diversamente? Il diagramma a torta dà un'informazione troppo precisa, assolutamente al di là delle possibilità di indagine fornite dall'esperimento, e la fornisce prima dell'esperimento. Viene data prima anche l'informazione che l'ossigeno è l'unico elemento coinvolto nella combustione. Tutto l'esperimento diventa così una specie di verifica di quanto si è già spiegato. Praticamente il libro mi ha già detto tutto prima, e con un livello di dettaglio che non potendo uscir fuori dal semplice esperimento che sto facendo, chissà da dove viene fuori! In questo modo la fase (creativa) dell'interpretazione di quanto è successo diventa una storiella da imparare a memoria.

Secondo me la cosa funzionava meglio in questi termini: io non so come è fatta l'aria, so solo che esiste. Scopro però che l'aria è necessaria alla candela che brucia, un po' come per noi che la respiriamo. Basta infatti coprire la candela con un bicchiere per vedere la candela spengersi in breve tempo. Perchè succede? Evidentemente consuma aria. La candela sotto il bicchiere dopo un po' "soffoca". Se adesso metto tutto in una bacinella vedo meglio quello che succede, l'acqua sale fino ad un certo punto. Sembrerebbe che la candela abbia consumato solo una parte dell'aria, eppure si è spenta lo stesso. Cosa possiamo immaginare? Forse che l'aria è fatta di tanti elementi diversi, e la combustione ne ha usato solo uno. Come quando si passa a setaccio una sostanza che ad occhio appare omogenea, il setaccio ci mostra che invece è composta da sostanze con consistenze diverse, e seleziona quella che non passa, quella più densa. Bene, quella sostanza dell'aria che è servita alla candela per la combustione decidiamo di chiamarla Ossigeno. Inoltre guardando l'altezza a cui è arrivata l'acqua e confrontandola con il volume totale possiamo capire in che percentuale l'ossigeno è presente nell'aria. Il diagramma a torta possiamo disegnarlo noi!

L'esperienza descritta è comunque "guidata", peraltro la trattazione risulta essere sicuramente più imprecisa, meno dettagliata e meno fedele alla realtà di quella riportata sul libro. Ma secondo me ha il merito di sforzarsi di comunicare il "senso della scoperta", decisamente più stimolante dal punto di vista intellettuale, e decisamente più efficacie nel trasmettere la cultura scientifica che c'è sotto. Faccio notare che è anche più simile, magari solo nell'atteggiamento generale, a quello che è successo storicamente.

Ho provato con mio figlio a ribaltare la questione secondo il mio modo di vedere ma non mi è sembrato che la cosa abbia funzionato granchè, aveva già in parte imparato la spiegazione del libro e forse sono arrivato troppo tardi.