venerdì 31 gennaio 2020

Gianpaolo Pansa e la pseudoscienza

La recente scomparsa di Gianpaolo Pansa mi ha fatto ripensare a Oriana Fallaci. Il clima di ricordi, commemorazioni e contenstazioni è molto simile. Anche lui è stato un giornalista che nell'ultima parte della sua vita ha assunto un atteggiamento discutibile su argomenti che toccano la sensibilità dell'opinione pubblica. In particolare ha scritto negli ultimi vent'anni una serie di libri di successo denominati "il ciclo dei vinti" in cui propone una sorta di revisionismo dei fatti storici legati alla Resistenza che rivaluta chi uccise e morì per la Repubblica di Salò ("i vinti") e denuncia i crimini consumati dai partigiani nei confronti dei fascisti. E lo fa con l'autorità, la credibilità e la fama dello storico e giornalista di sinistra.

Ora io non sono particolarmente interessato a questo fatto e non ho letto, né ho intenzione di farlo, i libri di Pansa su questo argomento, così come non ho letto nulla della Fallaci, né prima né dopo la sua dura presa di posizione nei confronti della cultura islamica. C'è però un fatto nella vicenda di Pansa e nelle critiche che gli vengono rivolte che mi ha colpito, anche se non posso dire granchè sulla loro fondatezza dal momento che non ho un'esperienza diretta di quello che ha scritto (e poco anche di quello che ha detto a suo tempo in interventi su giornali e televisioni).

Se si vuole "revisionare" un certo periodo storico, cioè introdurre interpretazioni nuove dei fatti o integrare le interpretazioni comunemente accettate, occorre produrre un lavoro di ricerca storica basato su fonti nuove, non ben prese in considerazione o non sufficientemente valutate, estrapolarne un'analisi e sottoporla alla comunità degli specialisti, usando il normale circuito di comunicazione delle pubblicazioni di settore, per sollevare un dibattito tra gli storici che si occupano attivamente di quel periodo. Eventualmente poi, se la questione prende corpo è naturalmente in grado di travalicare il ristretto gruppo degli studiosi per raggiungere, attraverso articoli o dibattiti sui media, il pubblico più generico delle persone colte.

Questo è esattamente quello che ci si aspetta da un qualsiasi studio di natura scientifica. I libri di Gianpaolo Pansa invece, per quello che ho dedotto dalla lettura di vari commenti, sembrerebbero essere una via di mezzo tra un saggio e un romanzo (con anche personaggi e situazioni in parte inventate e comunque descritte in maniera romanzesca, indugiando su particolari non verificabili, elaborati in senso letterario) e soprattutto sono chiaramente destinati ad un pubblico generico (venivano e vengono tuttora venduti anche negli autogrill). Non sono studi specialistici sottoposti alla comunità scientifica, e questo secondo una scelta deliberata del loro autore che pure aveva una formazione da storico e certamente sapeva come condurre uno studio di ricerca storica (Pansa si era laureato in storia con Guido Quazza, uno dei migliori storici della Resistenza, e aveva praticato egli stesso la ricerca storica con ottimi risultati).

I suoi libri sono in pratica l'equivalente di ciò che potrebbe pubblicare un buon divulgatore scientifico su un qualche tema importante della scienza moderna, con la differenza che in quest'ultimo caso l'argomento scientifico in questione sarebbe ben acquisito dalla comunità scientifica e semplicemente raccontato in modo più o meno efficacie ad un pubblico più vasto e di buon livello culturale. Senza la pretesa (insensata) di essere un contributo originale.

Ma proprio per la sua pretesa di dare un contributo originale all'interpretazione dei fatti storici, il lavoro di Pansa sul ciclo dei vinti risulta probabilmente classificabile come un episodio di pseudoscienza. Almeno mi pare che ne abbia le caratteristiche principali. La pseudoscienza in genere consiste nel comunicare delle verità scientifiche originali (presunte) senza usare i mezzi, le modalità e il linguaggio della comunità scientifica, e soprattutto rivolgendosi non agli specialisti ma al grande pubblico, che ovviamente non ha la preparazione tecnica adeguata a recepire le novità di una disciplina e una buona parte di esso non ha neppure una preparazione culturale di base. La pseudoscienza sceglie deliberatamente di rivolgersi non alla parte razionale dell'uomo ma alla sua parte emotiva. Non è un caso che le discipline scientifiche più invase dalla pseudoscienza sono quelle che riguardano la salute, argomento che ovviamente tocca l'emotività di tutti.

Quelli di Pansa sono degli scritti che pretendono di modificare in modo significativo una conoscenza storica senza portare elementi documentati e oggettivi da sottoporre agli addetti ai lavori ma facendo leva solo sull'appeal emotivo delle storie raccontate a cui è esposto il grande pubblico largamente impreparato, ignaro della storiografia sull’argomento e senza strumenti culturali adeguati. Questo ha portato qualcuno ad affermare che i suoi libri consistono in pratica in "una continua, abile, suggestiva manipolazione dei fatti che mira a costruire, nella percezione del pubblico, un sostanziale falso storico".

Come la pseudoscienza costruisce un falso scientifico ad unico beneficio di chi lo diffonde (vedi ad esempio l'episodio del metodo Stamina di Davide Mannoni) anche in questo caso si costruisce un falso storico a beneficio di chi ci scrive sopra ben sei libri diversi e vende centinaia di migliaia di copie.

giovedì 2 gennaio 2020

Un "caso" italiano

In questo periodo di ferie un po' deprimente ho pensato di metterci il carico leggendo l'inizio di un libro di Enrico Bellone che tenevo in libreria da tempo, "La scienza negata", in particolare la sua prima parte "Cronaca di un disastro programmato". Bellone racconta in breve la storia del nostro declino culturale, specialmente di quello scientifico e tecnologico. Il declino è deliberatamente e scientemente "programmato" sin dall'indomani dell'unità d'Italia, alla fine dell'ottocento. "Tutti sapevano -scrive Bellone- in quel finire di secolo, che le grandi nazioni europee stavano potenziando le strutture materiali della ricerca e incentivando le risorse umane da inserirvi. Ma si credeva, anche, che l'Italia se ne sarebbe poi avvantaggiata, facendo proprie le acquisizioni che inglesi o tedeschi avrebbero, a proprie spese, realizzato. Un errore classico, ma tipico di una cultura arretrata e di una classe dirigente che di quella cultura era, nello stesso tempo, il risultato e lo specchio".

Già l'inizio non è incoraggiante, successivamente si legge ancora di peggio. Ad esempio il breve racconto della controversia nei primi anni del novecento tra il matematico Federigo Enriquez e Benedetto Croce sulla valenza culturale delle ricerche scientifiche, con la vittoria di quest'ultimo, che coniava in quel periodo l'espressione "ingegni minuti" riferito a chi era coinvolto in attività scientifiche, e che successivamente ritornò imperterrito sullo stesso argomento con le stesse convinzioni, "le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona grazia hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità, ed esse rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente da vedere con la meditazione del vero" (Croce, 1952).

Poi arriva il fascismo, e qui ci sarebbe ben poco da dire, basterebbe osservare quanta gente di grande valore scientifico è stata messa a tacere e costretta ad abbandonare l'Italia soprattutto in seguito alle leggi razziali (e con questo abbiamo fatto insieme ai nazisti la fortuna degli Stati Uniti per tutto il XX secolo). Bellone rileva anche più semplicemente gli obiettivi utilitaristici e miopi del regime fascista, "prevalente fu subito il punto di vista secondo cui la scienza aveva solo valori di tipo pratico. Ne seguiva la scelta di promuovere, non la ricerca libera, ma la cosiddetta 'scienza applicata'". Questa chiave utilitaristica della scienza ha avuto certamente un impatto nei criteri organizzativi dell'attività di ricerca ma forse a lungo termine anche un impatto culturale che si è protratto nei periodi successivi al fascismo.

Ma forse l'episodio peggiore, o meglio la catena di episodi peggiori riportati nel breve resoconto di Bellone, si sono verificati nel dopoguerra, durante il corso degli anni sessanta. Troppo lungo riportarli nel dettaglio ma si tratta di una serie di fatti molto gravi e poco chiari che hanno coinvolto Enrico Mattei (precipitato in aereo nel 1962, "di fatto, la morte di Mattei fu provvidenziale per tutti coloro i quali pensavano che l'Italia non dovesse affrancarsi dall'egemonia dei pertrolieri"), Felice Ippolito (rimosso dal CNEN e arrestato) e Domenico Marotta (rimosso dall'Istituto Superiore di Sanità e arrestato). "Il discredito che era stato sparso sulla comunità scientifica italiana e l'opinione, diffusa ad arte, che negli enti di ricerca il potere fosse nelle mani di truffatori, avevano avuto una fonte nel tentativo di frenare quelle modernizzazioni del paese che erano in contrasto con ben precisi interessi economici sui fronti dell'energia e dei farmaci". L'opinione di un importante scienziato come Edoardo Amaldi, uno dei pochi rimasti in patria nel dopoguerra e artefice negli anni cinquanta di una ripresa incoraggiante dell'attività scientifica a livello italiano ed europeo, era che l'Italia aveva subito una sconfitta pari a quella di Caporetto.

Qua e là nel testo vengono anche richiamati atteggiamenti culturali delle forze di sinistra di allora che probabilmente hanno contribuito anche loro, volontariamente o meno, a "declassare" la scienza. "Maccacaro riteneva che la connessione tra scienza e potere fosse basilare per il capitalismo avanzato e che non avesse più senso distinguere tra ricerca e sfruttamento. Citava a questo proposito Marcello Cini, secondo il quale 'non è più possibile separare l'oggetto del nostro atto di conoscenza dalle ragioni di questo atto': e le ragioni erano riposte nelle multinazionali".

Insomma un quadro politico e culturale disastroso. Le parole di Giulio Toraldo di Francia (pronunciate già negli anni settanta) mi suonano tanto drammatiche quanto purtroppo attuali: "Quello che si vuole allontanare dalla scuola e dal periodo formativo delle giovani generazioni sono l'indagine, la curiosità e l'esigenza rivoluzionaria che si accompagnano sempre con la scienza", "La paura della scienza è ormai un dato culturale spontaneo, insito in certe nostre classi dominanti. La scienza è nemica e deve essere emarginata", "L'Italia è un paese in via di sottosviluppo. Siamo in una situazione tragica. Qualcuno potrà dire che si può ancora correre ai ripari. Io sono molto pessimista. Credo che sia abbastanza tardi per correre ai ripari. Io vedo già una tradizione scientifica come la nostra, portata ad alto livello grazie all'impegno e al valore di pochi, che viene dispersa e finirà con lo scomparire. Vedo già l'Italia dipendere, nel campo del progresso scientifico, da ciò che avviene all'estero. Da noi si comprerà solo il prodotto finito".

Sono gli anni settanta, da qui in poi arrivo io. Nei decenni successivi ho dovuto fare i conti, come molti miei coetanei, con un settore della ricerca scientifica che definire angusto è poco, dove il precariato permanente sarebbe stata la normalità. Una situazione al limite (e forse oltre questo limite) per una società che si dica "avanzata". E il racconto di Bellone ne fornisce le ragioni principali. Ma ancora prima, negli anni precedenti a quelli dell'università, nel mio piccolo ho anche vissuto in parte lo snobismo culturale "di stampo umanista" verso la scienza e il suo valore culturale che si è nel tempo generato nelle classi medie. Anche questo è un retaggio della storia appena raccontata.

"Ah, ma la formazione che dà il liceo classico è la migliore in assoluto. La carenza nelle conoscenze scientifiche? Ma quella non è un problema, si sa che chi esce dal liceo classico può affrontare qualunque tipo di studi universitari". Eh si, però cazzo, c'è un piccolo problema: nella mia esperienza chi esce dal liceo scientifico e intraprende uno studio universitario di tipo scientifico ha comunque una buona probabilità di conservare un livello decente di cultura umanistica, costruito proprio in quei cinque anni di liceo; nella sua vita si interesserà di storia, di letteratura, di arte, di musica, di teatro, di cinema, ecc. Ne ho incontrati tantissimi (un tratto comune alla maggioranza degli studenti universitari in discipline scientifiche). Chi invece esce dal liceo classico e prosegue gli studi universitari in senso umanistico rischia di aver perso la possibilità di costruirsi negli anni più fecondi un minimo di basi culturali scientifiche, e nel tempo sarà probabilmente destinato ad una condizione di analfabetismo scientifico e tecnologico. Più che altro per un fatto di valori culturali alterati da anni di declino scientifico italiano. Il dramma è che a causa di questo non sentirà quasi mai nella sua vita il bisogno di capire la scienza, e di dedicarci tempo e riflessione. Una lacuna nella cultura media di una persona che nella nostra civiltà occidentale assume una gravità estrema. In Italia gli effetti si vedono.