lunedì 12 marzo 2012

Che fine hanno fatto tutti quanti?

E' nota la formulazione del cosiddetto "paradosso di Fermi", con cui il grande scienziato sintetizzava la coesistenza di due fatti apparentemente inconciliabili, la probabilità molto alta che in un universo così vasto esistano altre civiltà tecnologicamente sviluppate come e più della nostra e l'assenza totale di una qualsiasi, pur piccola, traccia della loro presenza: "... dove sono tutti quanti?". Forse questa è l'osservazione più autorevole a cui hanno fatto seguito tentativi più o meno maldestri ma anche molto seri (vedi il progetto SETI) di entrare in contatto con intelligenze extraterrestri.

Una mostra visitata qualche giorno fa mi ha in un certo senso ribaltato completamente la questione osservando che in realtà l'uomo (terrestre) proviene da un mondo dove la convivenza con "altre umanità" è stata per lungo tempo la norma. La strana sensazione di entrare in contatto con una specie biologica intelligente ma diversa, che ci piacerebbe tanto provare, qualcuno di noi in un lontano passato l'ha già provata. Oggi possiamo dire che l'ambito terrestre è decisamente ristretto rispetto alle dimensioni dell'universo conosciuto ma, viste le conoscenze dei nostri antenati, non credo che questo elemento sia così significativo.

La mostra chiamata "Homo Sapiens, la grande storia della diversità umana", curata da Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani, presente a Roma fino a Pasqua, ha parecchi aspetti interessanti: l'eva mitocondriale e l'orologio molecolare, le derive genetiche determinate dai progressivi spostamenti di piccoli gruppi umani verso le periferie delle regioni popolate e il conseguente "effetto del fondatore in serie", i colli di bottiglia evoluzionistici, le corrispondenze sorpendenti tra la distribuzione geografica delle diversificazioni dei popoli e quello delle famiglie linguistiche. Insomma una ricchezza di temi ben difficile da sintetizzare. Sullo sfondo il racconto incredibile di un'evoluzione, quella dell'Uomo, determinata in massima parte da fattori ambientali contingenti ma decisivi: la siccità sempre più accentuata delle pianure africane da cui proveniamo, le grandi (e ultime) glaciazioni del quaternario, il conseguente abbassamento del livello dei mari, la comparsa di lingue di terra che univano praticamente tutti i continenti. Molti di questi fattori hanno costretto (e favorito) i nostri antenati a lunghe e incessanti migrazioni sul pianeta, durate decine di migliaia di anni, e che probabilmente hanno determinato molti dei nostri caratteri principali come specie: curiosità, ingegno, socialità, desiderio di conquista. Alla fine ne esce una storia affascinante fatta molto più di contingenza che di necessità. Una storia che, per capirci, in ogni suo momento poteva prendere strade completamente diverse da quelle che effettivamente ha preso, e che hanno portato fino a noi.

C'è un aspetto però che mi ha particolarmente colpito, forse per il suo carattere un po' misterioso di problema ancora non risolto. L'evoluzione come si sa non ha una direzione o un fine, questa è un'ottica non contenuta nei meccanismi selettivi conosciuti. Non esiste il concetto di progresso verso specie sempre più perfette, esiste semmai quello di adattamento all'ambiente esterno. Questo vale ovviamente anche per l'evoluzione dell'uomo. Non esiste nella nostra storia evolutiva l'evidenza di un progressivo miglioramento dai primi ominidi fino a noi, elemento finale di una catena di sviluppo lineare. Esistono invece linee evolutive complesse, ramificate, diversificate e concorrenti, in linea con l'idea di una evoluzione che "esplora" tutti i terreni possibili, "inventa" tutte le soluzioni possibili e seleziona contemporaneamente tutte quelle che si rivelano vantaggiose. Il risultato, nel nostro caso, è quello di avere avuto nel passato tante "specie umane" conviventi. La mostra ce ne fa un elenco piuttosto preciso (ma chissà se completo). In un tempo relativamente recente, circa 40 mila anni fa, convivevano nelle stesse regioni terrestri almeno 5 specie umane. Tra queste la nostra (Homo Sapiens), l'uomo di Neanderthal (diffuso soprattutto nelle regioni europee) e l'uomo di Flores (detto anche Hobbit per le sue dimensioni ridotte, diffuso in Indonesia).

L'aspetto curioso è il fatto che a partire da circa 12000 anni fa non si ha più traccia delle altre specie umane, la nostra è l'unica sopravvissuta. Sulle motivazioni di questo importante fatto la mostra non sembra essere altrettanto ricca di particolari, forse perchè i motivi rimangono in gran parte misteriosi, ancora da capire. Non sembra essere stato lo sviluppo dell'agricoltura, che certamente avrebbe dato una grande spinta alla crescita demografica della specie che ci fosse arrivata per prima a tutto svantaggio delle altre, perchè in realtà sembra che all'epoca di questo sviluppo la nostra specie era già sola. Non sembra essere stata la superiorità intellettiva di una specie sulle altre, perchè questa superiorità non risulta così evidente (seppure non si può escludere). Non sembrano esserci stati scenari violenti di sterminio fisico di una specie sull'altra, anzi risultano più probabili situazioni di lunga e pacifica convivenza (fino addirittura a rendere plausibile casi di ibridazione, in particolare con l'uomo di Neanderthal).

L'unica spiegazione abbozzata dalla mostra è quella che da alcuni indizi fisiologici sembra che il nostro apparato vocale fosse l'unico in grado di far emettere quella varietà di suoni che risultano indispensabili allo sviluppo di un linguaggio complesso. E' chiaro che nessun adattamento può competere con la trasmissione rapida di informazioni che un linguaggio vocale può permettere, e con tutti i vantaggi di apprendimento sociale che ne derivano. Il nostro destino di specie dominante sul pianeta sembra così legato ad un insieme di caratteri secondari, sviluppati per chissà quali ragioni, che da un certo punto in poi vengono utilizzati per produrre un elemento nuovo dotato di un vantaggio evolutivo schiacciante. Di lì a poco comincerà la Storia.