mercoledì 31 dicembre 2014

Una trasmissione su G. M. Volontè

Siamo sul divano, io e Simonetta. Abbiamo appena finito di vedere un film, lei prende in mano il telecomando e comincia a fare zapping veloce. Come sempre per me è troppo veloce ma evidentemente per lei no perché si ferma su una trasmissione interessante che racconta la carriera di Gian Maria Volonté, certamente uno degli attori più importanti del cinema italiano.

La trasmissione è fatta attraverso il racconto di un regista italiano (intervistato da non si capisce chi) che non conosco e di cui non ricordo il nome. La formula è quella del documentario: interviste, spezzoni di film, immagini dell'epoca. Il regista che racconta passa in rassegna i film più importanti girati dall'attore e anche le sue scelte insolite e in un certo senso suicide (rifiuta di fare "Il padrino" con Coppola e "Novecento" con Bertolucci, accettando invece film con registi molto meno noti) ma seguendo evidentemente un suo percorso artistico molto personale.

Il documentario è iniziato da tempo e noi ne vediamo solo la sua parte finale. Una cosa però mi colpisce parecchio, proprio alla chiusura dell'intervista allo sconosciuto regista. Quest'ultimo, sottolineando la complessità della figura di Volonté, dice terminando il suo discorso: "Volonté non va commemorato, va studiato".

Ecco, è questo il punto. A che servono tutte le commemorazioni di personaggi più o meno famosi (spesso purtroppo neanche così interessanti) che la televisione ci propina continuamente? A che servono quelle innumerevoli interviste di uno come Fazio ad esempio, che partono sempre dal presupposto che ha davanti un mostro sacro e proprio per questo non "scopre" mai niente di interessante su di lui e sul suo lavoro, essendo l'obiettivo finale semplicemente la celebrazione? Chiunque abbia dato un contributo significativo alla cultura e alla conoscenza non viene mai veramente valorizzato dalle celebrazioni che si fanno su di lui.

Proprio non mi interessano le commemorazioni. E tutte quelle trasmissioni televisive che in un modo o nell'altro le fanno (ci sono infiniti modi per farlo) mi annoiano terribilmente. E non aggiungono niente alle mie conoscenze.

mercoledì 24 dicembre 2014

Illusioni evolutive

Le illusioni ottiche oltre ad essere divertentissime sono anche molto istruttive. Ce ne è una ad esempio che nella sua semplicità è veramente impressionante. Si chiama Scacchiera di Adelson, è reperibile ovunque su Internet, ad esempio andando semplicemente a consultare la voce di Wikipedia "Illusione Ottica". Si tratta di una scacchiera a quadrati grigi chiari e grigi scuri su cui è poggiato un cilindro che proietta su di essa la sua ombra. Due quadrati di questa scacchiera hanno esattamente la stessa tonalità di grigio (li si vede bene isolandoli dal contesto) eppure messi nella figura vengono percepiti come quadrati opposti (grigio chiaro e grigio scuro). Proprio non c'è verso di vederli come effettivamente sono, cioè esattamente uguali.

Quindi le nostre percezioni visive sono ingannevoli, non possiamo fidarcene ciecamente, sarebbe un errore grossolano. Non è difficile generalizzare ad altre percezioni. I nostri sensi non sono così affidabili, e l'esempio visto ci dice anche che è estremamente difficile accorgersene, tenerne conto o addirittura correggerle, nonostante tutta la razionalità che ci possiamo mettere.

E' abbastanza curioso che un senso così importante come la vista (intesa ovviamente come sistema occhio-cervello) abbia questi "bugs". In fondo è normale pensare che l'evoluzione avrebbe potuto fare di meglio. Ma non so se questa considerazione ha senso. Prima di tutto l'evoluzione non porta mai a risultati perfetti, anzi, nel contesto dell'evoluzione, così come la comprendiamo oggi, il concetto di perfezione non ha proprio senso. Poi abbiamo imparato che le funzioni biologiche si sviluppano secondo certe spinte evolutive che nel tempo in cui agiscono hanno l'effetto di raffinare alcuni aspetti di una specie vivente ma in certi casi determinare allo stesso tempo "effetti collaterali" (su quella stessa specie) che di vantaggioso hanno ben poco. E che questi effetti ad un certo punto potrebbero anche tornare utili per tutt'altro, al momento in cui l'ambiente cambia significativamente (da leggere a questo proposito "Il pollice del panda", di Stephen J. Gould). Insomma la cosa è piuttosto complessa.

Un'altra illusione ottica più semplice ma forse ancora più istruttiva è quella chiamata Triangolo di Kanizsa (anche questa documentata da Wikipedia). In questo semplice disegno si percepisce chiaramente la forma di un triangolo, ma di fatto il triangolo non c'è. Viene solo suggerito da elementi grafici che presi singolarmente non ci suggerirebbero alcunchè. I contorni di questo triangolo percepito dall'osservatore non sono disegnati, ragion per cui il sistema visivo deve trarre delle inferenze. Il soggetto "vede" una cosa che di fatto non c'è.

Questo "bug" può essere effettivamente spiegato come un effetto collaterale di capacità evolutivamente vantaggiose. Vedere delle forme conosciute anche dove effettivamente non ci stanno significa pure riuscire ad anticipare efficacemente la presenza di un pericolo. Ovviamente così c'è il rischio di prendere delle cantonate, ma è certamente un prezzo ragionevole da pagare.

Ma anche questa cosa può essere generalizzabile? E fino a che punto? La capacità di vedere o percepire cose che non esistono, di dare facilmente corpo ad una realtà più immaginata che oggettiva è un vantaggio? Un effetto collaterale interessante (e magari utile) di qualche altro aspetto, come quello di immaginare pericoli per poterli adeguatamente prevenire?

Pericoli o intenzionalità di entità coscienti. Il comportamento degli oggetti animati viene interpretato precocissimamente in termini di scopi e obiettivi da raggiungere. La mente umana ha la capacità (e le tendenza spontanea) ad attribuire stati mentali ad altre entità (quelle animate, ma non solo). I bambini hanno al massimo grado la capacità di vedere cose che non esistono e di costruirsi facilmente credenze di ogni tipo. Per mio figlio erano sufficienti quei pochi miseri indizi che il papà imbranato gli riusciva ad offrire per costruirsi il mito di Babbo Natale. La credenza veniva da sé, come "spinta" da qualche elemento ancestrale. Un qualsiasi elemento anche banale suggeriva la presenza di un'entità a cui mio figlio credeva subito incondizionatamente, come se l'avesse vista.

Questo ad occhio e croce lo si può chiamare animismo. Una potente illusione costruita dall'evoluzione? Quanto della storia e della cultura dell'uomo dipende da essa?

sabato 20 dicembre 2014

L'importanza dell'interpretazione nella musica scritta

La musica scritta per la maggior parte delle persone, anche amanti della musica, purtroppo non ha senso alcuno (dico purtroppo perchè qualunque appassionato farebbe bene a studiarla, almeno un po'). Il senso l'acquista solamente nel momento in cui questa viene suonata da un professionista che sia in grado di farlo. Nasce però contemporaneamente il problema dell'interpretazione legato essenzialmente al fatto che la notazione musicale, per quanto precisa e arricchita di indicazioni, lascia inevitabilmente spazi di autonomia all'esecutore. Non sto parlando di tutta la musica, sto parlando di quella di tradizione occidentale, che da un certo punto in poi della sua storia è diventata, nella prassi esecutiva colta (non quella popolare), l'esecuzione di un testo scritto in precedenza.

Normalmente ci si avvicina a questo problema in maniera un po' forzata e artificiosa, soprattutto perchè occorre una grande pratica di ascolto per acquisire la sensibilità necessaria a distinguere un'esecuzione dall'altra. Sorge normalmente il dubbio abbastanza ovvio e comprensibile: visto che le differenze sono così difficili da cogliere perchè dovrei preoccuparmene? E' veramente un problema importante? Le esecuzioni di un brano possono veramente essere diverse in un modo significativo? Compro un disco e ascolto il brano. C'è bisogno di ascoltare altre registrazioni? C'è bisogno di andare ad un concerto per risentire il pezzo fatto dal vivo da qualcun'altro? Ha senso andare ad un concerto di musica scritta?

C'è un aspetto che mi ha sempre colpito, che ha il vantaggio di essere un dato dell'esperienza di molti ascoltatori di musica (almeno per me lo è stato parecchie volte) e quindi facilmente comprensibile, e che gioca a favore della risposta "si" a tutte le domande fatte sopra. Se si conosce un brano attraverso l'ascolto ripetuto dell'esecuzione del musicista tal dei tali si tende più o meno consapevolmente ad affezionarsi non solo a quel brano ma proprio a quella esecuzione. Non è molto difficile farci caso, e ovviamente è tanto più facile quanto più si ama quel brano e lo si è ascoltato infinite volte attraverso quella registrazione (perchè quella ci è capitato di comprare). Questa secondo me è la prova più evidente che esiste l'elemento "interpretazione" e che questo gioca un ruolo importante nella musica scritta.

Il disco è (o forse ormai è stato) un supporto fondamentale per veicolare la conoscenza della musica ma finisce per cristallizzare in modo irreale la musica stessa, che alla fine è una forma d'arte che si articola in ripetizioni con piccole variazioni. La registrazone (o meglio l'ascolto esclusivo di una particolare registrazione) toglie in parte quel contenuto di variazione che è importante e costitutivo del fenomeno musicale.

mercoledì 3 dicembre 2014

La conservazione dei dati digitali

Nello studio delle tecnologie di Internet è abbastanza probabile imbattersi in documenti chiamati "Request for Comments" o più brevemente RFC, numerati con un numero progressivo. In essi gli informatici descrivono protocolli, tecnologie, metodologie, sotto forma di proposte che la comunità di esperti è chiamata a vagliare. Alcuni di questi documenti, dopo un lungo processo, possono diventare degli "Standard Internet".

Quello che colpisce di questi documenti è il fatto che siano scritti tutti rigorosamente in codifica ASCII, un codice per lo scambio di informazioni accettato come standard prima da ANSI e successivamente da ISO a cavallo degli anni sessanta e settanta. Colpisce perché un documento scritto in questo modo risulta estremamente rozzo dal punto di vista tipografico, soprattutto confrontato con i caratteri raffinati introdotti dai moderni word processors. E colpisce altrettanto il motivo per cui questi documenti vengono pubblicati così: essendo fondamentale la garanzia di una loro diffusione certa e illimitata alla totalità della comunità di Internet l'uso di codifiche magari più potenti ed efficaci ma inevitabilmente legate a programmi che le interpretano non è consigliabile in quanto non assicura la loro universalità di accesso.

Quello che non avevo valutato a sufficienza è che questa cosa va vista anche e soprattutto nel tempo. E' necessario assicurarsi che questi documenti possano essere letti facilmente anche dopo molti anni dalla loro pubblicazione, in quanto in essi sono descritti in dettaglio i protocolli costitutivi di Internet e le prescrizioni con cui vanno implementati per assicurare l'interoperabilità di tutti gli host della rete. Perdere un bel giorno l'accesso a queste conoscenze fondamentali perché magari non risultano più disponibili i programmi che sappiano leggere i testi che le documentano è una minaccia molto concreta.

Questo concetto è generalizzabile a tutti i dati digitali, qualunque cosa rappresentino, dal momento in cui si è cominciati a conservarli fino ad oggi. Un qualsiasi dato digitale è di fatto un numero, ovvero una stringa più o meno lunga di bit, che però non ha alcun senso se non si è in possesso del programma giusto per leggerlo (presumibilmente lo stesso utilizzato per produrlo a suo tempo). Può sfuggire l'importanza di questo fatto ma su tempi molto lunghi (molto più lunghi dell'attuale periodo di sviluppo dell'era digitale) può costituire un gravissimo problema di corretta conservazione delle conoscenze dell'umanità. E' in un certo senso un tema un po' controcorrente visto che oggi si parla esclusivamente del fatto che tutto quello che mettiamo in rete diventa automaticamente eterno, sempre disponibile e di fatto incancellabile..... Oppure quest'ultimo aspetto è semplicemente l'altra faccia della stessa cosa.

Vinton Cerf, uno dei padri delle tecnologie di Internet e pioniere dell'era digitale sintetizza questo doppio problema con il seguente commento: "Internet ricorda cose che vorremmo che non ricordasse, e dimentica cose che vorremmo che ricordasse".

venerdì 28 novembre 2014

Un problema relativo

Qualche giorno fa si sono svolte le elezioni per i consigli regionali di Emilia-Romagna e Calabria. La notizia più significativa è stata l'affluenza alle urne particolarmente bassa (circa il 40%, contro il 65% delle precedenti). Probabilmente la più bassa finora registrata in un'elezione italiana.

Il premier attuale in una sua dichiarazione immediatamente successiva ha commentato con una frase del genere: "checché se ne dica non è vero che tutti hanno perso", riferendosi al fatto che la bassa affluenza sarà pure un problema ma la notizia da sottolineare per lui è che il suo partito di fatto ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti. Oltre questo ha anche tranquillamente aggiunto che il problema della bassa affluenza non lo interessa. Per l'esattezza lo ha declassato a "problema relativo".

Questa cosa prima o poi doveva succedere. Era chiaro che qualche politico avrebbe smascherato questo sentimento, bastava trovarne uno che si sentisse sufficientemente forte. Per chi gestisce il potere in un sistema formalmente democratico (cioè basato su elezioni a suffragio universale) il punto essenziale è prendere voti in maggioranza relativa sui votanti effettivi, non certo sui votanti potenziali. Anzi, la bassa affluenza potrebbe consentire di vincere controllando un bacino di voti relativamente esiguo.

Si tratta chiaramente di un problema di democrazia sostanziale. Sarà pure in parte fisiologico, una "caratteristica delle democrazie mature" come dicono in molti, ma la cosa non mi convince, e soprattutto se scende sotto certi livelli mi pare proprio una tesi insostenibile. Un paese civile non dovrebbe registrare affluenze elettorali così esigue.

Vogliamo interpretare il non voto alle elezioni come un segnale di protesta di cittadini che vogliono un cambiamento? Mah, secondo me è uno dei tanti preoccupanti segnali del disagio sociale a cui andiamo incontro. Peraltro adesso abbiamo visto come si fa, basta dire che quello della bassa affluenza è un "problema relativo". Così il politico ha bruciato in una battuta la "battaglia politica" del non voto. Magari, ad essere ancora più pessimisti, può pure venire in mente che non aspettava altro.

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Da un post preso su facebook: "Agli estorsori di consensi convengono i disagi sociali degli uomini: gli uomini disagiati, senza lavoro, senza soldi, sono facilmente orientabili, sono facilissime fonti di consensi (anche elettorali)". Fabrizio De Andrè.

giovedì 20 novembre 2014

Requisito minimo

Il contadino va sul campo tutto il giorno. E fatica. Però a fine giornata riporta i pomodori a casa. Grazie al suo lavoro può mangiare, lui e la sua famiglia. Ma non è solo questo. C'è pure il fatto che i pomodori sono buoni, belli, venuti bene. Ha fatto una buona cosa. Può tornare a casa contento e dormire soddisfatto.

Questo è quanto va chiesto al proprio lavoro. Requisito minimo per essere un cittadino.

Ah già, c'è dell'altro: una volta tornato a casa i pomodori se li deve poter dimenticare, a favore di qualsiasi altra cosa. Fino al giorno successivo.

martedì 28 ottobre 2014

Istruzione: libertà o potere?

Una delle discussioni che vengono fuori tra amici della nostra età, padri e madri di bambini che vanno a scuola, è quello di poter assicurare ai propri figli una buona educazione scolastica. Le alternative che finiscono sul tavolo della discussione è se convenga continuare a ricorrere alla scuola pubblica o optare per la scuola privata. Il punto di partenza è ovviamente lo stato precario in cui versa molta scuola pubblica, la scarsità cronica dei mezzi didattici, il personale insufficiente, ecc. Da questo punto di vista il privato garantisce migliori ambienti, strumentazione didattica all'avanguardia, laboratori attrezzati, palestre degne di questo nome. E una solida preparazione (si studia tanto). Inoltre assicura al genitore apprensivo un "ambiente controllato".

Il punto però è: che cosa è una buona educazione scolastica? Quali sono i suoi ingredienti principali? E soprattutto quali sono i suoi obiettivi? Credo che queste siano le domande fondamentali che un genitore dovrebbe farsi prima di scegliere.

Io credo che almeno in Italia (devo specializzare al nostro paese per evitare generalizzazioni approssimate e scorrette) la scuola privata si identifichi con una istruzione elitaria. I mezzi didattici moderni, efficienti e funzionanti, perfino le cose che si studiano, sono semplicemente un contorno, non l'essenza del discorso. In tal senso il concetto di ambiente controllato è già più significativo. Certamente risponde all'esigenza di molti genitori di proteggere i loro figli da un ipotetico mondo esterno ostile e pericoloso; un concetto di educazione già discutibile di per sé.

Ma l'obiettivo educativo più o meno esplicito secondo me è un altro, e ben più significativo. E' quello di tentare di far entrare il proprio figlio (a suon di soldi) in un circuito sociale chiuso, selezionato, dove si assicurano solo certe frequentazioni, dove si ha la possibilità di entrare in contatto con ambienti che contano più della media. L'istruzione insomma è concepita in buona parte come il viatico per accedere a posizioni di potere (e spesso proprio in questi ambienti possono facilmente maturare meccanismi tutt'altro che meritocratici).

Io mi trovo completamente in disaccordo con questa concezione dell'istruzione scolastica, quindi non posso fare la scelta della scuola privata, indipendentemente dalle mie condizioni economiche. Per me l'istruzione, e la cultura personale che contribuisce a formare, è sempre una conquista di libertà, con il potere (che tra l'altro non mi interessa) dovrebbe entrarci ben poco.

Nota: tra l'altro in Italia la quasi totalità della scuola privata è in mano ad istituti religiosi, cioè esattamente a strutture di potere.

sabato 4 ottobre 2014

Debunking sui vaccini

Interessante l'argomento del collegamento tra l'autismo e le vaccinazioni sollevato qualche tempo fa attorno ad un tavolo tra amici. Può essere innocentemente presentato così: esiste la possibilità non ancora accertata che alcune vaccinazioni, soprattutto se fatte un po' in ritardo, sviluppino l'autismo nel bambino. Qualche episodio nell'esperienza di alcuni dei commensali sembra corroborare questa tesi. Ovviamente se fossi un genitore con un bambino da vaccinare questo fatto mi metterebbe inevitabilmente in allarme, indipendentemente dalla fondatezza degli argomenti (e questo è significativo per quello che sto per scrivere).

Avendo invece già abbondantemente passato questo momento della mia vita (fortunatamente senza conseguenze negative) ascolto con interesse rilassato, e poichè mi sorge subito spontaneamente un certo scetticismo comincio a domandarmi come potrei fare per verificare al meglio possibile la fondatezza di una cosa del genere.

Ovviamente esiste Internet, questa non è una cosa da poco. Ma si sa che Internet è un mare dove può venire a galla di tutto. Servono dei criteri per informarsi (nel futuro sarà questa la principale differenza tra una persona colta e una ignorante). In questo caso come mi muovo? Quali dovrebbero essere i criteri della navigazione? Mi sembra di poterne individuare abbastanza chiaramente almeno due.

Il primo è la plausibilità dell'argomento. Se c'è da mettere insieme un effetto ad una possibile causa il collegamento va argomentato al meglio possibile e non buttato là tanto per dire. Questo è stato anche l'aspetto che mi ha fatto sorgere al momento in cui se ne parlava un certo scetticismo. Perchè un vaccino dovrebbe causare un problema come l'autismo? E' importante fare delle ipotesi chiare di collegamento logico tra le due cose. Parlare vagamente di un contenuto di mercurio nei preparati per le vaccinazioni è secondo me decisamente troppo poco. E' chiaro che in assenza di conoscenze anche vaghe sui meccanismi che provocano l'autismo l'altro strumento importante è la correlazione statistica. C'è o non c'è? Si noti che il collegamento è difficile e subdolo in quanto tipicamente la diagnosi di autismo guarda caso viene fatta prevalentemente proprio nel periodo delle vaccinazioni. Comunque stiamo parlando di una pratica sanitaria presente in maniera diffusa nei paesi occidentali fin dagli anni sessanta. Ci sono evidenze di un insolito aumento dell'incidenza dell'autismo in queste popolazioni a partire da quegli anni? I dati nel caso non dovrebbero mancare.

Il secondo criterio è ovviamente quello dell'autorevolezza delle fonti. Stiamo parlando di studi scientifici? Bene, la Scienza ha una sua comunità ufficiale, ha i suoi canali ufficiali di informazione, ha i suoi meccanismi interni di controllo delle affermazioni fatte che provengono proprio dall'applicazione del metodo scientifico.

Stabiliti i criteri di orientamento la navigazione su Internet non è poi così difficile. I risultati sembrerebbero essere abbastanza chiari. La questione di effetti collaterali gravi portati dalle vaccinazioni (in particolare l'autismo) ha il suo inizio in una serie di ricerche condotte da un certo Andrew Wakefield che in seguito si sono rivelate inesatte e addirittura falsate dall'autore. Non sembra esistere nessun altro studio scientifico che confermi una correlazione tra vaccini e autismo. Se ne trovano invece abbastanza facilmente di segno contrario (cioè che questa correlazione la escludono statisticamente). In compenso l'argomento è abbondantemente analizzato, criticato e sbugiardato da numerosi siti di debunking, compreso il CICAP. Le statistiche che mettono in evidenza l'aumento dell'autismo sembrano in realtà ragionevomente interpretabili come un aumento della sua diagnosi, cioè come una nostra migliorata capacità di riconoscerlo (un po' come l'aumento recente dell'alzheimer è in realtà dovuto ad un progressivo aumento dell'età media e dunque del periodo senile, quello a rischio maggiore di malattia). Le motivazioni che si danno del fatto che gli argomenti contro i vaccini nonostante tutto rimangano a galla sono interessanti: fanno leva su allarmismi che attecchiscono molto facilmente nei genitori, alimentano in tutto il mondo cause di risarcimento, sfruttano la sensazione sbagliata che i vaccini di fatto non siano utili (e ci riescono tanto meglio quanto più i vaccini si sono dimostrati storicamente efficaci).

Una navigata che comincia da qualche improbabile articolo sui vaccini che provocano l'autismo e prosegue nei vari forum e links suggeriti da questi ultimi porta rapidamente a far concludere che i vaccini avvelenano i bambini, che la scomparsa delle malattie infettive non dipende da essi e che la pratica della vaccinazione serve solo ad ingrassare le case farmaceutiche. Tutto sommato anche un'esperienza così estrema mi pare istruttiva.

lunedì 15 settembre 2014

Rientro a scuola

Oggi mio figlio ha cominciato la scuola media inferiore. Insieme a lui hanno cominciato un nuovo anno scolastico credo tutti i ragazzi italiani. La mia singolare giornata di lavoro (una trasferta in macchina a Lucca) mi ha consentito di accompagnarlo la mattina davanti ai cancelli e poi di seguire una serie di dibattiti radiofonici sulla scuola pubblica. RaiRadio3 le dedicava praticamente la programmazione dell'intera giornata. Un po' la mia sensibilità sull'argomento, un po' la solitudine del viaggio in macchina mi hanno stimolato una serie di considerazioni che, ora che sono qui in albergo, riporto in questo post.

E' ormai una considerazione comune quella che i ragazzi devono necessariamente conoscere una o più lingue straniere, una cosa che li aiuterà certamente a vivere e lavorare in un mondo sempre più piccolo. A questo in genere segue automaticamente una pesante critica alla scuola pubblica che non dedicherebbe il tempo sufficiente a questo tipo di conoscenza. Credo però che questa sia una critica sbagliata, o almeno in parte fuori luogo. Il punto è che non ha senso aumentare a dismisura le ore dedicate allo studio delle lingue al fine di ottenere questo risultato, almeno fino a che si parla di secondaria (forse neanche nei licei linguistici). Non credo che si possa pretendere che uno studente esca dall'istruzione media con una buona conoscenza di anche solo una lingua straniera. Il motivo è che si tratta di una conoscenza tecnica molto sofisticata, per cui le normali ore settimanali ragionevolmente dedicate allo scopo risultano essere sempre insufficienti. Sarebbe all'incirca come pensare che le ore stabilite per lo studio della musica siano poi sufficienti per arrivare a suonare uno strumento. Dunque cosa si potrebbe fare? La soluzione per la scuola pubblica secondo me potrebbe essere quella di garantire dei corsi specialistici facoltativi in fasce orarie pomeridiane, per cercare di garantire quel servizio di formazione attualmente fornito solo dai privati (a costi non sempre accessibili per chiunque). Una cosa che credo succeda in alcuni istituti, così come anche per la musica. La direzione è quella, ed è generalizzabile. Le scuole devono rimanere sempre aperte, per attività didattiche normali (obbligatorie) e straordinarie (facoltative, ma comunque gratuite, o a costi accessibili a tutti).

Un'altra opinione comune è che i ragazzi devono ormai imparare ad utilizzare gli strumenti informatici sempre più presenti nella nostra società e nei nostri ambienti di lavoro. E la scuola dovrebbe avere il compito di insegnarglieli. Questa cosa, almeno nei termini in cui la sento spesso, mi sembra una stupidaggine. Giustificata forse solo dal fatto che a dirla è normalmente una fascia di persone che probabilmente, per età e per tipo di attività, non ha una conoscenza appropriata di questi strumenti. E' evidente che l'utilizzo degli strumenti informatici viene acquisito naturalmente dalle nuove generazioni, perché hanno a che fare con essi fin dalla nascita. Solo un "anziano" può pensare che una cosa del genere debba essere insegnata a scuola. Sono conoscenze pratiche dirette (e alla fine molto elementari) che devono essere acquisite in altra sede. Sarebbe come sostenere che la scuola dovrebbe insegnare ad andare in bicicletta o ad utilizzare l'automobile (che peraltro risulta essere un oggetto altrettanto indispensabile nel mondo del lavoro). Queste semplici conoscenze pratiche si acquisiscono altrove, non a scuola. Quindi il problema tante volte sollevato dell'utilizzo degli strumenti informatici a scuola semplicemente non si pone, è del tutto secondario. Almeno se si affronta in questi termini. Casomai il problema potrebbe essere un altro. E' importante dare una vera formazione nelle tecnologie informatiche? Cioè, a parte il mero utilizzo degli strumenti informatici potrebbe essere utile insegnare ai ragazzi "quello che c'è dietro" in termini di infrastrutture tecnologiche, o "quello che c'è sotto" in termini di architetture dei sistemi che quotidianamente e inconsapevolmente utilizziamo? L'osservazione mi viene anche dal constatare che la generazione dei ragazzi che molto pittorescamente viene chiamata "dei nativi digitali" in realtà mi appare come piuttosto ignorante delle tecnologie sottostanti ai vari frontend digitali, molto di più forse di quanto lo siamo molti di noi adulti che queste tecnologie le abbiamo viste nascere, svilupparsi e che abbiamo digerito piano piano.

Nella questione della scuola pubblica si possono individuare due diritti che in generale, come succede anche in altri ambiti, si possono rivelare in conflitto tra loro: il diritto degli insegnanti al posto di lavoro e il diritto degli studenti all'istruzione. Secondo me in tutti quei casi in cui emerge questo conflitto andrebbe sempre privilegiato il secondo sul primo, senza eccezioni. Casomai andrebbero incentivati tutti quei meccanismi, qualunque essi siano, che possano sviluppare due elementi essenziali: il controllo della qualità didattica e il corrispondente aumento della libertà di scelta e della conseguente responsabilità degli insegnanti.

Uno scandalo della scuola pubblica attuale sono le condizioni dell'edilizia scolastica. Il degrado fisico delle strutture in cui i nostri ragazzi passano buona parte della loro giornata è una vera e propria mancanza di rispetto per loro, addirittura offensivo. Trattare male gli edifici scolastici, trascurarli, gestirli ai minimi termini significa in un certo senso fare la stessa cosa a chi questi edifici li frequenta. Inoltre questo degrado trasmette un messaggio fortemente diseducativo ai ragazzi, grosso modo il seguente: la scuola che frequentate non ha un valore, la vostra educazione non è importante e di essa lo Stato non se ne occupa granchè. Basta guardarsi intorno per capirlo. L'architettura parla. E il professore che vorrebbe convincere i suoi studenti dell'importanza di quello che insegna dall'alto di una cattedra consumata e indecente, in un'aula scalcinata, può far fatica ad essere credibile, anche se è bravo.

Infine una delle cose che mi dà più fastidio tra le varie considerazioni che si sentono fare sulla scuola pubblica è quella che assegna ad essa il compito principale (ed esclusivo) di preparare i giovani studenti al meglio possibile ad entrare nel mondo del lavoro. Non è vero. Il compito della scuola pubblica è quello di educare i ragazzi a diventare dei cittadini liberi.



mercoledì 13 agosto 2014

Incomunicabilità

Feste, cene, occasioni. Gente che a vari scopi si riunisce a mucchi di dieci, venti. In situazioni distratte e mangerecce. "Come va?", "e il lavoro?", "che bei bambini! Il secondo poi! Che buffo quando ride", "il tuo che classe fa?", "il mio quest'anno deve togliere assolutamente il pannolino, il tuo a che età l'ha tolto?", "bella casa, davvero", "ah, questo è il bagno ... bello!", "tutto molto buono, sei stata bravissima, come al solito", "grazie per la serata!".

In certe situazioni quello che mi colpisce di più è l'alto grado di incomunicabilità a cui si può arrivare. Il paradosso è che credo che questo sia frustrante un po' per tutti, non so con quale livello di consapevolezza però. Te ne accorgi quando ti capita (se sei fortunato) di stare a tu per tu con un amico, anche solo cinque minuti, non necessariamente parlando di cose importanti (ma poi queste vengono fuori da sole). Pensi che in quelle chiassose riunioni di amici e parenti a cui periodicamente sei più o meno costretto, se si prendessero due persone a caso e le si mettessero da sole una di fronte all'altra la probabilità che non abbiano nulla da dirsi sarebbe decisamente alta.

Purtroppo mi pare evidente che la famiglia come nucleo sociale un po' coatto contribuisca in buona parte alla costruzione di queste parodie di socialità. Famiglia allargata, parenti, amici di parenti, a meno di alcuni casi fortunati le situazioni che si creano hanno un grado di forzatura che induce al comportamento ipocrita, almeno in una certa misura.

Per parte mia ci metto tutta la mia difficoltà alla socializzazione su grandi numeri, alla discussione su temi estemporanei tipo "il più e il meno", alla conversazione continuamente interrotta da un sottofondo di bambini scalmanati (ipercontrollati da genitori costantemente distratti da qualunque insignificante cazzata dei loro figli).

L'esasperazione di certe situazioni mi porta perfino a pensare che se tutti quanti ad un certo punto della serata si appartassero con il loro smartphone forse il livello di comunicabilità salirebbe significativamente (in fin dei conti lo smartphone è pur sempre uno strumento di comunicazione, anche se su spazi diversi e con modalità diverse, e tutta quella retorica che si fa oggi sul suo potere di alienazione mi sembra una gran cazzata in confronto a quello a cui si riesce ad arrivare in certe situazioni di compresenza fisica).

Io non ho più tempo per parlare a vuoto, il tempo mi serve. Non sono un asociale, almeno non credo di esserlo. Se riesci a parlare a quattrocchi con una persona (e in tal caso non è necessaria neanche la vicinanza fisica) hai una concreta possibilità di comunicare, diversamente la vedo dura, il rischio è quello di un palliativo. Le barriere di incomunicabilità che in parte noi stessi con il nostro stile di vita contribuiamo a costruirci sono semplicemente mostruose.

giovedì 31 luglio 2014

Omosessualità, la malattia di chi?

Ultimamente, con una certa sorpresa, mi è capitato di riascoltare giudizi sull'omosessualità che la collocano in qualche modo (molto vago) in un contesto di "patologia" dell'individuo. L'omosessuale sarebbe una persona che, presa in tempo in giovane età, e opportunamente "curato" (si parlava di somministrazione di ormoni) può in età adulta condurre una vita da eterosessuale.

Perché può venire in mente che l'omosessualità sia classificabile come malattia? Una malattia è una condizione dell'individuo che prima di tutto provoca disagio e sofferenza all'individuo stesso e poi di riflesso costituisce un problema per il gruppo sociale in cui è inserito. Nell'omosessualità al contrario il disagio e la sofferenza sembrano essere prima di tutto della società e solo dopo dell'individuo. Nel senso che i problemi vissuti dall'individuo omosessuale non sono affatto fisiologici, non ha dolori o impedimenti. L'omosessuale vive una condizione di sofferenza psicologica o morale puramente indotta dalla non accettazione del gruppo sociale.

Nella brevissima discussione in cui mi sono trovato si sottolineava l'urgenza dei provvedimenti da prendere. Il bambino (preadolescente) andava "corretto" il prima possibile. Cioè il suo gruppo sociale (la famiglia) doveva intuire l'esistenza del problema (ben prima probabilmente dell'individuo stesso) e agire di conseguenza. Questo modo di pensare ribadisce chiaramente il fatto che l'omosessualità risulta problematica per la società e non per l'individuo (per lui lo sarà in seguito).

E' la società in un certo senso ad essere malata. La spia più evidente di ciò sta probabilmente nella grande confusione che si fa mischiando in modo insensato tre argomenti del tutto diversi (e tutti e tre improponibili): l'omosessualità come malattia, come fatto immorale, come fatto innaturale.

domenica 20 luglio 2014

Il cubo di Rubik 2x2x2

Ero all'areoporto di Heathrow, con un paio di ore di anticipo e un po' di sterline avanzate. Gironzolavo alla ricerca di un modo per spenderle per non riportarle indietro, mi sarebbero avanzate anche dopo aver fatto uno spuntino prima della partenza. In un negozio che vendeva un misto di giocattoli e souvenirs trovo il cubo di Rubik, la variante 2x2x2. Non l'ho mai avuto e forse non l'avrei mai comprato se non fossi stato lì a cercare di spendere. L'acquisto era incoraggiato anche dalla considerazione che avrei avuto un po' di tempo per tentare di risolverlo. Ero abbastanza convinto che le sequenze di rotazioni che conoscevo a memoria sul cubo classico 3x3x3 usate in qualche modo mi avrebbero permesso di risolverlo facilmente. E così è stato. Dal momento che in un vecchio post mi sono appuntato quello che serve per ricostruire la soluzione del cubo magico 3x3x3 (l'infausto giorno che dovessi dimenticarmela) lo faccio adesso in questo nuovo post anche per il cubo 2x2x2, ovviamente utilizzando la stessa notazione che si può andare a rileggere.

Le sequenze che si possono utilizzare per risolvere il cubo piccolo sono solo due e sono identiche alle prime due utilizzate nel cubo classico (curioso, due sequenze risolutive per il cubo di ordine 2, tre sequenze risolutive per il cubo di ordine 3). Entrambe sono utili per completare il secondo strato una volta fatto il primo (che è banale).

Sequenza A

Ar = Ri-Di-R-D-F-D-Fi
(e la simmetrica Al = L-D-Li-Di-Fi-Di-F)

Sequenza B

Br = Ri-Di-R-Di-Ri-D-D-R-D-D
(e la simmetrica Bl = L-D-Li-D-L-Di-Di-Li-Di-Di)

Nota: le ultime due rotazioni di questa sequenza non sono riportate in quella corrispondente del vecchio post, perché in effetti non sono sempre necessarie (in alcuni casi risultano essere mosse ridondanti, quindi inutili).

Come succede per il cubo classico anche in questo caso queste sequenze, opportunamente combinate, sono delle simmetrie. Questa osservazione aiuta forse a capire meglio cosa fanno le sequenze e suggeriscono come utilizzarle per risolvere il cubo. Inoltre è un aspetto certamente bello e divertente.

Alcune possibili simmetrie

Ar^6 (oppure Al^6)

Br^3 (oppure Bl^3)

Ar-X-Ar-X-Ar-D (oppure Al-Xi-Al-Xi-Al-Di)

Br-Xi-Bl (oppure Bl-X-Br)

Ar^2-Xi-Bl (oppure Al^2-X-Br)

Nota: se si usa la sequenza B definita nel post precedente si ottiene come simmetria una sequenza di mosse che nel caso del cubo classico viene utilizzata molto spesso durante la parte finale della soluzione e che ha come effetto lo spostamento di tre spigoli (che però nel cubo di ordine 2 non esistono):
Br-X-Bl (oppure Bl-Xi-Br).

Il cubo 2x2x2 si risolve in circa una trentina di mosse, un quarto di quello che serve per risolvere il cubo 3x3x3.

giovedì 10 luglio 2014

Qualità anglosassoni

L'estate scorsa sono stato in vacanza a Londra. La sensazione generale che conservo come la più "esotica" (più della grande eterogeneità della sua popolazione, che pure è anch'esso un aspetto abbastanza impressionante) è sintetizzabile nella seguente semplice osservazione: la città di Londra, organismo immenso e complesso, funziona (almeno agli occhi di un turista) come un orologio. Ovviamente sono i londinesi a farla funzionare così, cioè si tratta di un aspetto squisitamente culturale ed evidentemente mi appare come esotico perché difficilmente riscontrabile in una città italiana (specialmente a Roma, dove vivo). Questo si traduce in una spiccata capacità dei londinesi (più esattamente di quelli con cui ho avuto a che fare, che erano ovviamente quasi tutti impiegati di servizi pubblici e di strutture turistiche della città) di sentirsi parte di un "meccanismo", di un "processo".

Questa settimana sono a Camberley per lavoro. Trattasi di una cittadina a poco più di mezz'ora di macchina da Londra. La sensazione è più o meno la stessa. Per arrivare da Heathrow ho scelto il trasporto pubblico, un po' complicato (quindi lungo) ma perfetto nel suo funzionamento. Liscio come l'olio. Da Heathrow a Hatton-Cross in metro, poi a Feltham in autobus, a Virginia Water in treno, infine a Camberley in pullman. Un percorso assistito da addetti presenti ovunque. La cittadina se possibile per certi versi è pure più impressionante di Londra. Tutti gli aspetti del suolo pubblico sono perfettamente sotto controllo, dalla segnaletica stradale all'arredo urbano, alla pulizia, alla mancanza totale di raccoglitori per immondizia che non siano semplici cestini. Niente di rotto, sporco, sbiadito o trascurato. Giardini compresi. Un'atmosfera irreale.

E' chiaro che dietro a tutto questo c'è un progetto. Che non lascia niente al caso. Il punto è proprio questo. Non è tanto il senso civico e il rispetto dell'ambiente pubblico (che pure ci sono) ma è soprattutto il senso dell'organizzazione. Questo è l'aspetto culturale più significativo e più esotico per noi. Direi che questo si ritrova anche nel lavoro. La pianificazione delle attività, la divisione dei compiti, l'assegnazione precisa delle responsabilità sono tra quelle cose in cui gli anglosassoni eccellono. E quelle che spesso noi italiani, cronici gestori di eccezioni e di imprevisti, tendiamo a chiamare "fuffa".

domenica 22 giugno 2014

Golliwogg's Cakewalk

Ieri sono andato a sentire un concerto amatoriale in cui suonava mia nipote di 16 anni. Il caso ha voluto che la sua insegnante di pianoforte sia la moglie della persona che circa 35 anni fa mi ha dato le sue e le mie prime lezioni di musica. Ieri sera erano tutti lì a suonare. Il repertorio era tra il classico e il popolare e c'era una bella atmosfera, quella di chi si diverte a fare musica senza essere un professionista. Mia nipote oltre ad alcuni pezzi suonati insieme ad altri portava anche un pezzo solista, l'ultimo brano del Children's Corner di Debussy, Golliwogg's Cakewalk (1913).

Ricordo che aveva la copertina gialla. Probabilmente lo comprai in seguito ad una serata a casa di un collega universitario che era anche un pianista. Quella sera accennò alcuni di questi pezzi, forse anche l'ultimo. Erano molto belli. Insieme alle Images sono i pezzi di Debussy che mi sono rimasti più nella memoria. Avevo già abbandonato lo studio sistematico del pianoforte ma coltivavo l'idea (invero un po' ridicola) di poter continuare a suonare. Purtroppo la mia insegnante anni prima mi aveva imposto una scaletta di studi rigorosamente orientata ai programmi di conservatorio e questo alla lunga si è rivelata per me una scelta sbagliata: da una parte niente esami e dall'altra nessuna esperienza dilettantistica divertente. Soprattutto nessuna esperienza musicale sociale.

L'ortodossia di quel mio periodo di studi pianistici ha certamente giocato un ruolo negativo anche nell'approccio ai brani. Ricordo che mi sorprese sentire il mio collega universitario sostenere che lui non faceva mai studi di pura tecnica, ma superava le difficoltà tecniche direttamente sui pezzi di musica vera. Suonava direttamente, senza estenuanti studi preparatori. Io portai a casa la mia raccolta dei Children's Corner, constatai che erano piuttosto impegnativi (soprattutto per uno che non aveva più il fiato sul collo di un'insegnante) ma forse feci l'errore (l'errore?) di ascoltare la registrazione di questi pezzi suonati da Arturo Benedetti Michelangeli (una versione è questa). Era impossibile anche solo avvicinarsi a quel tipo di esecuzione. La mia era una vera schifezza. Ma perché me ne doveva fregare? Perché avrebbe dovuto scoraggiarmi? Un atteggiamento ridicolo ed esagerato, col senno di poi.

Sono contento di aver sentito l'insegnante di mia nipote sostenere che l'importante è imparare a suonare insieme agli altri e che i pezzi solistici "bene o male" comunque si fanno, e senza farsi troppi problemi. Un concetto che forse tradisce un approccio in parte dilettantesco, ma le attività amatoriali e dilettantistiche sono un aspetto molto importante della cultura di una persona, non c'è dubbio. Un bel concerto. Bravi tutti.

lunedì 2 giugno 2014

2001: Odissea nello spazio

Non so come ma pensavo che il famoso film di Kubrick non avesse un parallelo letterario altrettanto affascinante. Ricordavo che l'ispirazione del film era stato un piccolo racconto di Arthur C. Clarke intitolato "The Sentinel" ma credevo che questo fosse tutto. Fino al giorno in cui in una delle mie solite passeggiate alla libreria Feltrinelli mi sono imbattuto nel romanzo di Clarke. Non mi quadrava che si intitolasse come il film, che non fosse una piccola novella di poche pagine. Quindi l'ho comprato. Ovviamente è bastata una veloce consultazione su Internet per mettere bene a nudo la mia crassa ignoranza in merito a questa questione. Sceneggiatura del film e romanzo sono nati praticamente assieme e portati avanti in parallelo da Clarke (la sceneggiatura del film ovviamente insieme a Kubrick). Superficialità imperdonabile la mia.

La lettura del romanzo mi ha impressionato molto, ho ritrovato lo stesso grande fascino del film. Certo è difficile prescindere da quelle immagini e da quelle musiche incredibili ma il racconto di Clarke è efficacissimo e in un certo senso complementare al film. Dove il film è (forse necessariamente) vago e astratto il romanzo è più dettagliato e avvincente. Le descrizioni sulle pagine del romanzo non possono avere lo stesso impatto e la stessa immediatezza di quelle del film ma hanno comunque una loro grande capacità visionaria. Mi è capitato altre volte di leggere un romanzo e di vederne la trasposizione cinematografica (nei casi peggiori un impoverimento in forma di immagini) ma qui mi sembra più che altro di avere a che fare con due versioni alternative della stessa opera. Sarà un mio condizionamento ma mi pare che si veda in modo abbastanza evidente che film e romanzo sono stati elaborati assieme. Un fatto certamente insolito, chissà se ci sono stati altri esempi simili.

Di sicuro quello che mi piace in questa "odissea" letteraria e cinematografica è l'immaginazione potente della scrittura di fantascienza, che probabilmente ha pochi eguali nella storia di questo genere (almeno per quel poco che ne conosco). Questa potenza la si riconosce soprattutto nel grande respiro della trama e al contempo in tanti piccoli particolari di passaggio nello svolgimento della stessa. Particolari come questo:
"Prima di presceglierlo per la missione, avevano posto alla prova le sue reazioni all'ibernazione. Non sapeva bene se avesse perduto una settimana di vita ... o se la sua morte ultima fosse stata rinviata dello stesso periodo di tempo" (Arthur C. Clarke).

sabato 17 maggio 2014

Uno spot pubblicitario

Questi giorni sta girando in televisione uno spot pubblicitario di un gestore di telefonia il cui protagonista è un noto comico che irrompe in un'aula di università durante una lezione, cancella la parte della lavagna dove sta scrivendo il professore e ci scrive sopra la sua "formula", ovvero il suo messaggio commerciale. Dopo aver sbrodolato i suoi slogan il comico si rende conto di aver forse cancellato qualcosa di importante e suscita l'ilarità dell'aula facendo una battuta che sottolinea la sua goffa ignoranza. Ma si capisce bene che la vera cosa importante l'ha appena scritta lui alla lavagna.

Ho visto passare questo spot diverse volte e ogni volta mi suscita un sentimento a metà tra l'imbarazzo e l'irritazione. Mi sembra che in pochi secondi si consumi la disfatta totale del più alto istituto d'istruzione che abbiamo. L'accostamento tra la semplicità e l'immediatezza del messaggio del comico e la complessità incomprensibile di quello che probabilmente si stava svolgendo in aula poco prima (e per il quale il comico, simpatico e brillante, mostra la più completa estraneità) è devastante. Lo stereotipo del professore impacciato che sta fuori dal mondo, almeno da quel mondo che vale la pena di vivere, è decisamente deprimente. Gli studenti si risvegliano all'ingresso in aula del comico e finalmente si divertono. Tutta la scena sembra voler dire: "d'accordo i professori ci devono essere, e vanno tollerati, ma voi non perdete troppo tempo con questa roba. Che volete capire? E a che vi serve? Tanto gli sms li riuscite a mandare lo stesso".

Il linguaggio della pubblicità nella sua innocenza è incredibilmente potente. Fotografa la realtà e al tempo stesso comunica valori (o non-valori, o nuovi strani valori) con un'efficacia impressionante.

sabato 19 aprile 2014

Fuori target

La fisica come attività professionale richiedeva la volontà di farsi carico di un alto grado di incertezza (da più lati, non solo quello economico). Un carico che poteva essere controbilanciato solo da elementi come: grande determinazione, disponibilità ad un sacrificio che non aveva però la caratteristica di farti vedere una meta anche solo soddisfacente, sufficienti risorse economiche personali (un po' di spalle coperte per intenderci), e non ultimo grande fiducia nelle proprie capacità professionali e nel proprio talento. Decisamente troppo per me. Tutti i fattori considerati insieme non tenevano la bilancia in equilibrio neanche lontanamente. Gran bella disciplina la fisica ma tutto troppo difficile, da qualunque parte si guardasse il problema. Fuori target.

La musica come attività professionale non è mai stata per me un'opzione seria. Ma comunque la scelta dello strumento studiato (il pianoforte) non mi avrebbe certo portato lontano. Le difficoltà ad occhio e croce sarebbero state molto simili a quelle descritte (e pienamente vissute) per la fisica. La bilancia sarebbe stata anche in quel caso inesorabilmente fuori dall'equilibrio. Non sarei stato un soggetto giusto. Fuori target.

La musica come attività da dilettante (cioè per il solo gusto di farla) l'ho praticata per un buon periodo, anche se come batterista e non come pianista. In quel caso ad un certo punto mi sono ritrovato in un limbo, in una situazione in cui non mi riconoscevo, e sono abbastanza sicuro che questo valeva solo per me e non per i miei compagni di divertimento. Il punto era che quello che mi sarebbe piaciuto fare non arrivavo a farlo perchè avrebbe richiesto un livello sostanzialmente da professionista, o quasi, e quello che facevo non mi dava più la giusta soddisfazione. Stallo frustrante. Non ero più nel posto giusto. Fuori target.

Attualmente "strimpello" da solo il mio pianoforte nelle ore serali o notturne (in cuffia) ma la sensazione ritorna spesso a galla: quello che vorrei fare richiede un tempo esagerato, che non mi posso permettere. Il resto mi interessa ben poco. Il karaoke sarebbe stato più consono, più alla mia portata e di maggior soddisfazione, sicuramente di minore frustrazione. Non mi sembra di essere seduto davanti allo strumento giusto. Fuori target.

La fisica è rimasta sempre uno dei miei principali interessi culturali, allargati alla scienza in generale e alla sua storia. Ma la lettura di manuali e articoli non può essere fatta con efficacia da chi non sia direttamente coinvolto a livello professionale (e anche in questo caso l'unica letteratura specialistica veramente accessibile è quella strettamente legata al proprio campo di ricerca). Si apre invece la vasta (non esageriamo) letteratura divulgativa. Purtroppo la stragrande maggioranza di questa produzione è rivolta ad un pubblico sì di buona cultura (qualche volta neanche quello) ma in generale poco preparato. La classica frase "ogni formula riportata nel libro dimezza il potenziale pubblico disposto a leggere quel libro" che si legge frequentemente nelle prefazioni dei saggi di divulgazione dà un'idea chiara di quello che intendo dire. Per me questo si traduce spesso in un vero e proprio problema. Tra il testo che descrive i concetti con metafore troppo semplicistiche e il manuale tecnico inaccessibile faccio spesso fatica a trovare il mio posto. Dondolo tra gli uni e gli altri senza trovare pace. Non sono un soggetto poi tanto giusto neppure per questo. Fuori target.

Il mio lavoro è quello della formazione tecnologica. Sostanzialmente insegno tecnologie informatiche ad un pubblico costituito in massima parte da tecnici d'azienda. E' vero, questo è lavoro e il pane che porto a casa è la sua giustificazione fondamentale. Però anche qui mi ritrovo spesso ad oscillare tra l'esigenza di raccontare l'informatica del "come si fa e dove si fa" e il gusto di raccontare un'informatica un po' più stimolante, fatta di problematiche più generali, di approcci di respiro più ampio e perchè no, anche di approcci più "storici". Un gusto un po' frustrato dall'obbligo di rispettare una scaletta operativa e da un pubblico che molto spesso è mosso da esigenze molto più "terrestri" (e magari hanno anche le loro ragioni). Insomma, sebbene lavori ormai da anni in questo settore, facendolo in modo ben inquadrato e organizzato, non mi sento sempre esattamente nel posto giusto. Fuori target?

Evito di trarre conclusioni (e anche di continuare con questa filastrocca).

domenica 6 aprile 2014

Una chiacchierata tra fisici

Oggi ho incontrato un fisico. Uno che come me pur studiando tanto, con convinzione e con serietà, non ha trasformato la fisica in una professione. Uno che come me la professione se l'è dovuta cercare altrove. Capita in questo campo (come in molti altri) e non c'è da meravigliarsi. Inutile alla fine tornare per l'ennesima volta sulle ragioni che ci hanno allontanato dalla fisica professionale o più precisamente che non ci hanno mai permesso veramente di entrarci, ragioni oggettive e forse ancora un po' dolenti, a cui si intrecciano quelle personali dovute alle contingenze delle nostre vite.

Quello che mi ha colpito (ma forse neanche qui c'è molto da meravigliarsi) è la constatazione di quanto la fisica non ci abbia mai veramente abbandonati, nel senso che sembra giocare il ruolo di una vecchia passione che riesce ancora in certe occasioni a "smuovere la pancia". L'occasione è stata semplicemente quella di raccontarci per sommi capi quello di cui all'epoca ci occupavamo, ma è risultata sufficiente per portarci rapidamente a fare considerazioni di una qualche profondità sulla scienza. Una cosa che solo due appassionati possono fare in così breve tempo e in una cornice così occasionale come una festa di compleanno.

Non so come si chiama ma so che si è occupato di teoria delle stringhe, quella che per anni ha rappresentato un po' la via maestra al sacro graal della fisica fondamentale: l'unificazione delle forze. Oggi non sembra essere più così, o almeno non è più così scontato. Per quello che ne so ci sono tuttora molti gruppi di ricerca al mondo che ancora se ne occupano ma certamente non è più così "di moda". La sensazione (corroborata da qualche lettura) è che molti stiano riciclando i potenti strumenti matematici e le tecniche teoriche sviluppate per questa teoria in altri ambiti della fisica (come dice Carlo Rovelli  "La fisica teorica è come il maiale: non si butta via niente").

La ragione forse più importante per cui una teoria che ha assorbito così tante menti per così tanto tempo si sta probabilmente arenando è "banalmente" che non ha mai avuto nessun vero riscontro sperimentale, nessun esperimento che ne indicasse chiaramente la validità o che potesse dare una direzione d'indagine. Dalla teoria sembrano uscir fuori un numero sterminato di soluzioni diverse, tutte ugualmente ammissibili in assenza di eventi sperimentali discriminanti. La supersimmetria, altro grande filone teorico della fisica delle particelle, sembra fare la stessa fine. L'esperimento LHC, così osannato per aver trovato il famoso bosone di Higgs, di fatto non ha trovato nient'altro.

Ecco le considerazioni profonde (potrebbero far ridere ma alla fine hanno un grande fascino): a che punto siamo? Che momento storico è questo? Di cosa c'è bisogno? Come funziona la scienza? Come e in che condizioni può fare dei decisivi passi avanti? La costruzione di teorie sempre più complesse, generali e comprensive ma che non riescono ad avere un rapporto con i fatti sperimentali dove portano? E' conoscenza? Ha senso immaginare con teorie sempre più potenti, risultate da elaborazioni sempre più complesse di ipotesi sostanzialmente non verificabili, quello che poi opportuni esperimenti ci dovrebbero meramente confermare? O non è forse alla fine necessario avere risultati sperimentali nuovi, chiari, contraddittori con le teorie ufficiali e che per questo ci possano indicare direzioni nuove? Chi può guidare la nostra immaginazione se non la natura stessa? Non è forse successo proprio questo con le due ultime grandi rivoluzioni concettuali della fisica: la relatività generale e la meccanica quantistica? Non è stato un quadro fenomenologico sostanzialmente nuovo e non-interpretato dalle teorie classiche a scatenare la creatività dei grandi scienziati della generazione del primo novecento? Non è poi questa la sostanza della scienza galileiana?

Immaginare e osservare, osservare e immaginare. Nella dialettica tra immaginazione e osservazione sta il motore più potente per costruire la nostra conoscenza del mondo.

Bene, è stata una bella chiacchierata. Beviamoci sopra.

martedì 7 gennaio 2014

Onestà intellettuale

Devo ammettere che la storia del carteggio tra Russel e Frege, risalente ai primissimi anni del 1900 e che ha segnato in modo profondo lo sviluppo della logica formale culminato poco più tardi con i lavori di Kurt Gödel, mi suscita una certa ilarità; ci trovo delle assonanze con la comicità grottesca che si incontra nei libri e nei film di Fantozzi. Il punto però è un altro: l'episodio è un incredibile esempio di onestà intellettuale. Citando Gilberto Corbellini "[...] si tratta di un'impresa che insegna ad apprezzare valori come l'onestà, il dubbio, il rispetto per i fatti provati, l'apertura mentale, l'affidabilità e la tolleranza".

Gottlob Frege (1848-1925) è stato uno dei più importanti logici del suo tempo. Ha preso in consegna l'eredità di grandi scienziati come George Boole e Georg Cantor e ha tentato di estendere alcuni dei loro risultati fino ad affermare la volontà di ridurre tutta l'aritmetica alla sola logica (logicismo), spendendo praticamente tutta la sua vita professionale per questo obiettivo. Si trattava di mostrare che tutte le leggi dell'aritmetica si possono derivare da un sistema di assiomi finito e da un insieme (sempre finito) di regole di inferenza le cui ripetute applicazioni a partire dagli assiomi avrebbero portato a qualunque affermazione vera dell'aritmetica.

Era certamente uno sforzo considerevole, fatto in solitudine, e che stava prendendo corpo in un'opera molto ampia dal titolo "Die Grundlagen der Arithmetik" (I Fondamenti dell'Aritmetica) da pubblicare in più volumi. Me lo immagino nel suo studio, giornate intere passate a scrivere, concentrato con la linguetta di fuori (no, questo è Fantozzi).

Un bel giorno, il 16 giugno 1902, arriva sulla sua scrivania una lettera di un giovane matematico inglese, certo Bertrand Russell, probabilmente tra i pochissimi studiosi che erano venuti a conoscenza della sua opera attraverso la lettura del primo volume pubblicato poco prima a spese dell'autore. La lettera conteneva una serie di sinceri apprezzamenti per il suo lavoro, tipo questo: "La trattazione rigorosa della logica nelle questioni fondamentali [...] è rimasta molto indietro; nella sua opera ho trovato la migliore elaborazione del nostro tempo, e mi sono permesso quindi di esprimerle il mio profondo rispetto". Ma tra un complimento e l'altro veniva anche rilevata una "curiosa anomalia", un "leggerissimo problema" (usando un linguaggio un po' fantozziano) che Russell esprimeva molto rispettosamente come una difficoltà: "Sono d'accordo con lei su tutte le cose essenziali [...] Trovo nei suoi lavori analisi, distinzioni e definizioni che invano si cercherebbero nell'opera di altri logici. [...] C'è solo un punto nel quale ho incontrato una difficoltà".

Questa "difficoltà" aveva per il lavoro di Frege la stessa conseguenza che potrebbe avere quello di togliere il mattoncino che fa crollare completamente la torre del Jenga! L'opera monumentale era stata messa davanti ad un ostacolo che si rileverà ben presto insormontabile (ci lavorò a lungo anche lo stesso Russell). Un'obiezione di fondo non aggirabile. Per la cronaca si trattava di quello che successivamente è passato alla storia come "il paradosso di Russell", del quale una delle tante formulazioni può essere: "la classe di tutte le classi che non contengono sé stesse contiene se stessa?" (che però non credo sia quella originale proposta a Frege). Me lo immagino nel suo studio mentre legge questa lettera e la sua faccia comincia a cambiare colore diventando nell'ordine: rosso, rosso pompeiano, arancio aragosta, viola, viola addobbo funebre, blu tenebra... (no, questo è sempre Fantozzi).

Ma la reazione ufficiale di Frege fu come dicevo di grande onestà intellettuale. Non tentò neppure in una fase iniziale di ignorare o nascondere quanto Russell gli aveva scritto. Stava per dare alle stampe il suo secondo volume quando decise di pubblicarlo con una postilla che faceva riferimento proprio all'obiezione di Russell. La causa che aveva fatto crollare irrimediabilmente la possibilità di raggiungere l'obiettivo più ambizioso della sua intera attività di ricerca veniva pubblicato insieme all'opera che avrebbe dovuto coronare questa stessa attività. La postilla di Frege cominciava così: "Per uno scienziato non c'è niente di peggio che veder crollare i fondamenti del suo lavoro proprio quando questo è stato appena completato. Io sono stato messo in tale situazione da una lettera del signor Bertrand Russell".

Molti anni dopo lo stesso Russell riconobbe il grande valore morale del comportamento di Frege scrivendo: "Quando penso ad atti di integrità e magnanimità, mi rendo conto che fra tutti quelli che conosco non c'è niente che regga il confronto con la dedizione di Frege alla verità. L'opera della sua vita era sul punto di essere completata, gran parte di essa era stata ignorata a tutto vantaggio di uomini infinitamente meno capaci, il secondo volume stava per essere pubblicato, e quando egli scoprì che il suo assunto fondamentale era errato la lieta e serena dirittura intellettuale con cui reagì prevalse chiaramente su ogni sentimento personale di delusione. Fu una cosa quasi sovrumana, una dimostrazione significativa di ciò di cui sono capaci gli esseri umani se è al lavoro creativo e alla conoscenza che si dedicano, e non all'impresa - tanto più grossolana - di emergere e farsi conoscere".

Frege morì nel 1925 risparmiandosi così i fondamentali teoremi di incompletezza di Gödel (1931) con i quali si dimostra formalmente che lo scopo da lui perseguito era semplicemente irraggiungibile. Me lo immagino nei suoi ultimi anni, seduto alla sua scrivania, piangere a lungo in silenzio, con grande dignità (cit. Fantozzi).


giovedì 2 gennaio 2014

Sperimentazione animale

L'altro ieri (ultima azione significativa del mio 2013) ho deciso di firmare la petizione di SEL sulla sperimentazione animale. In sostanza si tratta di una presa di posizione a favore del mondo scientifico nei riguardi del modo in cui il Parlamento italiano sta recependo la direttiva UE del Parlamento europeo, risalente al 2010 e "già frutto di un lungo processo di discussione tra associazioni animaliste e ricercatori". La maggior parte dei paesi europei hanno già recepito questa direttiva senza nessuna modifica. Il Parlamento italiano si appresta a farlo con l'introduzione di ulteriori norme più restrittive che, a detta del mondo scientifico, limiterebbe in modo eccessivo l'azione della ricerca.

Dettagli sulla questione si trovano in vari punti su internet e non mi interessa poi così tanto discuterli qui. Quello che più mi impressiona della faccenda lo riporto in questi due punti, facce della stessa medaglia.

1. Nella discussione di una legge del genere a me pare evidente che la politica dovrebbe interpellare il mondo scientifico. Una cosa che, viste le reazioni, non mi sembra sia successa. Introdurre ulteriori elementi restrittivi ad una legge già ampiamente discussa (e che già esprime un punto di equilibrio), sebbene allo scopo di aumentare le garanzie delle cavie animali, che impatto pratico avrà sulla ricerca scientifica? E' lecita la domanda? E' importante farsela? E a chi dovremmo porla per ottenere una risposta sensata? Per quale motivo i politici (o gran parte dei politici) non ritiene necessario avere un rapporto stretto (per questioni del genere e per molte altre) con un settore culturale così importante per il progresso di una società?

2. Una bella fetta di opinione pubblica italiana (a cui la politica è ovviamente molto sensibile) ha evidentemente una cultura scientifica così scarsa che non riesce proprio a valutare l'importanza vitale della ricerca scientifica, neanche quella in ambito medico, che pure dovrebbe essere la più facile da riconoscere. Probabilmente per molti italiani è estremamente difficile valutare le conseguenze che una legge del genere potrebbe avere sul medio-lungo periodo dal punto di vista del saper capire e trattare le patologie dell'uomo. Forse perché non hanno alcuna idea (neanche vaga) dei processi che portano nel tempo a definire terapie di successo o farmaci funzionanti. Proprio non ci hanno mai pensato.

Questa mancanza di comunicazione così evidente tra la società civile e la scienza è alla base di distorsioni macroscopiche nell'interpretazione di fatti evidenti e lascia spazio ad animalismi estremi che non hanno davvero alcun senso. Inoltre a me pare del tutto schizofrenica una società che usa quotidianamente tutte le conquiste scientifiche e tecnologiche degli ultimi secoli (ed in maniera sempre più ingorda, sempre più gonfiata dal consumismo) senza sapere assolutamente da dove vengono e quindi alla fine senza saperne riconoscere il valore.

Nota: il cosiddetto metodo stamina è un altro episodio istruttivo in tal senso. Una "cosa" che non è stata mai descritta da nessuna pubblicazione scientifica viene improvvisamente presentata come una terapia e sottoposta ad una "sperimentazione" (con ingenti finanziamenti pubblici) per poi scoprire che non si sa neanche cosa sperimentare dal momento che non si sa di che cosa si sta parlando! Con controversie risolte dal TAR anzichè discusse negli ambienti scientifici appropriati. Il tutto giustificato da buona parte dell'opinione pubblica con un ragionamento del tutto antiscientifico del tipo "visto che per molte patologie non si sa fare niente di risolutivo tentiamo questo e vediamo cosa succede, non si sa mai ... ho sentito che uno dei pazienti trattati così è un po' migliorato ...". Peraltro si tratterebbe di sperimentazione umana, con buona pace degli animalisti.