giovedì 31 luglio 2014

Omosessualità, la malattia di chi?

Ultimamente, con una certa sorpresa, mi è capitato di riascoltare giudizi sull'omosessualità che la collocano in qualche modo (molto vago) in un contesto di "patologia" dell'individuo. L'omosessuale sarebbe una persona che, presa in tempo in giovane età, e opportunamente "curato" (si parlava di somministrazione di ormoni) può in età adulta condurre una vita da eterosessuale.

Perché può venire in mente che l'omosessualità sia classificabile come malattia? Una malattia è una condizione dell'individuo che prima di tutto provoca disagio e sofferenza all'individuo stesso e poi di riflesso costituisce un problema per il gruppo sociale in cui è inserito. Nell'omosessualità al contrario il disagio e la sofferenza sembrano essere prima di tutto della società e solo dopo dell'individuo. Nel senso che i problemi vissuti dall'individuo omosessuale non sono affatto fisiologici, non ha dolori o impedimenti. L'omosessuale vive una condizione di sofferenza psicologica o morale puramente indotta dalla non accettazione del gruppo sociale.

Nella brevissima discussione in cui mi sono trovato si sottolineava l'urgenza dei provvedimenti da prendere. Il bambino (preadolescente) andava "corretto" il prima possibile. Cioè il suo gruppo sociale (la famiglia) doveva intuire l'esistenza del problema (ben prima probabilmente dell'individuo stesso) e agire di conseguenza. Questo modo di pensare ribadisce chiaramente il fatto che l'omosessualità risulta problematica per la società e non per l'individuo (per lui lo sarà in seguito).

E' la società in un certo senso ad essere malata. La spia più evidente di ciò sta probabilmente nella grande confusione che si fa mischiando in modo insensato tre argomenti del tutto diversi (e tutti e tre improponibili): l'omosessualità come malattia, come fatto immorale, come fatto innaturale.

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