venerdì 7 dicembre 2018

Un errore da umanisti

Giorgio Parisi, attuale presidente dell'Accademia dei Lincei scrive: "La scienza deve essere difesa non solo per i suoi aspetti pratici, ma anche per il suo valore culturale". Ecco, la cultura è sempre un problema di valori, e la scienza ad oggi ne è un po' carente, nel senso che la sua affermazione indiscutibile nella società è principalmente il risultato dei suoi aspetti pratici, quindi tecnologici, più che del suo intrinseco valore culturale, come invece succede per molte altre discipline.

La storia, la letteratura, e qualunque arte sono forme di conoscenza del mondo che hanno un valore in sé, generalmente riconosciuto. La nostra società li codifica come saperi nobili, magari più o meno ipocritamente e acriticamente (ci sono pseudoculture, sottoculture, ecc.) ma questo atteggiamento permette di inserire anche solo formalmente questi saperi nel patrimonio culturale della società, in modo stabile e ufficiale. Insomma hanno un posto nel patrimonio dei valori condivisi.

La scienza continua ad essere un corpo estraneo in questo sistema di valori. Quello che conta veramente è cosa ci permette di fare, che potere ci conferisce sulla natura, quanto a lungo e bene ci fa campare. Intendiamoci, questo aspetto è fondamentale, la scienza come attività intellettuale si è sviluppata anche per questo e come si sà la sua efficacia è enorme. Ma forse proprio l'evidenza macroscopica di questa efficacia ha prodotto il risultato finale, che mi sembra (per provare a sintetizzare) quello di una disciplina praticamente utile ma intellettualmente scomoda.

Siccome è utile ovviamente si studia, e i programmi scolastici mediamente sono abbastanza ricchi di argomenti scientifici. Ma poiché la cultura è appunto una questione di valori, questa presenza nei programmi scolastici può non bastare. Il rapporto tra scienza e tutto il resto rischia sempre di essere portato sul piano del confronto tra ciò che serve e ciò che ci piace o ci diverte, tra ciò che serve e ciò che ci forma come persone, tra ciò che serve e ciò che ci innalza lo spirito, tra ciò che serve e ciò che ci fa riflettere su di noi e sul mondo. Tra ciò che serve e ciò che non serve a un cazzo.

La cosa purtroppo è del tutto generale, arriva da tutte le parti, proprio perché è un dato culturale diffuso nella società. Sia chi ha una frequentazione con la scienza sia chi non ce l'ha la pensa sostanzialmente allo stesso modo, anche se da fronti opposti. La scienza fornisce le tecniche per risolvere i problemi pratici e per questo è importante. La scienza è solo una tecnica per risolvere problemi pratici e per questo non ha senso farla entrare (è pure faticoso) nel gruppo di quei valori culturali che fondano la società, è sufficiente consegnarla agli specialisti (in Italia se possibile, ma non necessariamente), e tenere il tutto in un posticino a parte (di cui alla fine gli specialisti sono anche fieri). Il titolo del post fa riferimento ad un retaggio forse importante per quello che sto dicendo, forse la sua causa storica. Un certo atteggiamento pseudo-umanista a tutt'oggi relega la scienza ad un fatto meramente tecnico-pratico, spogliandola del suo valore culturale intrinseco, quello che le discipline umanistiche invece indubitabilmente hanno.

E' questo che dà la dimensione del problema, ed è in questo ambito che va interpretata la frase di Parisi. Il quale aggiunge, molto significativamente: "Dovremmo avere il coraggio di prendere esempio da Robert Wilson, fisico statunitense che nel 1969, di fronte ad un senatore che insistentemente chiedeva quali fossero le applicazioni della costruzione dell'acceleratore al Fermilab, e in particolare se fosse utile militarmente per difendere il paese, risponde 'Il suo valore sta nell'amore per la cultura: è come la pittura, la scultura, la poesia, come tutte quelle attività di cui gli americani sono patriotticamente fieri; non serve per difendere il nostro paese, ma fa che valga la pena difendere il nostro paese'".

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