giovedì 8 dicembre 2011

Pensioni e lavoro

Solo questa mattina sento alla radio un commento di un ascoltatore che pone il problema che mi pongo anche io riguardo alla riforma delle pensioni. Si tratta per me di una paura, per l'ascoltatore di un fatto concreto.

Tanto per riassumere: l'inps è la voce di spesa pubblica di gran lunga più pesante per lo Stato, un modo per farla pesare di meno è quello di aumentare l'età pensionabile (progressivamente o meno, dipende dall'urgenza del provvedimento, purtroppo); questo anche in relazione all'aumento dell'età media della popolazione, cioè all'aumento del numero di anni di godibilità della pensione e quindi del peso sulla spesa pubblica, e in conformità a quanto sta succedendo o è già successo più o meno in tutta Europa.

L'ascoltatore di questa mattina è in una situazione che io ho la sensazione che potrà essere sempre più frequente nel prossimo futuro. E' stato un dirigente di un azienda che un paio di anni fa lo ha licenziato (con due anni di stipendio) a causa della crisi, o meglio usando a pretesto la crisi per "svecchiare" il personale. Questo signore si trova oggi su un mercato del lavoro che non lo fa lavorare perchè lo ritiene troppo "anziano" per essere pienamente produttivo e con uno Stato che siccome lo ritiene ancora troppo "giovane" gli sposta la pensione cinque anni più in là del previsto.

Un mio amico, dirigente in una multinazionale, fa un discorso del genere ormai da un po'. E' convinto che la sua società non lo farà arrivare alla pensione perchè non si vuole tenere i sessantenni in azienda. Io non mi trovo nella stessa situazione in quanto non sono dirigente ma il problema mi sembra più generale. Ho già visto non-dirigenti trattati più o meno allo stesso modo (anzi, certamente peggio, sul versante contrattuale) sempre con lo spettro della crisi dell'azienda. La capacità di mandar via un non-dirigente è ovviamente molto minore, ma alla fine si fa anche quello, in un modo o nell'altro.

Il problema vero dunque, oltre alla crisi di sviluppo, è il mercato del lavoro, almeno in Italia. Io sono sicuro che se perdo il lavoro (magari per la chiusura definitiva della mia azienda, o attraverso una drastica riduzione del personale per far fronte alle perdite, ipotesi costantemente dietro l'angolo per molte piccole aziende) non avrò grandi possibilità, nella situazione attuale, di trovarne un altro, intendo di trovarne un altro con un regolare (e sacrosanto) contratto a tempo indeterminato, con annessi e connessi, e con la ragionevole garanzia di uno stipendio decente. Questo genera un senso di malessere e di impotenza che penso di condividere ormai con una larga fascia di lavoratori. E siamo ancora quelli che hanno un lavoro, dunque la "generazione fortunata".

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