La fisica come attività professionale richiedeva la volontà di farsi carico di un alto grado di incertezza (da più lati, non solo quello economico). Un carico che poteva essere controbilanciato solo da elementi come: grande determinazione, disponibilità ad un sacrificio che non aveva però la caratteristica di farti vedere una meta anche solo soddisfacente, sufficienti risorse economiche personali (un po' di spalle coperte per intenderci), e non ultimo grande fiducia nelle proprie capacità professionali e nel proprio talento. Decisamente troppo per me. Tutti i fattori considerati insieme non tenevano la bilancia in equilibrio neanche lontanamente. Gran bella disciplina la fisica ma tutto troppo difficile, da qualunque parte si guardasse il problema. Fuori target.
La musica come attività professionale non è mai stata per me un'opzione seria. Ma comunque la scelta dello strumento studiato (il pianoforte) non mi avrebbe certo portato lontano. Le difficoltà ad occhio e croce sarebbero state molto simili a quelle descritte (e pienamente vissute) per la fisica. La bilancia sarebbe stata anche in quel caso inesorabilmente fuori dall'equilibrio. Non sarei stato un soggetto giusto. Fuori target.
La musica come attività da dilettante (cioè per il solo gusto di farla) l'ho praticata per un buon periodo, anche se come batterista e non come pianista. In quel caso ad un certo punto mi sono ritrovato in un limbo, in una situazione in cui non mi riconoscevo, e sono abbastanza sicuro che questo valeva solo per me e non per i miei compagni di divertimento. Il punto era che quello che mi sarebbe piaciuto fare non arrivavo a farlo perchè avrebbe richiesto un livello sostanzialmente da professionista, o quasi, e quello che facevo non mi dava più la giusta soddisfazione. Stallo frustrante. Non ero più nel posto giusto. Fuori target.
Attualmente "strimpello" da solo il mio pianoforte nelle ore serali o notturne (in cuffia) ma la sensazione ritorna spesso a galla: quello che vorrei fare richiede un tempo esagerato, che non mi posso permettere. Il resto mi interessa ben poco. Il karaoke sarebbe stato più consono, più alla mia portata e di maggior soddisfazione, sicuramente di minore frustrazione. Non mi sembra di essere seduto davanti allo strumento giusto. Fuori target.
La fisica è rimasta sempre uno dei miei principali interessi culturali, allargati alla scienza in generale e alla sua storia. Ma la lettura di manuali e articoli non può essere fatta con efficacia da chi non sia direttamente coinvolto a livello professionale (e anche in questo caso l'unica letteratura specialistica veramente accessibile è quella strettamente legata al proprio campo di ricerca). Si apre invece la vasta (non esageriamo) letteratura divulgativa. Purtroppo la stragrande maggioranza di questa produzione è rivolta ad un pubblico sì di buona cultura (qualche volta neanche quello) ma in generale poco preparato. La classica frase "ogni formula riportata nel libro dimezza il potenziale pubblico disposto a leggere quel libro" che si legge frequentemente nelle prefazioni dei saggi di divulgazione dà un'idea chiara di quello che intendo dire. Per me questo si traduce spesso in un vero e proprio problema. Tra il testo che descrive i concetti con metafore troppo semplicistiche e il manuale tecnico inaccessibile faccio spesso fatica a trovare il mio posto. Dondolo tra gli uni e gli altri senza trovare pace. Non sono un soggetto poi tanto giusto neppure per questo. Fuori target.
Il mio lavoro è quello della formazione tecnologica. Sostanzialmente insegno tecnologie informatiche ad un pubblico costituito in massima parte da tecnici d'azienda. E' vero, questo è lavoro e il pane che porto a casa è la sua giustificazione fondamentale. Però anche qui mi ritrovo spesso ad oscillare tra l'esigenza di raccontare l'informatica del "come si fa e dove si fa" e il gusto di raccontare un'informatica un po' più stimolante, fatta di problematiche più generali, di approcci di respiro più ampio e perchè no, anche di approcci più "storici". Un gusto un po' frustrato dall'obbligo di rispettare una scaletta operativa e da un pubblico che molto spesso è mosso da esigenze molto più "terrestri" (e magari hanno anche le loro ragioni). Insomma, sebbene lavori ormai da anni in questo settore, facendolo in modo ben inquadrato e organizzato, non mi sento sempre esattamente nel posto giusto. Fuori target?
Evito di trarre conclusioni (e anche di continuare con questa filastrocca).
sabato 19 aprile 2014
domenica 6 aprile 2014
Una chiacchierata tra fisici
Oggi ho incontrato un fisico. Uno che come me pur studiando tanto, con convinzione e con serietà, non ha trasformato la fisica in una professione. Uno che come me la professione se l'è dovuta cercare altrove. Capita in questo campo (come in molti altri) e non c'è da meravigliarsi. Inutile alla fine tornare per l'ennesima volta sulle ragioni che ci hanno allontanato dalla fisica professionale o più precisamente che non ci hanno mai permesso veramente di entrarci, ragioni oggettive e forse ancora un po' dolenti, a cui si intrecciano quelle personali dovute alle contingenze delle nostre vite.
Quello che mi ha colpito (ma forse neanche qui c'è molto da meravigliarsi) è la constatazione di quanto la fisica non ci abbia mai veramente abbandonati, nel senso che sembra giocare il ruolo di una vecchia passione che riesce ancora in certe occasioni a "smuovere la pancia". L'occasione è stata semplicemente quella di raccontarci per sommi capi quello di cui all'epoca ci occupavamo, ma è risultata sufficiente per portarci rapidamente a fare considerazioni di una qualche profondità sulla scienza. Una cosa che solo due appassionati possono fare in così breve tempo e in una cornice così occasionale come una festa di compleanno.
Non so come si chiama ma so che si è occupato di teoria delle stringhe, quella che per anni ha rappresentato un po' la via maestra al sacro graal della fisica fondamentale: l'unificazione delle forze. Oggi non sembra essere più così, o almeno non è più così scontato. Per quello che ne so ci sono tuttora molti gruppi di ricerca al mondo che ancora se ne occupano ma certamente non è più così "di moda". La sensazione (corroborata da qualche lettura) è che molti stiano riciclando i potenti strumenti matematici e le tecniche teoriche sviluppate per questa teoria in altri ambiti della fisica (come dice Carlo Rovelli "La fisica teorica è come il maiale: non si butta via niente").
La ragione forse più importante per cui una teoria che ha assorbito così tante menti per così tanto tempo si sta probabilmente arenando è "banalmente" che non ha mai avuto nessun vero riscontro sperimentale, nessun esperimento che ne indicasse chiaramente la validità o che potesse dare una direzione d'indagine. Dalla teoria sembrano uscir fuori un numero sterminato di soluzioni diverse, tutte ugualmente ammissibili in assenza di eventi sperimentali discriminanti. La supersimmetria, altro grande filone teorico della fisica delle particelle, sembra fare la stessa fine. L'esperimento LHC, così osannato per aver trovato il famoso bosone di Higgs, di fatto non ha trovato nient'altro.
Ecco le considerazioni profonde (potrebbero far ridere ma alla fine hanno un grande fascino): a che punto siamo? Che momento storico è questo? Di cosa c'è bisogno? Come funziona la scienza? Come e in che condizioni può fare dei decisivi passi avanti? La costruzione di teorie sempre più complesse, generali e comprensive ma che non riescono ad avere un rapporto con i fatti sperimentali dove portano? E' conoscenza? Ha senso immaginare con teorie sempre più potenti, risultate da elaborazioni sempre più complesse di ipotesi sostanzialmente non verificabili, quello che poi opportuni esperimenti ci dovrebbero meramente confermare? O non è forse alla fine necessario avere risultati sperimentali nuovi, chiari, contraddittori con le teorie ufficiali e che per questo ci possano indicare direzioni nuove? Chi può guidare la nostra immaginazione se non la natura stessa? Non è forse successo proprio questo con le due ultime grandi rivoluzioni concettuali della fisica: la relatività generale e la meccanica quantistica? Non è stato un quadro fenomenologico sostanzialmente nuovo e non-interpretato dalle teorie classiche a scatenare la creatività dei grandi scienziati della generazione del primo novecento? Non è poi questa la sostanza della scienza galileiana?
Immaginare e osservare, osservare e immaginare. Nella dialettica tra immaginazione e osservazione sta il motore più potente per costruire la nostra conoscenza del mondo.
Bene, è stata una bella chiacchierata. Beviamoci sopra.
Quello che mi ha colpito (ma forse neanche qui c'è molto da meravigliarsi) è la constatazione di quanto la fisica non ci abbia mai veramente abbandonati, nel senso che sembra giocare il ruolo di una vecchia passione che riesce ancora in certe occasioni a "smuovere la pancia". L'occasione è stata semplicemente quella di raccontarci per sommi capi quello di cui all'epoca ci occupavamo, ma è risultata sufficiente per portarci rapidamente a fare considerazioni di una qualche profondità sulla scienza. Una cosa che solo due appassionati possono fare in così breve tempo e in una cornice così occasionale come una festa di compleanno.
Non so come si chiama ma so che si è occupato di teoria delle stringhe, quella che per anni ha rappresentato un po' la via maestra al sacro graal della fisica fondamentale: l'unificazione delle forze. Oggi non sembra essere più così, o almeno non è più così scontato. Per quello che ne so ci sono tuttora molti gruppi di ricerca al mondo che ancora se ne occupano ma certamente non è più così "di moda". La sensazione (corroborata da qualche lettura) è che molti stiano riciclando i potenti strumenti matematici e le tecniche teoriche sviluppate per questa teoria in altri ambiti della fisica (come dice Carlo Rovelli "La fisica teorica è come il maiale: non si butta via niente").
La ragione forse più importante per cui una teoria che ha assorbito così tante menti per così tanto tempo si sta probabilmente arenando è "banalmente" che non ha mai avuto nessun vero riscontro sperimentale, nessun esperimento che ne indicasse chiaramente la validità o che potesse dare una direzione d'indagine. Dalla teoria sembrano uscir fuori un numero sterminato di soluzioni diverse, tutte ugualmente ammissibili in assenza di eventi sperimentali discriminanti. La supersimmetria, altro grande filone teorico della fisica delle particelle, sembra fare la stessa fine. L'esperimento LHC, così osannato per aver trovato il famoso bosone di Higgs, di fatto non ha trovato nient'altro.
Ecco le considerazioni profonde (potrebbero far ridere ma alla fine hanno un grande fascino): a che punto siamo? Che momento storico è questo? Di cosa c'è bisogno? Come funziona la scienza? Come e in che condizioni può fare dei decisivi passi avanti? La costruzione di teorie sempre più complesse, generali e comprensive ma che non riescono ad avere un rapporto con i fatti sperimentali dove portano? E' conoscenza? Ha senso immaginare con teorie sempre più potenti, risultate da elaborazioni sempre più complesse di ipotesi sostanzialmente non verificabili, quello che poi opportuni esperimenti ci dovrebbero meramente confermare? O non è forse alla fine necessario avere risultati sperimentali nuovi, chiari, contraddittori con le teorie ufficiali e che per questo ci possano indicare direzioni nuove? Chi può guidare la nostra immaginazione se non la natura stessa? Non è forse successo proprio questo con le due ultime grandi rivoluzioni concettuali della fisica: la relatività generale e la meccanica quantistica? Non è stato un quadro fenomenologico sostanzialmente nuovo e non-interpretato dalle teorie classiche a scatenare la creatività dei grandi scienziati della generazione del primo novecento? Non è poi questa la sostanza della scienza galileiana?
Immaginare e osservare, osservare e immaginare. Nella dialettica tra immaginazione e osservazione sta il motore più potente per costruire la nostra conoscenza del mondo.
Bene, è stata una bella chiacchierata. Beviamoci sopra.
martedì 7 gennaio 2014
Onestà intellettuale
Devo ammettere che la storia del carteggio tra Russel e Frege, risalente ai primissimi anni del 1900 e che ha segnato in modo profondo lo sviluppo della logica formale culminato poco più tardi con i lavori di Kurt Gödel, mi suscita una certa ilarità; ci trovo delle assonanze con la comicità grottesca che si incontra nei libri e nei film di Fantozzi. Il punto però è un altro: l'episodio è un incredibile esempio di onestà intellettuale. Citando Gilberto Corbellini "[...] si tratta di un'impresa che insegna ad apprezzare valori come l'onestà, il dubbio, il rispetto per i fatti provati, l'apertura mentale, l'affidabilità e la tolleranza".
Gottlob Frege (1848-1925) è stato uno dei più importanti logici del suo tempo. Ha preso in consegna l'eredità di grandi scienziati come George Boole e Georg Cantor e ha tentato di estendere alcuni dei loro risultati fino ad affermare la volontà di ridurre tutta l'aritmetica alla sola logica (logicismo), spendendo praticamente tutta la sua vita professionale per questo obiettivo. Si trattava di mostrare che tutte le leggi dell'aritmetica si possono derivare da un sistema di assiomi finito e da un insieme (sempre finito) di regole di inferenza le cui ripetute applicazioni a partire dagli assiomi avrebbero portato a qualunque affermazione vera dell'aritmetica.
Era certamente uno sforzo considerevole, fatto in solitudine, e che stava prendendo corpo in un'opera molto ampia dal titolo "Die Grundlagen der Arithmetik" (I Fondamenti dell'Aritmetica) da pubblicare in più volumi. Me lo immagino nel suo studio, giornate intere passate a scrivere, concentrato con la linguetta di fuori (no, questo è Fantozzi).
Un bel giorno, il 16 giugno 1902, arriva sulla sua scrivania una lettera di un giovane matematico inglese, certo Bertrand Russell, probabilmente tra i pochissimi studiosi che erano venuti a conoscenza della sua opera attraverso la lettura del primo volume pubblicato poco prima a spese dell'autore. La lettera conteneva una serie di sinceri apprezzamenti per il suo lavoro, tipo questo: "La trattazione rigorosa della logica nelle questioni fondamentali [...] è rimasta molto indietro; nella sua opera ho trovato la migliore elaborazione del nostro tempo, e mi sono permesso quindi di esprimerle il mio profondo rispetto". Ma tra un complimento e l'altro veniva anche rilevata una "curiosa anomalia", un "leggerissimo problema" (usando un linguaggio un po' fantozziano) che Russell esprimeva molto rispettosamente come una difficoltà: "Sono d'accordo con lei su tutte le cose essenziali [...] Trovo nei suoi lavori analisi, distinzioni e definizioni che invano si cercherebbero nell'opera di altri logici. [...] C'è solo un punto nel quale ho incontrato una difficoltà".
Questa "difficoltà" aveva per il lavoro di Frege la stessa conseguenza che potrebbe avere quello di togliere il mattoncino che fa crollare completamente la torre del Jenga! L'opera monumentale era stata messa davanti ad un ostacolo che si rileverà ben presto insormontabile (ci lavorò a lungo anche lo stesso Russell). Un'obiezione di fondo non aggirabile. Per la cronaca si trattava di quello che successivamente è passato alla storia come "il paradosso di Russell", del quale una delle tante formulazioni può essere: "la classe di tutte le classi che non contengono sé stesse contiene se stessa?" (che però non credo sia quella originale proposta a Frege). Me lo immagino nel suo studio mentre legge questa lettera e la sua faccia comincia a cambiare colore diventando nell'ordine: rosso, rosso pompeiano, arancio aragosta, viola, viola addobbo funebre, blu tenebra... (no, questo è sempre Fantozzi).
Ma la reazione ufficiale di Frege fu come dicevo di grande onestà intellettuale. Non tentò neppure in una fase iniziale di ignorare o nascondere quanto Russell gli aveva scritto. Stava per dare alle stampe il suo secondo volume quando decise di pubblicarlo con una postilla che faceva riferimento proprio all'obiezione di Russell. La causa che aveva fatto crollare irrimediabilmente la possibilità di raggiungere l'obiettivo più ambizioso della sua intera attività di ricerca veniva pubblicato insieme all'opera che avrebbe dovuto coronare questa stessa attività. La postilla di Frege cominciava così: "Per uno scienziato non c'è niente di peggio che veder crollare i fondamenti del suo lavoro proprio quando questo è stato appena completato. Io sono stato messo in tale situazione da una lettera del signor Bertrand Russell".
Molti anni dopo lo stesso Russell riconobbe il grande valore morale del comportamento di Frege scrivendo: "Quando penso ad atti di integrità e magnanimità, mi rendo conto che fra tutti quelli che conosco non c'è niente che regga il confronto con la dedizione di Frege alla verità. L'opera della sua vita era sul punto di essere completata, gran parte di essa era stata ignorata a tutto vantaggio di uomini infinitamente meno capaci, il secondo volume stava per essere pubblicato, e quando egli scoprì che il suo assunto fondamentale era errato la lieta e serena dirittura intellettuale con cui reagì prevalse chiaramente su ogni sentimento personale di delusione. Fu una cosa quasi sovrumana, una dimostrazione significativa di ciò di cui sono capaci gli esseri umani se è al lavoro creativo e alla conoscenza che si dedicano, e non all'impresa - tanto più grossolana - di emergere e farsi conoscere".
Frege morì nel 1925 risparmiandosi così i fondamentali teoremi di incompletezza di Gödel (1931) con i quali si dimostra formalmente che lo scopo da lui perseguito era semplicemente irraggiungibile. Me lo immagino nei suoi ultimi anni, seduto alla sua scrivania, piangere a lungo in silenzio, con grande dignità (cit. Fantozzi).
Gottlob Frege (1848-1925) è stato uno dei più importanti logici del suo tempo. Ha preso in consegna l'eredità di grandi scienziati come George Boole e Georg Cantor e ha tentato di estendere alcuni dei loro risultati fino ad affermare la volontà di ridurre tutta l'aritmetica alla sola logica (logicismo), spendendo praticamente tutta la sua vita professionale per questo obiettivo. Si trattava di mostrare che tutte le leggi dell'aritmetica si possono derivare da un sistema di assiomi finito e da un insieme (sempre finito) di regole di inferenza le cui ripetute applicazioni a partire dagli assiomi avrebbero portato a qualunque affermazione vera dell'aritmetica.
Era certamente uno sforzo considerevole, fatto in solitudine, e che stava prendendo corpo in un'opera molto ampia dal titolo "Die Grundlagen der Arithmetik" (I Fondamenti dell'Aritmetica) da pubblicare in più volumi. Me lo immagino nel suo studio, giornate intere passate a scrivere, concentrato con la linguetta di fuori (no, questo è Fantozzi).
Un bel giorno, il 16 giugno 1902, arriva sulla sua scrivania una lettera di un giovane matematico inglese, certo Bertrand Russell, probabilmente tra i pochissimi studiosi che erano venuti a conoscenza della sua opera attraverso la lettura del primo volume pubblicato poco prima a spese dell'autore. La lettera conteneva una serie di sinceri apprezzamenti per il suo lavoro, tipo questo: "La trattazione rigorosa della logica nelle questioni fondamentali [...] è rimasta molto indietro; nella sua opera ho trovato la migliore elaborazione del nostro tempo, e mi sono permesso quindi di esprimerle il mio profondo rispetto". Ma tra un complimento e l'altro veniva anche rilevata una "curiosa anomalia", un "leggerissimo problema" (usando un linguaggio un po' fantozziano) che Russell esprimeva molto rispettosamente come una difficoltà: "Sono d'accordo con lei su tutte le cose essenziali [...] Trovo nei suoi lavori analisi, distinzioni e definizioni che invano si cercherebbero nell'opera di altri logici. [...] C'è solo un punto nel quale ho incontrato una difficoltà".
Questa "difficoltà" aveva per il lavoro di Frege la stessa conseguenza che potrebbe avere quello di togliere il mattoncino che fa crollare completamente la torre del Jenga! L'opera monumentale era stata messa davanti ad un ostacolo che si rileverà ben presto insormontabile (ci lavorò a lungo anche lo stesso Russell). Un'obiezione di fondo non aggirabile. Per la cronaca si trattava di quello che successivamente è passato alla storia come "il paradosso di Russell", del quale una delle tante formulazioni può essere: "la classe di tutte le classi che non contengono sé stesse contiene se stessa?" (che però non credo sia quella originale proposta a Frege). Me lo immagino nel suo studio mentre legge questa lettera e la sua faccia comincia a cambiare colore diventando nell'ordine: rosso, rosso pompeiano, arancio aragosta, viola, viola addobbo funebre, blu tenebra... (no, questo è sempre Fantozzi).
Ma la reazione ufficiale di Frege fu come dicevo di grande onestà intellettuale. Non tentò neppure in una fase iniziale di ignorare o nascondere quanto Russell gli aveva scritto. Stava per dare alle stampe il suo secondo volume quando decise di pubblicarlo con una postilla che faceva riferimento proprio all'obiezione di Russell. La causa che aveva fatto crollare irrimediabilmente la possibilità di raggiungere l'obiettivo più ambizioso della sua intera attività di ricerca veniva pubblicato insieme all'opera che avrebbe dovuto coronare questa stessa attività. La postilla di Frege cominciava così: "Per uno scienziato non c'è niente di peggio che veder crollare i fondamenti del suo lavoro proprio quando questo è stato appena completato. Io sono stato messo in tale situazione da una lettera del signor Bertrand Russell".
Molti anni dopo lo stesso Russell riconobbe il grande valore morale del comportamento di Frege scrivendo: "Quando penso ad atti di integrità e magnanimità, mi rendo conto che fra tutti quelli che conosco non c'è niente che regga il confronto con la dedizione di Frege alla verità. L'opera della sua vita era sul punto di essere completata, gran parte di essa era stata ignorata a tutto vantaggio di uomini infinitamente meno capaci, il secondo volume stava per essere pubblicato, e quando egli scoprì che il suo assunto fondamentale era errato la lieta e serena dirittura intellettuale con cui reagì prevalse chiaramente su ogni sentimento personale di delusione. Fu una cosa quasi sovrumana, una dimostrazione significativa di ciò di cui sono capaci gli esseri umani se è al lavoro creativo e alla conoscenza che si dedicano, e non all'impresa - tanto più grossolana - di emergere e farsi conoscere".
Frege morì nel 1925 risparmiandosi così i fondamentali teoremi di incompletezza di Gödel (1931) con i quali si dimostra formalmente che lo scopo da lui perseguito era semplicemente irraggiungibile. Me lo immagino nei suoi ultimi anni, seduto alla sua scrivania, piangere a lungo in silenzio, con grande dignità (cit. Fantozzi).
giovedì 2 gennaio 2014
Sperimentazione animale
L'altro ieri (ultima azione significativa del mio 2013) ho deciso di firmare la petizione di SEL sulla sperimentazione animale. In sostanza si tratta di una presa di posizione a favore del mondo scientifico nei riguardi del modo in cui il Parlamento italiano sta recependo la direttiva UE del Parlamento europeo, risalente al 2010 e "già frutto di un lungo processo di discussione tra associazioni animaliste e ricercatori". La maggior parte dei paesi europei hanno già recepito questa direttiva senza nessuna modifica. Il Parlamento italiano si appresta a farlo con l'introduzione di ulteriori norme più restrittive che, a detta del mondo scientifico, limiterebbe in modo eccessivo l'azione della ricerca.
Dettagli sulla questione si trovano in vari punti su internet e non mi interessa poi così tanto discuterli qui. Quello che più mi impressiona della faccenda lo riporto in questi due punti, facce della stessa medaglia.
1. Nella discussione di una legge del genere a me pare evidente che la politica dovrebbe interpellare il mondo scientifico. Una cosa che, viste le reazioni, non mi sembra sia successa. Introdurre ulteriori elementi restrittivi ad una legge già ampiamente discussa (e che già esprime un punto di equilibrio), sebbene allo scopo di aumentare le garanzie delle cavie animali, che impatto pratico avrà sulla ricerca scientifica? E' lecita la domanda? E' importante farsela? E a chi dovremmo porla per ottenere una risposta sensata? Per quale motivo i politici (o gran parte dei politici) non ritiene necessario avere un rapporto stretto (per questioni del genere e per molte altre) con un settore culturale così importante per il progresso di una società?
2. Una bella fetta di opinione pubblica italiana (a cui la politica è ovviamente molto sensibile) ha evidentemente una cultura scientifica così scarsa che non riesce proprio a valutare l'importanza vitale della ricerca scientifica, neanche quella in ambito medico, che pure dovrebbe essere la più facile da riconoscere. Probabilmente per molti italiani è estremamente difficile valutare le conseguenze che una legge del genere potrebbe avere sul medio-lungo periodo dal punto di vista del saper capire e trattare le patologie dell'uomo. Forse perché non hanno alcuna idea (neanche vaga) dei processi che portano nel tempo a definire terapie di successo o farmaci funzionanti. Proprio non ci hanno mai pensato.
Questa mancanza di comunicazione così evidente tra la società civile e la scienza è alla base di distorsioni macroscopiche nell'interpretazione di fatti evidenti e lascia spazio ad animalismi estremi che non hanno davvero alcun senso. Inoltre a me pare del tutto schizofrenica una società che usa quotidianamente tutte le conquiste scientifiche e tecnologiche degli ultimi secoli (ed in maniera sempre più ingorda, sempre più gonfiata dal consumismo) senza sapere assolutamente da dove vengono e quindi alla fine senza saperne riconoscere il valore.
Nota: il cosiddetto metodo stamina è un altro episodio istruttivo in tal senso. Una "cosa" che non è stata mai descritta da nessuna pubblicazione scientifica viene improvvisamente presentata come una terapia e sottoposta ad una "sperimentazione" (con ingenti finanziamenti pubblici) per poi scoprire che non si sa neanche cosa sperimentare dal momento che non si sa di che cosa si sta parlando! Con controversie risolte dal TAR anzichè discusse negli ambienti scientifici appropriati. Il tutto giustificato da buona parte dell'opinione pubblica con un ragionamento del tutto antiscientifico del tipo "visto che per molte patologie non si sa fare niente di risolutivo tentiamo questo e vediamo cosa succede, non si sa mai ... ho sentito che uno dei pazienti trattati così è un po' migliorato ...". Peraltro si tratterebbe di sperimentazione umana, con buona pace degli animalisti.
Dettagli sulla questione si trovano in vari punti su internet e non mi interessa poi così tanto discuterli qui. Quello che più mi impressiona della faccenda lo riporto in questi due punti, facce della stessa medaglia.
1. Nella discussione di una legge del genere a me pare evidente che la politica dovrebbe interpellare il mondo scientifico. Una cosa che, viste le reazioni, non mi sembra sia successa. Introdurre ulteriori elementi restrittivi ad una legge già ampiamente discussa (e che già esprime un punto di equilibrio), sebbene allo scopo di aumentare le garanzie delle cavie animali, che impatto pratico avrà sulla ricerca scientifica? E' lecita la domanda? E' importante farsela? E a chi dovremmo porla per ottenere una risposta sensata? Per quale motivo i politici (o gran parte dei politici) non ritiene necessario avere un rapporto stretto (per questioni del genere e per molte altre) con un settore culturale così importante per il progresso di una società?
2. Una bella fetta di opinione pubblica italiana (a cui la politica è ovviamente molto sensibile) ha evidentemente una cultura scientifica così scarsa che non riesce proprio a valutare l'importanza vitale della ricerca scientifica, neanche quella in ambito medico, che pure dovrebbe essere la più facile da riconoscere. Probabilmente per molti italiani è estremamente difficile valutare le conseguenze che una legge del genere potrebbe avere sul medio-lungo periodo dal punto di vista del saper capire e trattare le patologie dell'uomo. Forse perché non hanno alcuna idea (neanche vaga) dei processi che portano nel tempo a definire terapie di successo o farmaci funzionanti. Proprio non ci hanno mai pensato.
Questa mancanza di comunicazione così evidente tra la società civile e la scienza è alla base di distorsioni macroscopiche nell'interpretazione di fatti evidenti e lascia spazio ad animalismi estremi che non hanno davvero alcun senso. Inoltre a me pare del tutto schizofrenica una società che usa quotidianamente tutte le conquiste scientifiche e tecnologiche degli ultimi secoli (ed in maniera sempre più ingorda, sempre più gonfiata dal consumismo) senza sapere assolutamente da dove vengono e quindi alla fine senza saperne riconoscere il valore.
Nota: il cosiddetto metodo stamina è un altro episodio istruttivo in tal senso. Una "cosa" che non è stata mai descritta da nessuna pubblicazione scientifica viene improvvisamente presentata come una terapia e sottoposta ad una "sperimentazione" (con ingenti finanziamenti pubblici) per poi scoprire che non si sa neanche cosa sperimentare dal momento che non si sa di che cosa si sta parlando! Con controversie risolte dal TAR anzichè discusse negli ambienti scientifici appropriati. Il tutto giustificato da buona parte dell'opinione pubblica con un ragionamento del tutto antiscientifico del tipo "visto che per molte patologie non si sa fare niente di risolutivo tentiamo questo e vediamo cosa succede, non si sa mai ... ho sentito che uno dei pazienti trattati così è un po' migliorato ...". Peraltro si tratterebbe di sperimentazione umana, con buona pace degli animalisti.
venerdì 27 dicembre 2013
Conformismo
In seguito ad un episodio molto simpatico di adolescenti che decidono di "protestare" contro il conformismo della società presentandosi a scuola in pigiama, e aiutato dal fatto che mi trovo a passeggiare per le strade di Milano da solo, comincio ad interrogarmi su quanto è reale il rischio di essere conformisti in molti atteggiamenti e pensieri della vita quotidiana. Intanto di che cosa sto parlando? L'episodio del pigiama mi aiuta fino ad un certo punto anche se devo ammettere che gli adolescenti, per il fatto che hanno appena cominciato ad osservare il mondo e hanno ancora intatta tutta la loro carica di stupore, riescono ad essere stimolanti. Quello che si intuisce facilmente è che l'uscire di casa solo a condizione di "conformarsi" ad un certo modo di vestire non sembra essere la forma di conformismo peggiore, anzi la chiamerei convenzione sociale.
Direi che per conformismo si può intendere l'atteggiamento che porta ad uniformare il proprio pensiero a quello degli altri, senza lo sforzo di un'elaborazione personale, dunque senza una scelta. Questa capacità di elaborazione personale è innanzitutto stimolata dall'ambiente educativo (e in massima parte proprio negli anni dell'adolescenza) ed è poi supportata in modo decisivo dalla possibilità/volontà di essere adeguatamente informati. E' soprattutto per questo che la gestione "opportuna" della formazione e dell'informazione è sempre stata un importante strumento di potere, in quanto permette di costruire un pensiero uniforme, o di "scoraggiare" forme di pensiero libero, che poi è la stessa cosa.
Se poi si sono avuti tutti gli strumenti e le possibilità di analizzare una cosa che fanno tutti, come vestirsi in un certo modo prima di uscire di casa, e si sceglie alla fine di farlo, direi che semplicemente si accetta una convenzione sociale, e uscire di casa in pigiama perde un po' della sua ipotetica carica anticonformista. Se lo si fa a quindici anni però va bene, ed è certamente meglio di non essersi mai posti il problema.
Probabilmente il conformismo è un comportamento del tutto naturale per l'uomo, alimenta il senso di appartenenza ad un gruppo sociale e propaga velocemente modelli di pensiero, specie se questi partono da una fonte riconosciuta come socialmente autorevole. Può essere inteso come un vero e proprio elemento naturale di stabilità sociale. Il libero pensiero invece tende a creare diversificazione, e inevitabilmente destabilizza. E' il motore che può far trovare percorsi nuovi ad un gruppo sociale.
A questo punto mi sembra quasi di poter fare un'analogia con l'evoluzione del mondo biologico, in cui i meccanismi interni che lo producono sono proprio la propagazione della copia fedele delle informazioni (la conservazione) e la comparsa casuale delle mutazioni (l'innovazione), a loro volta propagate grazie al primo meccanismo. Però questi due elementi sono in stretta relazione tra loro ed entrambi importanti, ognuno con il suo compito positivo. Forse con questa analogia un po' azzardata sto dando a quello che chiamo conformismo un valore immeritato. O no? Forse il conformismo, presente in una dose opportuna, è fisiologico in una società che voglia sopravvivere? Ma allora la libertà di pensiero, che penso sia un valore assoluto per l'individuo, la si può considerare tale anche per l'intera società? Beh, una cosa è abbastanza certa: ciascun individuo è nella sua vita un esempio di tutte e due le cose, anche contemporaneamente.
Direi che per conformismo si può intendere l'atteggiamento che porta ad uniformare il proprio pensiero a quello degli altri, senza lo sforzo di un'elaborazione personale, dunque senza una scelta. Questa capacità di elaborazione personale è innanzitutto stimolata dall'ambiente educativo (e in massima parte proprio negli anni dell'adolescenza) ed è poi supportata in modo decisivo dalla possibilità/volontà di essere adeguatamente informati. E' soprattutto per questo che la gestione "opportuna" della formazione e dell'informazione è sempre stata un importante strumento di potere, in quanto permette di costruire un pensiero uniforme, o di "scoraggiare" forme di pensiero libero, che poi è la stessa cosa.
Se poi si sono avuti tutti gli strumenti e le possibilità di analizzare una cosa che fanno tutti, come vestirsi in un certo modo prima di uscire di casa, e si sceglie alla fine di farlo, direi che semplicemente si accetta una convenzione sociale, e uscire di casa in pigiama perde un po' della sua ipotetica carica anticonformista. Se lo si fa a quindici anni però va bene, ed è certamente meglio di non essersi mai posti il problema.
Probabilmente il conformismo è un comportamento del tutto naturale per l'uomo, alimenta il senso di appartenenza ad un gruppo sociale e propaga velocemente modelli di pensiero, specie se questi partono da una fonte riconosciuta come socialmente autorevole. Può essere inteso come un vero e proprio elemento naturale di stabilità sociale. Il libero pensiero invece tende a creare diversificazione, e inevitabilmente destabilizza. E' il motore che può far trovare percorsi nuovi ad un gruppo sociale.
A questo punto mi sembra quasi di poter fare un'analogia con l'evoluzione del mondo biologico, in cui i meccanismi interni che lo producono sono proprio la propagazione della copia fedele delle informazioni (la conservazione) e la comparsa casuale delle mutazioni (l'innovazione), a loro volta propagate grazie al primo meccanismo. Però questi due elementi sono in stretta relazione tra loro ed entrambi importanti, ognuno con il suo compito positivo. Forse con questa analogia un po' azzardata sto dando a quello che chiamo conformismo un valore immeritato. O no? Forse il conformismo, presente in una dose opportuna, è fisiologico in una società che voglia sopravvivere? Ma allora la libertà di pensiero, che penso sia un valore assoluto per l'individuo, la si può considerare tale anche per l'intera società? Beh, una cosa è abbastanza certa: ciascun individuo è nella sua vita un esempio di tutte e due le cose, anche contemporaneamente.
giovedì 24 ottobre 2013
La "mancanza di fascino" della Scienza
Due elementi che secondo me rendono poco affascinante la Scienza a molte persone che si trovano volenti o nolenti a studiarla in qualche periodo della loro vita sono:
1. la descrizione di aspetti "troppo particolari" del mondo,
2. la potenziale "rivedibilità" di tutti i suoi risultati.
Nel primo caso a domande del tipo "in quanto tempo si ferma un grave che scivola su un piano in presenza di un determinato attrito" si vorrebbe rispondere "ecchissenefrega". Dalla Scienza si vorrebbero sempre grandi domande e soprattutto grandi risposte. Nel secondo caso seppure si possono ottenere certe volte dalla Scienza anche grandi risposte queste non sono mai definitive, sono sempre "falsificabili", e agli occhi di molti rischiano sempre di sfumare in semplici opinioni.
A questo proposito riporto due interessanti affermazioni intorno alla Scienza, ciascuna focalizza uno degli elementi poco affascinanti che ho riportato sopra e lo presenta come un punto di forza del processo di ricerca scientifica, un suo elemento caratterizzante e imprescindibile. La prima (già in parte riportata in un mio post precedente) è di François Jacob, premio Nobel per la medicina nel 1965, la seconda è di Telmo Pievani, storico della Scienza.
«Probabilmente è un’esigenza della mente umana avere una rappresentazione del mondo unificata e coerente. Se manca, compare l’ansia e la schizofrenia. E bisogna pur riconoscere che in fatto di unità e di coerenza la spiegazione mitica vince di molto su quella scientifica. La scienza, infatti, non mira subito a una spiegazione completa e definitiva dell’universo. Opera soltanto localmente. Procede con una dettagliata sperimentazione su fenomeni che riesce a circoscrivere e definire. Si accontenta di risposte parziali o provvisorie. Magici, mitici o religiosi che siano, gli altri sistemi di spiegazioni invece abbracciano tutto, sono applicabili ad ogni campo, e danno conto dell’origine, del presente e persino del futuro dell’universo. Si possono rifiutare i sistemi di spiegazione offerti dai miti o dalla magia, ma non si può negar loro unità e coerenza perché, senza la minima esitazione, essi rispondono a ogni problema e risolvono ogni difficoltà con un unico e semplice argomento a priori. A prima vista, la scienza sembra meno ambiziosa del mito per i problemi che si pone e le risposte che cerca. In realtà, la nascita della scienza moderna è databile dall’epoca in cui alle questioni generali si sono sostituiti problemi limitati; e invece di chiedersi: “Come è stato creato l’universo? Di che cosa è fatta la materia? Qual è l’essenza della vita?”, ci si è domandati: “Come cade una pietra? Come scorre l’acqua in un tubo? Come circola il sangue nel corpo?”. Questa sostituzione ha avuto un risultato sorprendente: mentre le questioni generali ricevevano solo risposte parziali, le questioni limitate portavano a risposte sempre più generali. E questo è valido ancora anche per la scienza odierna». (François Jacob)
«Asserire che le conoscenze scientifiche sono costantemente rivedibili non significa [...] degradarle a mere opinioni. E' semmai il contrario: se un programma di ricerca è adottato dalla comunità scientifica significa che funziona, che ha resistito finora ai tentativi di falsificarlo. Dunque, per quanto sia sottoposto a incessanti revisioni, quel complesso di acquisizioni è corroborato e attendibile, proprio perchè falsificabile. [...] La falsificabilità è, in ultima istanza, un codice di comportamento basato sulla trasparenza, sulla revisione dei pari e sulla costante auto-correzione dei propri modelli». (Telmo Pievani)
1. la descrizione di aspetti "troppo particolari" del mondo,
2. la potenziale "rivedibilità" di tutti i suoi risultati.
Nel primo caso a domande del tipo "in quanto tempo si ferma un grave che scivola su un piano in presenza di un determinato attrito" si vorrebbe rispondere "ecchissenefrega". Dalla Scienza si vorrebbero sempre grandi domande e soprattutto grandi risposte. Nel secondo caso seppure si possono ottenere certe volte dalla Scienza anche grandi risposte queste non sono mai definitive, sono sempre "falsificabili", e agli occhi di molti rischiano sempre di sfumare in semplici opinioni.
A questo proposito riporto due interessanti affermazioni intorno alla Scienza, ciascuna focalizza uno degli elementi poco affascinanti che ho riportato sopra e lo presenta come un punto di forza del processo di ricerca scientifica, un suo elemento caratterizzante e imprescindibile. La prima (già in parte riportata in un mio post precedente) è di François Jacob, premio Nobel per la medicina nel 1965, la seconda è di Telmo Pievani, storico della Scienza.
«Probabilmente è un’esigenza della mente umana avere una rappresentazione del mondo unificata e coerente. Se manca, compare l’ansia e la schizofrenia. E bisogna pur riconoscere che in fatto di unità e di coerenza la spiegazione mitica vince di molto su quella scientifica. La scienza, infatti, non mira subito a una spiegazione completa e definitiva dell’universo. Opera soltanto localmente. Procede con una dettagliata sperimentazione su fenomeni che riesce a circoscrivere e definire. Si accontenta di risposte parziali o provvisorie. Magici, mitici o religiosi che siano, gli altri sistemi di spiegazioni invece abbracciano tutto, sono applicabili ad ogni campo, e danno conto dell’origine, del presente e persino del futuro dell’universo. Si possono rifiutare i sistemi di spiegazione offerti dai miti o dalla magia, ma non si può negar loro unità e coerenza perché, senza la minima esitazione, essi rispondono a ogni problema e risolvono ogni difficoltà con un unico e semplice argomento a priori. A prima vista, la scienza sembra meno ambiziosa del mito per i problemi che si pone e le risposte che cerca. In realtà, la nascita della scienza moderna è databile dall’epoca in cui alle questioni generali si sono sostituiti problemi limitati; e invece di chiedersi: “Come è stato creato l’universo? Di che cosa è fatta la materia? Qual è l’essenza della vita?”, ci si è domandati: “Come cade una pietra? Come scorre l’acqua in un tubo? Come circola il sangue nel corpo?”. Questa sostituzione ha avuto un risultato sorprendente: mentre le questioni generali ricevevano solo risposte parziali, le questioni limitate portavano a risposte sempre più generali. E questo è valido ancora anche per la scienza odierna». (François Jacob)
«Asserire che le conoscenze scientifiche sono costantemente rivedibili non significa [...] degradarle a mere opinioni. E' semmai il contrario: se un programma di ricerca è adottato dalla comunità scientifica significa che funziona, che ha resistito finora ai tentativi di falsificarlo. Dunque, per quanto sia sottoposto a incessanti revisioni, quel complesso di acquisizioni è corroborato e attendibile, proprio perchè falsificabile. [...] La falsificabilità è, in ultima istanza, un codice di comportamento basato sulla trasparenza, sulla revisione dei pari e sulla costante auto-correzione dei propri modelli». (Telmo Pievani)
domenica 13 ottobre 2013
Frequentazioni utili
Trovo sempre utile parlare con gli insegnanti, probabilmente perché mi interessano i loro argomenti. Ultimamente in una breve discussione con loro mi ha colpito un'affermazione su come si insegna la matematica in certi tipi di scuole secondarie, molto netta (e per questo mi ha colpito) ma riportata da addetti ai lavori di cui non ho motivo di dubitare. Pare che i programmi di matematica per alcuni licei (tra quelli nuovi tirati fuori dall'ultima riforma) debbano essere svolti escludendo sistematicamente tutte le dimostrazioni delle affermazioni che si insegnano. Inquietante.
Beninteso, molte dimostrazioni, specialmente quelle di carattere troppo tecnico, sarebbero un inutile appesantimento al programma e credo anche che nell'insegnamento della matematica si debba prevalentemente far leva sull'immaginazione e sull'intuito, capacità fondamentali per questa disciplina (come per tutte le discipline scientifiche). Ma l'esclusione sistematica dei procedimenti dimostrativi toglie un pezzo sostanziale allo studio, conducendo facilmente (e pericolosamente) al rischio di ridurre tutto a nozioni disconnesse, regolette mnemoniche e algoritmi per svolgere esercizi. Affrontare qualche dimostrazione (e ce ne sono di semplici, belle e non tecniche) fa capire nell'unico modo efficacie possibile come si combinano l'intuito e l'immaginazione con i vincoli del procedimento logico-deduttivo, un rapporto fecondo tra capacità essenziali della mente umana da cui scaturisce tutto lo sviluppo della matematica.
Ne va della comprensione della matematica come "fatto di cultura", cruciale nella formazione di uno studente. A questo proposito nell'ambito della stessa discussione è stato fatto un esempio significativo, che mi pare si colleghi in modo quasi immediato al pericolo appena paventato. Le stesse persone che si dimostrano in grado di risolvere equazioni algebriche ed eseguire studi di funzione rispondono in modo inesatto (in una buona percentuale di casi) a questioni tipo: "dato un numero di dieci cifre indicare la posizione delle decine di migliaia". Detto così risulta una cosa sconcertante (e magari, spero, è stata portata come un esempio un po' forzato) ma ribadisce in modo chiaro il pericolo di trasformare studenti di matematica della scuola secondaria in meri esecutori di algoritmi (in un'era, peraltro, dominata dall'informatica!).
Il rischio, forse troppo apocalittico ma non del tutto campato in aria, è quello di costruire nel tempo una società in cui scompaiono progressivamente le conoscenze matematiche dalla cultura media delle persone a fronte di una loro concentrazione in un ristretto ambito di specialisti. Sapendo quanto queste conoscenze risultino cruciali per una società tecnologicamente avanzata, la cosa mi provoca una certa inquietudine.
Beninteso, molte dimostrazioni, specialmente quelle di carattere troppo tecnico, sarebbero un inutile appesantimento al programma e credo anche che nell'insegnamento della matematica si debba prevalentemente far leva sull'immaginazione e sull'intuito, capacità fondamentali per questa disciplina (come per tutte le discipline scientifiche). Ma l'esclusione sistematica dei procedimenti dimostrativi toglie un pezzo sostanziale allo studio, conducendo facilmente (e pericolosamente) al rischio di ridurre tutto a nozioni disconnesse, regolette mnemoniche e algoritmi per svolgere esercizi. Affrontare qualche dimostrazione (e ce ne sono di semplici, belle e non tecniche) fa capire nell'unico modo efficacie possibile come si combinano l'intuito e l'immaginazione con i vincoli del procedimento logico-deduttivo, un rapporto fecondo tra capacità essenziali della mente umana da cui scaturisce tutto lo sviluppo della matematica.
Ne va della comprensione della matematica come "fatto di cultura", cruciale nella formazione di uno studente. A questo proposito nell'ambito della stessa discussione è stato fatto un esempio significativo, che mi pare si colleghi in modo quasi immediato al pericolo appena paventato. Le stesse persone che si dimostrano in grado di risolvere equazioni algebriche ed eseguire studi di funzione rispondono in modo inesatto (in una buona percentuale di casi) a questioni tipo: "dato un numero di dieci cifre indicare la posizione delle decine di migliaia". Detto così risulta una cosa sconcertante (e magari, spero, è stata portata come un esempio un po' forzato) ma ribadisce in modo chiaro il pericolo di trasformare studenti di matematica della scuola secondaria in meri esecutori di algoritmi (in un'era, peraltro, dominata dall'informatica!).
Il rischio, forse troppo apocalittico ma non del tutto campato in aria, è quello di costruire nel tempo una società in cui scompaiono progressivamente le conoscenze matematiche dalla cultura media delle persone a fronte di una loro concentrazione in un ristretto ambito di specialisti. Sapendo quanto queste conoscenze risultino cruciali per una società tecnologicamente avanzata, la cosa mi provoca una certa inquietudine.
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