sabato 30 novembre 2024

La Messa in Si Minore e il concerto borghese

Sono andato ad un concerto dove veniva eseguita per intero la Messa in Si Minore di J.S.Bach. Si tratta di una collezione di brani per soli, coro e orchestra, che si articolano nelle cinque sezioni della messa latina dell'ordinario: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. La durata complessiva è di circa 1 ora e 40 minuti, più o meno.

Il concerto è stato molto bello ma secondo me aveva un difetto (che oggi tolleriamo senza problemi), era anacronistico e fuori contesto. L'opera in questione non solo non è mai stata concepita per le sale da concerto che all'epoca, prima metà del '700, praticamente non esistevano, almeno non come le conosciamo adesso, ma non è mai stata eseguita per intero con l'autore vivente.

Una messa del genere, di queste dimensioni, non era utilizzabile per nessuna occasione religiosa, i vari brani venivano utilizzati separatamente in varie occasioni ma mai tutti insieme. Lo dimostra anche il fatto che l'autore ha costruito quest'opera come un assemblaggio di brani diversi, scritti in occasioni diverse e per scopi diversi nell'arco di circa 25 anni di carriera. L'equivalente di una "raccolta di racconti" o di una "mostra di quadri" legati da un filo conduttore che è appunto la messa del rito cattolico (cosa peraltro curiosa, visto che l'autore era luterano). Quello che ne è venuto fuori, e forse era anche l'intenzione dell'autore, è come si suol dire una "summa" della letteratura vocale sacra di tutto un periodo musicale (il barocco).

La trasformazione di un'opera del genere, legittimamente fruibile "a pezzi", in un concerto unico per il pubblico, ben difficile da digerire tutto intero, è figlia della cultura del Romanticismo e della nascita del concerto pubblico per la borghesia pagante, qualcosa di molto lontano dal contesto culturale che ha prodotto un capolavoro come la Messa in Si Minore, e che invece rappresenta ancora il nostro modo non solo di fruire la musica, ma tutta l'arte.

L'idea di esporre le opere d'arte della nostra storia culturale ad un pubblico che la "subisce" tutta intera in "riti sacri" interminabili non mi pare francamente la scelta migliore, anche se è di fatto la regola del nostro tempo (che forse le nuove tecnologie stanno progressivamente scardinando). L'esempio più rappresentativo è quello della pinacoteca, un'esperienza spesso pesantissima, che si conclude tipicamente, dopo un certo tempo fisiologico ben inferiore al tempo necessario per esaurire la visita, facendo finta di vedere i quadri che ti passano davanti.

Riporto a questo proposito una frase divertente e significativa di Philippe Daverio, storico dell'arte, che rende perfettamente l'idea: "La gente di solito va nei musei e guarda quattrocento quadri in un’ora e mezza. Torna con dei piedi gonfi così e va alla ricerca di una Coca-Cola tiepida per dimenticare l’esperimento. I luoghi dove stanno i quadri si chiamano pinacoteche, come esistono i luoghi dove stanno i libri che si chiamano biblioteche. Nessuno va in biblioteca e legge tutti i libri. Uno che va in una pinacoteca, in un museo, dovrebbe andare a vedere due quadri. All’inizio, a mio parere, addirittura uno solo. Quello che ha fatto il quadro spesso ci ha messo due anni a farlo. O anche due mesi a farlo… Cosa mi dà il diritto di guardarlo in venticinque secondi? Quando erano in Chiesa, la gente li vedeva da quando nasceva a quando moriva: tutta la vita. E adesso deve vederlo in un minuto mentre sta correndo al quadro prossimo?"


domenica 24 novembre 2024

Cani randagi in Thailandia

Una delle cose che ho notato in Thailandia è la presenza abbastanza diffusa dei cani randagi (e quasi inesistenti quelli al guinzaglio). Mi ha fatto tornare in mente gli anni in cui se ne trovavano anche nel mio quartiere periferico di Roma. Avevano delle caratteristiche che difficilmente si vedono sui nostri cani domestici.

Tendono a riunirsi in piccoli nuclei sociali che vivono ai margini degli ambienti umani, utili per trovare cibo e riparo. Non si lasciano avvicinare troppo, sono abituati alla compagnia dell'uomo ma si mostrano anche abbastanza diffidenti. Non sono sempre in cerca di carezze e di un padrone che li porti in giro, si muovono in modo del tutto autonomo con i loro simili.

In pratica non sono riuscito mai ad avvicinarmi abbastanza ai cani thailandesi per poterli accarezzare. Anche se sonnecchiavano al caldo avevano sempre un occhio aperto. Il loro aspetto risentiva dello stile di vita randagio: non troppo belli, un po' spelacchiati, non sempre pasciuti, con piccole ferite qua e là, razze piuttosto omogenee, senza troppe caratteristiche diversificate, segno di numerosi incroci non "progettati".

Ho pensato che in fondo questa loro diffidenza è del tutto naturale e condivisa anche da noi esseri umani. Quando mai una persona si farebbe accarezzare dal primo che capita? E quando mai ci sogneremmo di fare complimenti al primo che passa, come invece siamo soliti fare con i cani al guinzaglio. Quei cani thailandesi non ispiravano un comportamento "puccioso", un commento tipo "cucciolooo!!" o "ma che amooore!!". Per certi versi erano individui che transitavano per strada come tutti gli altri individui di specie umana, degni di rispetto, niente di più.

Quello che mi ha colpito è l'aver riconosciuto (e ricordato) un animale libero e rispettabile, che noi non vediamo più.


domenica 10 novembre 2024

Le progressioni e l'importanza di Corelli

In un post del 12 marzo 2023 elencavo le trasformazioni più comuni di un disegno melodico utilizzate nella nostra tradizione musicale. Tra queste c'erano le traslazioni nello spazio sonoro (spostamento del disegno melodico più in alto o più in basso) e le traslazioni nel tempo (ripetizioni in momenti diversi dello stesso disegno melodico). Se si combinano queste due trasformazioni si ottiene una figura musicale detta progressione, costituita dalla ripetizione del disegno melodico spostandolo ad ogni ripetizione verso l'alto (progressione ascendente) o verso il basso (progressione discendente).

In una vecchia trasmissione radiofonica si commentavano alcuni brani di J. S. Bach e si faceva notare come il musicista facesse un uso sistematico delle progressioni, da una parte sfruttando la loro regolarità, che consente all'ascoltatore di "fissare l'idea", e dall'altra cercando delle "rotture di simmetria" che facessero uscire in modo efficace dal loop. Un equilibrio tra regolarità e invenzione.

Non avevo mai notato in modo così evidente questo particolare stilistico, e adesso lo vedevo dappertutto. E' come quando si nota una cosa su cui non si era mai fissata l'attenzione, e da quel momento in poi la si riconosce ovunque. Mi ricordo però di aver pensato che una figura del genere la si può realizzare solo al momento in cui sono state sistemate le questioni del temperamento degli strumenti e del passaggio da una tonalità all'altra. Due cose che sono state messe a punto proprio tra la fine del seicento e l'inizio del settecento.

Oggi trovo la conferma di questa semplice considerazione leggendo un brano di un testo di storia della musica (Donald Jay Grout, "Storia della musica in occidente") dove l'autore attribuisce l'invenzione e l'uso della progressione ad Arcangelo Corelli, un musicista della generazione precedente a quella di Bach, e la collega proprio alla maturazione del sistema tonale ottenuta all'incirca in quel periodo. Il brano in questione è riportato qui sotto.

"Un espediente tecnico fondamentale, presente in tutta la musica di Corelli, è la progressione. Non a caso Corelli, il primo importante compositore barocco a fare un uso ampio e sistematico di questi mezzi strutturali, fu anche il primo a scrivere musica in cui siamo di fronte ad una realizzazione piena della tonalità maggiore-minore [...]. La progressione, sia condotta diatonicamente in un'unica tonalità, sia modulante in senso discendente nel ciclo delle quinte, resta sempre uno dei mezzi più efficaci per stabilire il senso della tonalità. Corelli [...] stabilì i principi dell'architettura tonale elaborati e ampliati da Handel, Vivaldi, Bach e da tutti gli altri compositori della generazione successiva".


sabato 2 novembre 2024

La bufala della terra piatta

Rileggendo stralci di un testo di Lucio Russo mi è ritornato in mente l'episodio tragicomico dell'ex-ministro della cultura, dimessosi per questioni ancora più gravi delle sue pur numerose e imbarazzanti gaffes, di cui ho scritto qui. Lucio Russo, storico della scienza, titola un paragrafo esattamente come questo mio post (in realtà è il viceversa, ovviamente) e sostiene che la credenza della terra piatta nella storia medievale in realtà non c'è mai stata, se si esclude qualche fonte isolata poco rappresentativa. Sostiene invece che nel secolo dei lumi comincia a diffondersi l'idea (questa si una credenza sbagliata) che la sfericità della terra sia una conquista della modernità. In pratica una bufala, mandata in giro evidentemente da chi tendeva ad avere una visione del proprio tempo come portatore di conoscenza razionale in contrapposizione al passato, soprattutto medioevale, oscurantista e irrazionale.

La cosa che mi ha attirato l'attenzione è che lo storico riporta due citazioni curiose, una di Voltaire e l'altra di Thomas Jefferson. Nella prima Voltaire afferma che la rotondità della terra viene affermata dai grandi navigatori (Colombo, Vespucci e Magellano) contro la volontà e il potere della chiesa cattolica. Nella seconda addirittura Jefferson, sempre in polemica anticattolica, sostiene che "Galileo fu sottoposto al giudizio dell'Inquisizione per aver affermato che la terra era una sfera".

Pare che sia tuttora riportata in libri scolastici la falsa storia, diffusa da Washington Irving nella sua biografia romanzata di Cristoforo Colombo (1828), che "i dotti dell'Università di Salamanca avrebbero considerato inattuabile il progetto del navigatore genovese perché convinti che la terra fosse piatta". Addirittura Russo riporta un brano di Umberto Eco del 1964 che asseconda questa credenza (anche se io, incredulo, ho poi trovato in rete sia questo brano che un articolo di Eco, molto più recente, del 2003, che dice l'opposto).

Quindi sembrerebbe che "nell'immaginario collettivo è ben radicata una falsa storia della cultura, parallela a quella reale, formata da leggende che debbono la loro tenace popolarità alla funzione ideologica svolta". Evidentemente il nostro ex-ministro della cultura, dichiaratamente cattolico, è vittima di questo immaginario collettivo di origine anticattolica.

NOTA: l'interessante tesi storica di Lucio Russo in relazione a questo e ad altri problemi simili è quello della "fossilizzazione delle conoscenze", di cui ho parlato in questo vecchio post.