All'indomani del referendum che poneva quattro quesiti sul lavoro e uno sulla cittadinanza, leggo che l'affluenza è stata del 30% e sul quesito sulla cittadinanza il 35% dei votanti ha scelto il no (sugli altri quesiti hanno votato no il 12-14% dei votanti). Mentre torno a casa dall'ufficio ripenso a questa cosa e, nel parcheggio sotto casa, scrivo quello che la sera, dopo qualche ritocco decido di pubblicare su Facebook. Il testo è questo:
"Peccato soprattutto per il quesito sulla cittadinanza. Perché significa che forse per la maggioranza di noi l'integrazione non è un valore, anzi, forse è un problema.
Perché significa che forse per molti di noi la cittadinanza è un merito, e non un diritto (noi, che la cittadinanza ce l'abbiamo senza mai averla meritata, semplicemente perché non è un merito).
Perché significa che se una piccola minoranza di persone che vivono insieme a noi ha problemi per non avere la cittadinanza, e noi potevamo in parte risorvergli il problema con un semplice referendum, ce ne siamo disinteressati, non l'abbiamo visto come un problema anche nostro.
Perché forse una parte di noi non è andato al seggio per compiacere la maggioranza che aveva votato, ignorando di farlo sulla pelle delle persone più deboli (e che dire di tutti quelli che proprio a questo quesito sono andati per votare no?).
Tutto questo per me è un segno di inciviltà, non trovo altra modo per definirlo.
Un referendum senza quorum e senza cuore. E diciamola tutta, anche senza cervello."
Oggi mi rendo conto che l'ultima frase, aggiunta poco prima della pubblicazione, è forse la più azzeccata. Non si tratta di avere cuore, non credo sia quello il problema, anzi, se per cuore si intende un misto di sentimenti, emozioni e paure forse è proprio quello che dovremmo evitare. Si tratta più di avere cervello, inteso come razionalità, capacità di vedere, analizzare e valutare i problemi, senza pregiudizi, quella qualità che ci tiene coi piedi per terra, dentro la realtà.
Un post scriptum sui quesiti sul lavoro:
Mi sembrava ci fosse una differenza significativa tra il quesito sulla cittadinanza e quelli sul lavoro. Il primo piuttosto chiaro sia nelle sue motivazioni che nelle sue conseguenze, gli altri molto meno valutabili da un cittadino medio, soprattutto nelle loro conseguenze, chiare solo quando venivano opportunamente semplificate a parole dai suoi promotori. Ma non è questo che mi aspetto da un quesito referendario. La mediazione dei promotori per capire un problema sollevato da un referendum altrimenti difficilmente valutabile è una cosa che non mi convince.
Mi viene anche il dubbio che l'eccesso di tecnicismi incomprensibili e non valutabili esattamente da un cittadino medio è una minaccia al valore delle conoscenze e competenze, come valutare una malattia e le sue conseguenze, o un trattamento sanitario (vedi vaccini) senza essere un addetto ai lavori. Delegare cose incomprensibili alla cittadinanza rischia di essere una forma di populismo, quantomeno una strumentalizzazione.