sabato 21 giugno 2025

Apprendimento supervisionato a scuola: il caso della matematica

È un po' bizzarro constatare che certi insegnamenti a scuola, uno su tutti quello tradizionale della matematica (ma non solo), procedono verso gli studenti in modo insolitamente analogo ad un addestramento supervisionato per IA.

Tipicamente nello studio della matematica a scuola si tende a condensare molto sulle questioni di teoria, si cerca di non farla troppo difficile, si enunciano risultati derivati da teoremi senza appesantire con l'analisi dei processi dimostrativi. Si arriva quindi a fornire lo studente di un bagaglio teorico minimo che si traduce in una serie di tool concettuali e di tecniche con cui si passa alla fase di addestramento allo scopo di impossessarsi di tali strumenti.

La fase di addestramento supervisionato consiste nell'eseguire un numero molto alto di esercizi sotto il continuo controllo delle soluzioni (etichettatura). In questa fase lo studente interiorizza i metodi di lavoro e opera (si spera) una generalizzazione che gli permetterà successivamente di affrontare qualunque esercizio nuovo, esterno al pool di addestramento.

Questa raggiunta capacità deve però essere testata, messa alla prova. E allora si organizza un secondo pool, di dimensioni ridotte e sconosciuto allo studente, senza etichette, per misurare le sue performance. Si organizza quella che in gergo scolastico si chiama "verifica". Il punteggio di questa performance finisce per definire il grado di abilità raggiunto e viene inserito nel registro elettronico dello studente.

Occorre controllare la durata della fase di addestramento, bilanciandola con la dimensione del pool fornito. Questo perché l'eccessivo lavoro sempre sugli stessi dati (esercizi) potrebbe generare fenomeni negativi di "overfitting". In questo caso l'apprendimento può arrivare ad essere troppo legato agli esercizi del pool di addestramento, il che potrebbe determinare una parziale incapacità di generalizzare l'abilità a risolvere esercizi nuovi esterni al pool di addestramento, in pratica lo studente vede troppe volte le stesse cose e tende ad imparare a memoria i passaggi matematici che vive in fase di addestramento, senza assimilarli veramente. Questo abbassa il livello di performance sulla verifica e il suo corrispondente punteggio nel registro elettronico.

Se lo studio di una materia così cruciale per la futura capacità di interpretare la complessa realtà che ci circonda viene ridotta ad un addestramento supervisionato, allora forse ci potrebbe essere un qualche rischio, in un futuro distopico, di soccombere alle macchine.


lunedì 16 giugno 2025

Problemi di divulgazione scientifica

In una chat in cui si parla di divulgazione scientifica e si riportano esperienze di questo tipo, un membro reduce da una lezione a scuola in cui si parlava di argomenti di astrofisica e forse cosmologia, riceve alla fine questa domanda da una studentessa che si era mostrata particolarmente interessata agli argomenti: "Io sono cristiana, lei davvero crede che l'evoluzione ci sia stata? Non è in contraddizione con quanto dice la Bibbia?".

La risposta del relatore non poteva che essere un po' vaga, difficile prendere di petto un'osservazione del genere. Io rimango colpito dalla situazione e in chat mi getto in una risposta articolata che fa così: 

L'evoluzione è un'evidenza scientifica, un modello teorico corroborato da innumerevoli riscontri sperimentali e osservativi, a tutte le scale del vivente. Non è una questione di crederci o meno, non è una credenza. Peraltro è attualmente il framework su cui si articolano tutte le conoscenze della biologia moderna. Uno scienziato diceva “Niente in biologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione” (Dobzhansky). Se poi si parla di fede il discorso si trasferisce in un piano completamente diverso. Giorgio Parisi da qualche parte ha scritto che la scienza cerca di spiegare il mondo con le cose del mondo, la fede cerca di spiegarlo con cose che lo trascendono. I due domini sono completamente diversi. Se infine si parla di istinto religioso (o sentimento religioso) quello è ancora un'altra cosa ed è proprio anche dell'atteggiamento di uno scienziato. Si tratta di un comportamento evolutivo. Riconoscersi un istinto religioso non significa essere necessariamente credenti, soprattutto se questo significa abbracciare una fede, una religione, una dottrina, ecc.

Ma il punto importante di tutto questo sproloquio alla fine è che si deve ammettere che la domanda della ragazza era completamente sbagliata anche per come veniva posta. Confondeva piani affatto diversi, dimostrando che nonostante tutto il suo interesse per gli argomenti trattati il suo modo di pensare era di fatto alieno alla scienza. E' questo tipo di cose che mi fanno pensare che avere delle nozioni scientifiche non garantisce una cultura scientifica, purtroppo. E' anche il motivo per cui penso che la divulgazione scientifica, e in generale l'educazione scientifica, anche quella impartita nelle scuole, è veramente roba difficile.

Credo che nell'educazione alla conoscenza scientifica si debba sempre evitare di raccontare quante cose sappiamo, e puntare invece su come siamo arrivati a saperle. Perché la cultura scientifica non sta nel prodotto finale (quello che sappiamo e che possiamo raccontare in qualsiasi momento come una storiella) ma nei processi di costruzione della conoscenza.


 

giovedì 12 giugno 2025

Referendum senza quorum

All'indomani del referendum che poneva quattro quesiti sul lavoro e uno sulla cittadinanza, leggo che l'affluenza è stata del 30% e sul quesito sulla cittadinanza il 35% dei votanti ha scelto il no (sugli altri quesiti hanno votato no il 12-14% dei votanti). Mentre torno a casa dall'ufficio ripenso a questa cosa e, nel parcheggio sotto casa, scrivo quello che la sera, dopo qualche ritocco decido di pubblicare su Facebook. Il testo è questo:

"Peccato soprattutto per il quesito sulla cittadinanza. Perché significa che forse per la maggioranza di noi l'integrazione non è un valore, anzi, forse è un problema.

Perché significa che forse per molti di noi la cittadinanza è un merito, e non un diritto (noi, che la cittadinanza ce l'abbiamo senza mai averla meritata, semplicemente perché non è un merito).

Perché significa che se una piccola minoranza di persone che vivono insieme a noi ha problemi per non avere la cittadinanza, e noi potevamo in parte risorvergli il problema con un semplice referendum, ce ne siamo disinteressati, non l'abbiamo visto come un problema anche nostro.

Perché forse una parte di noi non è andato al seggio per compiacere la maggioranza che aveva votato, ignorando di farlo sulla pelle delle persone più deboli (e che dire di tutti quelli che proprio a questo quesito sono andati per votare no?).

Tutto questo per me è un segno di inciviltà, non trovo altra modo per definirlo.
Un referendum senza quorum e senza cuore. E diciamola tutta, anche senza cervello."

Oggi mi rendo conto che l'ultima frase, aggiunta poco prima della pubblicazione, è forse la più azzeccata. Non si tratta di avere cuore, non credo sia quello il problema, anzi, se per cuore si intende un misto di sentimenti, emozioni e paure forse è proprio quello che dovremmo evitare. Si tratta più di avere cervello, inteso come razionalità, capacità di vedere, analizzare e valutare i problemi, senza pregiudizi, quella qualità che ci tiene coi piedi per terra, dentro la realtà. 

Un post scriptum sui quesiti sul lavoro:

Mi sembrava ci fosse una differenza significativa tra il quesito sulla cittadinanza e quelli sul lavoro. Il primo piuttosto chiaro sia nelle sue motivazioni che nelle sue conseguenze, gli altri molto meno valutabili da un cittadino medio, soprattutto nelle loro conseguenze, chiare solo quando venivano opportunamente semplificate a parole dai suoi promotori. Ma non è questo che mi aspetto da un quesito referendario. La mediazione dei promotori per capire un problema sollevato da un referendum altrimenti difficilmente valutabile è una cosa che non mi convince.

Mi viene anche il dubbio che l'eccesso di tecnicismi incomprensibili e non valutabili esattamente da un cittadino medio è una minaccia al valore delle conoscenze e competenze, come valutare una malattia e le sue conseguenze, o un trattamento sanitario (vedi vaccini) senza essere un addetto ai lavori. Delegare cose incomprensibili alla cittadinanza rischia di essere una forma di populismo, quantomeno una strumentalizzazione.